Interludio: Oscuro (mag, lug 75QE, Grande Harad) | Pagina 2 | Terra Di Mezzo | Forum

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Interludio: Oscuro (mag, lug 75QE, Grande Harad)
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Ottobre 24, 2007 - 11:46 pm

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Costrinse il suo corpo a restare immobile sul letto di cuscini, dicendosi che almeno la sua carne avrebbe trovato un poco di riposo, se avesse fatto credere a Ba di esser venuta meno, anche se la sua mente continuava a ribellarsi. I pensieri di una donna migliore sarebbero stati rivolti esclusivamente al dolore dei suoi amici e alle loro vite in pericolo; Tuija temeva che una parte dei suoi andassero a sé stessa, sola nella stanza. Attese che Ba fosse uscito, chiamato dai suoi servi; quando non riuscì più a sopportare l’immobilità, si alzò dal letto, e si mosse verso le tende che separavano la stanza dai corridoi, come un fantasma.
Dalla sala grande salivano i suoni degli uomini che portavano via i corpi e si preparavano ad andar via. Ba l’aveva fatta liberare e lavare poco dopo che avevano condotto Suri nel sotterraneo. Ba le aveva fatto male. Ba aveva fallito anche questa volta, perché Tuija non aveva detto niente, non aveva urlato, non aveva tradito.

Il corridoio più grande era vuoto. Si avventurò in silenzio verso le scale. Si disse che sarebbe stata molto, molto attenta, che non si sarebbe lasciata prendere da nessuno, questa era forse l’unico momento, un attimo da non perdere, e fosse stato solo per pochi altri momenti, ci sarebbe riuscita, sarebbe scappata. Solo pochi momenti, nulla di più, aveva solo questi, solo questi per salvare la vita di Khalid e Suri e delle altre donne …

“Ti stanno aspettando.”

La voce di Anysa fu un impercettibile sussurro nelle sue orecchie.
Non si fermò. Quello avrebbe rivelato ad Anysa che era sconvolta dalla paura. Invece si grattò la spalla, cogliendo l’occasione per girare la testa e gettarsi un’occhiata alle spalle. La vide vicino ad una grande tenda scura; il suo viso era nascosto dalle ombre create dalle fiamme delle lampade e dei bracieri, ma era lei.

“Annusa.”

Così fece, una breve inspirazione seguita da un respiro più profondo. La traccia di un odore. Sudore, e marcio; odore di morte. Cercò con gli occhi, e le si gelò il sangue. Là, all’estremità opposta del corridoio, nascosto nel vano di un’arcata, vicino alle scale che portavano in basso. Lo spettro. L’orribile spettro che era stato Zana, un tempo; la bruna e snella Zana, dagli occhi sempre semichiusi. Molto astuta. Molto abile, e delicata. Molto più pericolosa e orrenda, ora. Che sciocca era stata, a credere di poter scappare.

“E’ uno strumento” , le disse Anysa con un sibilo. “Noi siamo solo strumenti. Non facciamo nulla di nostra volontà.”

Tuija rimase immobile, con la gola seccata, sgomenta per la rabbia che sentiva dentro. “Tu sei diventata come loro! Sei un’assassina!” disse indignata.
“Parla piano. Io non ho ucciso nessuno.”

Tuija non disse nulla. Non era più la fanciulla che andava a caccia e giocava con lei nella neve di Vaisala. La sua voce, il suo modo di parlare erano diversi, e non la vedeva negli occhi.

“A volte il meglio che puoi fare è soltanto cercare di non fare peggio”, disse Anysa. “A volte dobbiamo rassegnarci a questo. Non siamo noi che muoviamo la ruota, Tuija. L’azione di Suri di stanotte è stata imprudente.”
“Non credo che Khalid, che sta morendo là sotto, sarebbe d’accordo. E anche Suri morirà, se non lo aiutiamo; non riesce a parlare, è pallido e ha freddo.”
“Suri è morto, Tuija. Respira e sembra ancora vivo, ma è già morto. E’ una delle magie di mio padre; Suri vivrà solo rubando la vita degli altri adesso, e poco a poco scivolerà nell’Ombra.”

Tuija la guardò e sospirò, e la rabbia e la forza l’abbandonarono. Si sentì di nuovo sconfitta, nient’altro che una bambola di pezza rotta, nelle mani di Ba.

“Khalid avrebbe potuto fare come Zalarit e mio padre gli avevano chiesto”, disse Anysa. “Arrendersi e convivere con il suo dolore, così come mio padre e io conviviamo con il nostro. E anche tu. Pensa a che cos’è il Maestro; egli sa così tante cose. Pensa a cos’ero prima. Una donna senza madre, che non aveva nient’altro che una piccola casa di legno nella neve e l’intera giornata di lavoro davanti a sé per trovar da mangiare, quel poco per non morire di fame. E mio padre? Soltanto l’immagine di un vecchio traballante e smemorato, utile forse come fantoccio ma inoffensivo quanto bastava. Adesso sappiamo tutto.”
“Khalid non vi ha detto nulla” , disse Tuija con riluttanza.
“Non ce n’è bisogno. Ormai è stato tutto svelato. Ba possiede la chiave, il Maestro ha vinto.”

Abbassò la testa, come vergognandosi. C’era qualcosa, nella sua voce. Quello che stava dicendo non aveva, per Tuija, nessun senso, ma c’era qualcosa. Tuija si aggrappò a quella sola speranza.

“Mi dispiace” disse piano. “Mi dispiace di averti detto che sei un’assassina. A volte dimentico che tu per me sei così tanto, ti voglio tanto bene, anche se non siamo mai state vicine da quando siamo andate via da Vaisala. Possiamo parlare sottovoce, Anysa, dei ricordi di quei giorni che non ci sono più, ma non è la stessa cosa. Siamo come due straniere adesso, in trappola in queste terre dove siamo arrivate, senza poter tornare a casa nostra, possiamo solo continuare a dirci che il posto dove vivevamo è esistito davvero. Almeno, una volta ci riuscivamo.”
Tuija piangeva, adesso. Piangeva piano. Il silenzio la riempì.

Anysa sembrò guardarla. Sembrò annuire. Pensava a due bambine ormai grandi che correvano come pazze sulla spiaggia di fronte alla casa dei Valdacli, in quell’unica estate passata assieme, staccando mitili dalle rocce e mangiandoli crudi. Tuija e lei. A volte, era possibile provare nostalgia per un’età della vita, e sentire la mancanza della sola persona che poteva ricordare nello stesso modo quei momenti; Anysa non aveva mai pianto, aveva perso tanti amici e persone care e non aveva pianto, non ne era capace. Ma nessun dolore dentro di lei era stato così amaro, così definitivo. Quel dolore, solo per un momento, l’avvolse, e qualcosa, nella sua anima, si risvegliò. Emise un respiro, e parlò continuando a restare nel buio.

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“Ah. In ogni modo. Stanotte ci dedichiamo a non fare peggio, Tuija. Ascoltami. Puoi ancora salvare Khalid e Suri; dentro quei corpi morti, sotto le droghe e le magie che li stordiscono e il dolore selvaggio, ci sono ancora degli uomini. Dovranno soffrire molto ma Ciryaher li può aiutare. Devi darmi la tua parola. Io non sarò con te, quando verrà il sole, ma tu farai quello che ti dico. Lo spettro dormirà, e Ba avrà tante altre cose da fare, perché presto arriveranno gli uomini di Mobarek. Ma devi fare quello che ti dico, adesso e anche quando sarai libera. Me lo prometti?”

Tuija pensò per un momento. Poi serrò le labbra, si asciugò le lacrime con il dorso della mano, e rispose: “Ti prometto che tenterò. Ti basta?”

[size=2]Liberamente tratto da "L'Assassino Di Corte", di Robin Hobb[/size]

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22
Ottobre 28, 2007 - 12:28 am

“Ero sicuro che la paura per la sorte dei suoi amici l'avrebbe sopraffatto”, disse Fuinur, l’Elfo. “Ma alla fine non fa differenza. Una lunga ricerca, ormai terminata. E’ qui e provo una sensazione di conoscenza, come se l’avessi già vista.”
“E’ venuta da Ostelor, assieme ad Arakhon”, disse Ba.
“Ecco il motivo, allora”, rispose Fuinur.

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Il vuoto andò alla deriva in mezzo alla luce e in mezzo al vuoto si librò l’Elfo. Ba si sentiva galleggiare come nell’acqua, circondato dalle tenebre, il buio totale del nulla assoluto. Solo l’Elfo era luce. Ba salì, finché all’improvviso non si trovò di fronte a una porta, ruvida e scheggiata e vecchia. Una porta che non ricordava.

“E’ questa la Soglia?”, chiese.
“Poco importa”, rispose l’Elfo. “Nulla di ciò che vedi è reale, e quando la tocchi, essa svanirà. Ma, si, lo è; io la vedo così. Cerca di ricordare; nella realtà apparirà differente, ma i dettagli saranno uguali.”

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Ba, intimorito eppure divorato dalla bramosia di sapere, la toccò, e la porta esplose in mille pezzi. Mentre le schegge ancora ricadevano, l’ingresso dietro ad essa rimpicciolì e scomparve, e Ba rimase in piedi su una scala di roccia dura, resistente e secca, che conduceva in un abisso. Roccia spietata su cui solo i forti potevano sopravvivere, solo esseri duri come le montagne.

“Non puoi oltrepassarla”, disse l’Elfo. “Solo colui che reca con sé la Chiave può farlo. Questo l’hai capito anche tu, nonostante i tuoi limiti.”
“Ma abbiamo la Chiave, adesso.” disse Ba.

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“No, abbiamo la sostanza della Chiave, il sangue dei Kinnlai”, rispose il Maestro. Era apparso nel vuoto, e gettava un’ombra che pulsava così nera da risaltare nella tenebra come sulla neve. “E questo sangue potrà esser sparso, nulla ci lega alla conservazione del corpo in cui scorre, questa volta. Sei stato bravo, Zalarit. Sarai ricompensato. Ma non abbiamo tutto. Non possiamo oltrepassare la Soglia nelle visioni. Essa va trovata nella veglia. Devi ancora prendere il finto menestrello; lui sa dove si trova”, disse. Poi scomparve di nuovo.

"Dov'è Ciryaher?" chiese l'Elfo.
“L’abbiamo cercato e quasi preso”, disse Ba, “ma un Potere l’ha protetto. Per quanto sia forte, qui a Tul Harar, per via dell'incantesimo delle Piccole Cose, l’Ombra di Zanaenia non può muoversi durante il giorno o quando le stelle e la luna sono troppo luminose, e ormai non ho più uomini. Abit è ferita e non è lucida, la droga la stanca; ci vorrà tempo prima che si riprenda del tutto, prima che i nuovi schiavi rispondano ai miei comandi. Arakhon non scapperà di certo, attaccherà e correremo un grande pericolo.”

Ogni pulsazione della luce dell'Elfo creava delle ombre, più nere del buio.

“Per averla toccata, riceverà una punizione che la sua mente non potrebbe neppure concepire. Credi che faccia differenza, che Arakhon scappi o si fermi?”
Le fiamme che circondavano l’Elfo risero. Le facce nelle fiamme piansero all’ilarità del loro padrone. “E’ fuggito da noi in molte occasioni, ma ogni volta l’abbiamo raggiunto e costretto a ingoiare il suo orgoglio condito di lacrime. In molte occasioni si è fermato a combattere e poi, sconfitto, ha strisciato implorando pietà”, disse.
“Non dobbiamo commettere questo errore”, rispose Ba. “Arakhon non striscerà, è un figlio di Numénor. I suoi compagni sono temibili, e la gente li conosce e li ammira. Ci sono altre scelte. Il Telaio, non noi, tesse il Disegno. “
Gli occhi dell’Elfo nelle orbite vuote ruggirono di fiamma, come due fornaci. Non aveva più labbra e il suo viso non si mosse, ma Ba credette di udire un’imprecazione contro i Valar. “Che cosa ne sai, tu, del Telaio?”, urlò. "Hai una scelta, verme, e una sola: mettiti in ginocchio ai miei piedi, servimi bene e ti darò potere sopra i troni; oppure continua a dire cose come quella che hai appena detto e urla mentre vieni sgretolato nella polvere del tempo.”
“Ti chiedo perdono”, disse Ba, inginocchiandosi e abbassando il capo. Poi cambiò posizione, con un’occhiata al di là della scala, quasi a cercare una via di fuga. Che l’Elfo lo pensasse pure; egli serviva il Maestro, non lui. Poi i fuochi morirono, l’Elfo gli riapparve celato dalla sua maschera mortale e quell’ordinario volto gli sorrise in un modo da gelarlo anche nel calore della luce.

“Possiamo radunare altri uomini, sciocco. Presto verranno ancora tanti eserciti che non sei nemmeno in grado di sognarli.”

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Novembre 5, 2007 - 3:01 pm

"Maledizione!! Dov'è finito Suri? E Khirdan? Ma e mai possibile che nessuno mi ascolti quando parlo! Cyriaher! Vieni qui! Devo parlarti!"
disse Arakhon urlando.

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Novembre 11, 2007 - 12:19 am

Le prime folate del vento del deserto furono avvertite poco dopo l’alba. La carovana era ben fuori dalla città, essendo stata portata per tutto il giorno e la notte ben oltre le altre da abili conduttori pagati a peso d’oro. La brezza era cessata completamente fino a una calma piatta e, sotto i tendoni chiusi, dentro ai carri il caldo era soffocante; e tuttavia quelle prime folate furono più roventi ancora.

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Saed

Saed era alla testa dei carri dalle prime luci del giorno, con grandissimo sollievo e senso di liberazione. Zalarit, dopo aver esaminato la chiusura di alcune grandi casse e aver sorvegliato personalmente il loro trasporto da un carro all'altro, aveva detto qualcosa a proposito di traditori e di giuste punizioni, poi si era chiuso in uno di quegli stessi carri e aveva picchiato la sua serva per tutta la notte; la ragazza non urlava, non piangeva, ma gemeva in un modo così sommesso, rassegnato, da entrare nell’anima.
Saed avvertiva qualcosa di strano in quel vento: non soltanto per il suo straordinario calore, come aria uscita da un forno, e il fatto che soffiasse a raffiche inquiete, irregolari, ma qualche altra cosa che non riusciva a definire. Il sole ancora giovane brillava a oriente nel cielo limpido, un sole già terribile, ma attorno alla carovana indugiava una specie di opacità, mentre lungo tutto l’orizzonte, a poca altezza, si scorgeva una fascia di colore arancione scuro, troppo spessa per essere una nube.
“Non so che pensare”, disse a se stesso.

Mentre si voltava per andare a prendere la prima tazza di kafe preparata dal mastro, così meravigliosamente corroborante con quel caldo, Zalarit scese dal suo carro con una bottiglietta in mano.

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“Buongiorno a te”, salutò. “E’ una giornata straordinaria. E anche il calore del sole è straordinario.”
“Sicuramente. In questa carovana è tutto straordinario”, borbottò Saed. “Ti dirò una cosa, Zalarit, la considererei una vera cortesia da parte tua se tu mi dicessi che cosa pensi di quella fascia opaca sull’orizzonte occidentale. Ma non c’è fretta. Prendiamo prima il nostro kafe.”
Zalarit era insolitamente loquace, in specie sull’argomento dei servitori infedeli che fingevano una cosa e ne facevano un altra, e degli scorpioni, che, specie se paragonati a certuni di quei servi, erano tutt'altro che pericolosi. Di scorpioni ne era stato trovato un gran numero sui carri e gli uomini della carovana stavano correndo di qua e di là per ammazzarli. “… comportamento assolutamente terribile … mai lo scorpione attacca senza essere stato provocato … sì, poteva causare qualche disturbo, persino la morte, ma solo raramente … mai, si poteva dire, se non nel caso di individui così miseri da essere già probabilmente condannati in ogni caso.”
“E la tua serva, appunto?” s’informò Saed.
“Ti piace, eh? E come no. Domani sarà in grado di lavorare, rinvigorita dal riposo. E’ giovane e robusta”, diagnosticò Zalarit e in quel momento una raffica di vento li investì. Il kafe schizzò via, e si trovarono avviluppati in una nube fulva di sabbia: sabbia che volava, sabbia sotto le scarpe, sabbia sotto i denti, sabbia attraverso la quale intravedevano appena i contorni dei carri e degli animali. “Bene, bene!” gridò Zalarit. “Proprio come mi aspettavo. Ora, amico mio, vieni con me. Non è un qualsiasi vento, questo, e avremo bisogno dei miei libri!”

E durante tutte le venti ore che seguirono, Saed fu impegnato assieme ai suoi uomini a calmare le bestie e a tenere unita la carovana, e fu interamente assorbito dal problema di dirigerne il cammino seguendo le pazze indicazioni di Zalarit.

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Dicembre 16, 2007 - 11:01 pm

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Il viaggio fino allo uadi Malawi richiese quasi una settimana. Tuija brontolò per la lentezza con cui procedevano, ma era lei a stabilire l’andatura e a costringere gli altri a mantenerla. Verso se stessa e verso il suo cavallo, che aveva chiamato ‘Miekka’ (che significava ‘Spada’ , nella lingua della sua terra) non era molto tenera: percorreva il doppio di strada degli altri, andava al galoppo in avanscoperta, col mantello rosso che svolazzava al vento, per esaminare il terreno, oppure restava indietro a controllare le tracce. Chi tentava d’allungare il passo, però, e in particolare Ghaouti, riceveva rimproveri taglienti perché non si prendeva cura del cavallo e della scorta d’acqua, o commenti mordaci su come se la sarebbero cavata se fossero comparsi gli sgherri di Ba. Nemmeno Farah sfuggiva alle sue frecciate, se si azzardava a far aumentare l’andatura della giumenta bianca.
Le esplorazioni di Tuija non rivelarono mai segni d’inseguimento o pericoli d’imboscate. All’inizio Farah si guardava di frequente alle spalle. Non era la sola: Tuija sfiorava spesso la spada e Ghaouti teneva una freccia incoccata. Ma il territorio era privo di nemici, non c’erano cavalieri dal manto nero, e non si vedeva altro che una moltitudine di carovane. A poco a poco Tuija cominciò a pensare che la fuga di Ba fosse riuscita davvero, e che Suri giacesse abbandonato in qualche anfratto, ormai morto.

Il viaggio era lento, ma non per questo meno faticoso. La Strada Settentrionale (Farah e Ghaouti continuavano a chiamarla così, anche se Farah immaginava che dopo Tul Harad cambiasse nome, al di là del fiume) correva quasi dritta, ma Tuija insisteva per non seguire la strada di terra battuta e faceva frequenti deviazioni qua e là fra le colline. Un villaggio, l’accampamento di una carovana, un segno qualsiasi della presenza di gente, li induceva a compiere un largo giro di diverse miglia. Si fermavano sempre prima che la luce fosse scomparsa, per scegliere un luogo in pendenza per il drenaggio e riparato dal vento che di rado, in quella stagione, cessava completamente, ma in genere cambiava direzione. Il fuoco era sempre piccolo e nascosto; fattosi giorno, Tuija lo spegneva e ricopriva le braci con la terra.

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Farah [Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Gahouti

Alla terza sosta, al calar del sole, Tuija iniziò a Farah l’uso delle armi che portava. Iniziò con la fionda; Farah, evocando davanti ai suoi occhi la fiamma e il vuoto, la calma che rendeva la fionda parte del suo braccio, come le aveva insegnato Ender, fece saltare tre volte il paletto che Tuija aveva messo a cinquanta passi, tre volte una dietro l’altra. Ghaouti si congratulò con lei sorridendole, e batté le mani.
“Ora, se tutt’e due aveste una fionda” disse Tuija, secca, quando loro iniziarono a ridacchiare, “e se Ba fosse d’accordo a non venire troppo vicino, in modo da lasciarvela usare …” I sorrisi svanirono di colpo. “Vediamo cosa posso insegnarvi, nel caso che si avvicinino troppo.”
Mostrò a Farah come adoperare il coltello: colpire un avversario rapidamente e con eleganza era ben diverso da “spaccare legna come fa Ender” , disse, o far roteare la spada per finta. Le diede da fare una serie di esercizi, schivate, parate, attacchi. E insegnò a Ghaouti la lotta: non saltelli scomposti e colpi all’impazzata, ma movimenti sciolti che fluivano l’uno nell’altro, quasi simili a una danza. “Non basta muovere la spada” disse Tuija. “Bisogna usare la mente. E’ la parte più importante. Svuota la mente, Farah. Dimentica odio e paura, qualsiasi emozione. Lo stesso discorso vale anche se si usano lancia o arco, ascia o bastone, perfino le mani nude.”
Farah la fissò. “La fiamma e il vuoto” disse, stupita. “Dici questo, vero? Mio padre me lo ha insegnato.”
Tuija le restituì un’occhiata insondabile. “Ender non è tuo padre. Tieni la spada come ti ho insegnato, fatina del bosco. In una sera non posso mutare in guerriero provetto una bambina dai piedi sporchi di fango, ma forse riuscirò a fare in modo che non ti tagli un piede da sola.”

Ogni notte, controllato l’orizzonte in tutte le direzioni, ciascuno si avvolgeva nelle coperte, tranne Tuija che si allontanava e restava di guardia per un paio d’ore, ritornando quando gli altri erano già addormentati, e si svegliava per prima. Un mattino Tuija, appena alzata, iniziò a sciogliersi la treccia.
Mentre arrotolava le coperte, Farah la osservò con la coda dell’occhio. Tuija si pettinò i capelli … cento colpi di pettine, contò Farah, passando a sellare il cavallo e a legare dietro la sella le bisacce e il rotolo di coperte. Poi Tuija ripose il pettine, si tirò sulla spalla i capelli sciolti e abbassò il cappuccio del mantello.
Sorpresa, Farah le domandò: “Cosa fai?”
Lei gli lanciò un’occhiata di sbieco, senza rispondere. Ma questo non la fece desistere. “Come mai porti sempre i capelli lunghi e perché adesso li sciogli? Dove sono nata io non li portano lunghi. Potrò portarli anch’io così e avere un pettine come il tuo?”
“Di solito nella mia terra le donne non portano i capelli sciolti” rispose Tuija, semplicemente. “A meno che non lo desiderino.”
“Quando torneremo a Tul Harar con Suri, mi darai la spada e sarò una donna come mi hai detto? E mio padre sarà orgoglioso di me? Torneremo presto? Sono passati già tanti giorni, lui sarà molto arrabbiato.”
Tuija arrossì e si girò di scatto.

“E’ ora di andare” disse. Si girò verso Ghaouti, e rabbrividì come se l’avessero lasciata sgusciare via da una trappola; un ragazzo e una bambina. E si domandò se quello che aveva fatto fosse giusto, e quale sarebbe stato il prezzo da pagare per la vita di Suri.

[size=2]Liberamente tratto da "L'Occhio del Mondo" di Robert Jordan[/size]

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Dicembre 30, 2007 - 6:50 pm

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Siamo ormai oltre la mezza estate e il caldo, a Tul Harar è insopportabile, ciononostante i servi della casa di Arakhon festeggiano una qualche loro ricorrenza, forse l’anniversario di una nascita.
Ebbene non sono sceso, e quindi non ho idea di che cosa sia; la musica ha molto ritmo, in un senso è bella, per quanto selvaggia per i miei gusti. Certamente non sarei capace di suonarla; forse potrei impararla, anzi sicuramente, e potrei comperare un tamburo come i loro, ne ho visti di belli al mercato con le tende verdi, poco sopra il porto. M’insegnerebbero, eppure credo che il mio spirito sia così distante dal loro modo di sentire la vita da rendermi incapace d'interpretare quel movimento. Seppure suonassi il tamburo come loro, non sarebbe in verità la stessa cosa, sarebbe come la copia in argilla di una statuetta d’argento.
Vedo Jampe dalle mie finestre, balla con loro, ed è così dolce da farmi tremare le mani; ciò che ho fatto però già troppe volte, non farò più. Un uomo deve avere la forza.

Mi è già capitato spesso di comprendere di colpo le cose proprio nel momento in cui non presto a esse alcuna attenzione. Arakhon sta molto male, gli incubi divorano la sua notte e non gli consentono di riposare; ieri, consultatomi con Mu’Had e scartata per sempre l’ipotesi del veleno, ero così preoccupato da non trovare riposo, e l’idea mi è venuta proprio mentre suonavo il liuto cercando di rendere di nuovo la mia mano veloce e leggera dopo tanta mancanza d’esercizio. Suonavo il liuto, e intonavo “Indovinello”, una ballata molto vecchia, che mi faceva compagnia spesso a Ostelor. Una ballata dell’Est.

vicino all'albero, presso il fiume
c'è un buco per terra, e la' danza un vecchio

Una scala pentafonica.

Le scale a cinque note sono molto comuni nella musica che proviene dall’Est. “Indovinello” è composta nella scala Levante minore, Mi-Fa-Sol-La-Re , e in questa scala il Mi viene chiamato “Do dell’ Oriente”. Quelle melodie e quei canti impostati su scale modali a cinque note, al nostro orecchio, inducono l’idea di qualcosa di sospeso, arcaico, indefinito.

Qualcuno, nella casa, cantava piano una melodia a cinque note, come se recitasse una ninna nanna. Ecco che cosa avevo sentito nel sogno, senza che la mia mente riuscisse ad afferrare e poi ricordare.

Shaerachan , Oronadan , Morchratae , Castrikra , Solvarta

Il cinque è un numero considerato magico a est; l’interpretazione dei sogni di Mirdral, che studiai a Ostelor, si basa sul numero cinque, cinque sono gli angoli della stella di meditazione che disegno a terra ogni notte.

Perché no.

La gente stessa di Same proveniva di certo dall’Est. Il volto di Tuija, le ossa della sua schiena e delle sue gambe, e gli occhi e la testa di Suri me lo dicono. I cinque simboli del disco di Same sono stati impressi in epoca antichissima, di questo ormai siamo certi, e la conferma di Mu’Had , profondo conoscitore delle leggende di Arda e dei tempi remoti, non è che una prova in più.
Nel suo diario, Shakor ha manifestato certezza che il disco sia solo un meccanismo di decifrazione, e a questa certezza dobbiamo affidarci perché qualsiasi altra ipotesi, come quella avanzata da Ender, che lo ha paragonato a uno strumento di navigazione, potrebbe sì esser vera, a questo punto, nella nostra gran confusione, ma allo stesso tempo ha una grandissima probabilità di portarci fuori strada. E in fondo Shakor aveva dedicato buona parte della sua vita al codice stesso, e quindi perché mai considerarlo in errore.
Il disco posseduto da Ba e visto da Mudrail è quindi la base della macchina cifrante, che riporta gli alfabeti verticali, e il componente che avevamo ritrovato era l’occhio attraverso il quale osservare la risultante dell’intersezione con il secondo disco più piccolo, l’alfabeto orizzontale; la corrispondenza non è diretta, e, privi del meccanismo intermedio, non possiamo conoscere il numero di denti del cambio.

E se questo numero fosse cinque?

Athair chiese una volta a Ba il significato di Morchratae , chiese se egli fosse a conoscenza del significato di quel simbolo o di quel nome così oscuro; Mor , "più nero del nero", inequivocabile, come in "Mordor" e in molti altri nomi che è meglio non pronunciare. Fu una mossa avventata, a posteriori, ma non potevamo immaginare; consideravamo Ba nient’altro che un vagabondo con la borsa piena di denaro. Ba mandò un messaggio e ci disse che era una parola usata nel Dorwinion, la remota terra a nord, e che l’aveva appresa da un uomo che si chiamava Widuhund, un visitatore della sua locanda. Secondo Ba quest’uomo portava un tatuaggio che egli chiamava “Orchratae” così come la sua tribù e che somigliava ai tatuaggi della gente di Jaamiehet, gli sciamani delle terre fredde.

Cinque simboli, cinque note. Cinque gli Stregoni giunti dall’Ovest ; due andarono a Est. Morchratae.

E se Alatar, all’Est, avesse preso questo nome? Per rendere più forte il suo legame allo spirito che il simbolo Morchratae rappresenta? Tutto sembra una grande coincidenza e non riesco a trovare una ragione razionale per la quale non dovrebbe esserlo. La Musica, il Disegno, il Telaio Del Tempo, tutti miti, simbolismi. Eppure. Non sono un sapiente, e tutte queste cose sono troppo per me; se fossimo a Ostelor, potrei contattare la Cerchia, e loro saprebbero, ma siamo così lontani!

Nelle prossime notti proverò, e cercherò di capire se il codice di Shakor, e più ancora ciò che abbiamo trovato a Ostelor, possono essere reinterpretati secondo una scala pentafonica; il fatto è che con le note, per quanto siano solo cinque su una scala, si può giocare quasi all'infinito, e questa semplice intuizione e la sensazione che sia giusta non mi bastano.

Dobbiamo chiedere aiuto: non ho la forza di dominare tanto potere.

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Dicembre 30, 2007 - 9:38 pm

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Il fuoco, nella piccola piana, era quasi spento. Ghaouti era di guardia, su, sulla collina; si era nascosto fra due grandi rocce, e da quella posizione, con la sua vista acuta, poteva controllare un territorio molto vasto rimanendo invisibile.
Suri dormiva accanto a Farah, stroncato dalla stanchezza e calmato dal calore che Tuija, abbracciandolo e stringendolo forte nel momento in cui aveva ripreso a tremare e a non riconoscerli più, gli aveva donato. La bambina non aveva paura di lui; Tuija si sorprese a chiedersi il perché.

Un posto silenzioso. Freddo, di notte, e infuocato di giorno. Senza vita.

Tuija si strinse nel suo mantello e si avvicinò lentamente alle braci; il freddo della notte e di Suri era penetrato dentro di lei, ancora una volta, e si domandò per quanto tempo avrebbe potuto continuare. Perché, quando la toccava, Suri portava via la sua anima. Si domandò anche perché lo stesse facendo; sentì brividi sulla pelle, e si spaventò. Si stava innamorando di lui?

La pelle le formicolò di nuovo, e Tuija si girò di scatto. Non c’era nessuno. Solo le loro bestie, e le coperte. I capelli le si rizzarono sulla nuca, e lei si girò nuovamente. La spada era appoggiata vicino al fuoco, al suo posto. Con rabbia, Tuija si guardò attorno. Non c’è nessuno qui. E’ solo la mia fantasia. Questo vento, e Suri; è sufficiente perché m’inventi le cose, si disse.
Più avanti, sulla cresta dello uadi, in faccia alla collina sulla quale stava Ghaouti, qualcosa rotolò via; il vento turbinò, le turbinò incontro per pochi momenti. Nonostante quello che andava ripetendosi, Tuija sobbalzò pensando che il vento la volesse prendere. Spaventata, si alzò, salì piano sulla collina, e fece un giro completo su sé stessa, osservando guardinga.

Era tutto vuoto. E’ solo la tua maledetta fantasia! Si ripeté. Corse via, verso il fondo dello uadi, e le sembrò di sentire nuovamente l’impressione di occhi che la spiavano, ma Tuija si rifiutò di guardarsi attorno, si rifiutò di chiedersi come potessero degli occhi muoversi da un posto all’altro così velocemente senza che lei riuscisse a percepire nemmeno un accenno di movimento. Fantasia. O forse sto già diventando pazza, si disse rabbrividendo, e se avesse ceduto Suri e Farah sarebbero morti nel deserto. Non ancora. Ti prego. Non ancora. Con la schiena irrigidita, si fermò, e ritornò sui suoi passi.

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“Ah, eccoti”. La voce di Farah era bassa, profonda, spaventata. Fece una pausa, pensierosa, ma solo per un attimo. “Dimmi, Tuija: anche tu cammini di notte? Dove sono nata i bambini camminavano e facevano un gioco, di notte. Non volevano lasciarmi partecipare, però. Dicevano che mi avrebbero data come schiava e che non potevo giocare. Non mi sembra giusto, ti pare? Erano piuttosto piccoli però …”

Tuija l’afferrò per un braccio e l’interruppe; Farah si alzò appena in tempo per sostenerla e per impedire che cadesse a faccia in giù. Fece una smorfia per lo sforzo, e l’aiutò a sedersi, sfiorandole la guancia con il viso. Tuija crollò distesa contro la sabbia, chiudendo gli occhi e stringendosi ancora di più nel mantello.

“Che cos’hai, Tuija? Stai male? Sei bianca” Fece per alzare la voce e chiamare Ghaouti, ma Tuija la fermò.
“Non chiamarlo, lascialo lontano. E' in un buon posto, ben nascosto. Ho bisogno d’aiuto, Farah” sospirò. “Qualcuno … mi osserva”, spiegò alla fine. “Ci sta seguendo. Solo che … io non vedo nessuno.”
Farah mosse la testa di scatto, mormorando: “Gli uomini neri?”

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Dicembre 31, 2007 - 2:09 pm

La scala interna era buia, ma l’uomo procedette comunque rapido e sicuro. Conosceva la strada. Entrò nell’edificio, e Ba Zalarit lo seguì. Agli altri due non rimase che imitarli. L’uomo svoltò, e imboccò una stretta scala a chiocciola che scese nel buio sempre più profondo, tanto da costringerli a procedere, dietro di lui, a tentoni. Saed tenne la mano contro la parete; scopriva la presenza di un gradino solo quando vi posava sopra il piede. Perfino Zalarit cominciò a sentirsi a disagio, a giudicare dal tono di voce, quando disse: “C’è un buio spaventoso, quaggiù.”
“Sì, sì” rispose Han. Sembrava non avere nessuna difficoltà, nel buio. “Presto ci saranno dei lumi. Venite.”

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E infatti all’improvviso la scala a chiocciola lasciò il posto a un corridoio fiocamente illuminato da torce fumose poste in staffe di ferro fissate alle pareti. La luce incerta consentì a Ba di dare la prima vera occhiata all’uomo, che proseguì senza soffermarsi, invitandoli con un gesto a seguirli.
In quell’uomo c’era qualcosa di bizzarro, si disse Ba, ma non riuscì a definire esattamente che cosa. Era untuoso e un po’ troppo ben nutrito; con quelle palpebre cascanti, dava l’impressione di guardare fissamente da dietro un nascondiglio. Basso di statura, tutto calvo, camminava come se fosse più alto di loro. Indossava abiti fuori dal comune: brache nere, attillate, e morbidi stivali rossi rovesciati sulle caviglie; una lunga veste rossa piena di ricami dorati e una camicia candida con maniche svasate, la cui punta arrivava quasi alle ginocchia. Certo non il genere di vestiti con cui girare in una città morta. Ma non era l’abbigliamento, si disse Ba, a farlo sembrare bizzarro.

Il corridoio terminò in una stanza dalle pareti decorate e Ba si dimenticò delle stranezze della loro guida. Il suo ansito fu l’eco di quello di Saed. Anche lì la luce proveniva da alcune torce che annerivano di fumo il soffitto e che conferivano a tutti più di un’ombra; ma quella luce si rifletteva mille volte sulle gemme e sugli ori ammassati per terra, mucchi di monete e di gioielli, calici e piatti e vassoi, spade e pugnali dorati e tempestati di gemme, il tutto ammucchiato alla rinfusa in cumuli che arrivavano alla cintola.

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Con un grido Saed corse avanti e cadde in ginocchio davanti a uno di quei mucchi. “Sacchi” disse, senza fiato, toccando gli oggetti d’oro. “Ci servono sacchi, per trasportare tutta questa roba.”
“Non possiamo trasportarla tutta”, obiettò Ba. Si guardò intorno, confuso: tutto l’oro che i mercanti portavano a Tul Harar in un anno non era neppure la decima parte di uno solo di quei mucchi. “E’ quasi buio.”
Abit estrasse dal mucchio una spada, gettando via con noncuranza le catene d’oro avvolte attorno all’impugnatura. Pietre preziose brillavano sull’elsa nera e lucente; una delicata filigrana d’oro ricopriva la doppia lama. “Domani, allora” disse, sollevando con un sogghigno la spada. “Tutti gli uomini ci daranno una mano fino a sfiancarsi, quando mostreremo loro questa roba.”
“Non siete soli?” domandò Han. Era rimasto sulla soglia della sala del tesoro, ma ora li seguì. “Chi c’è con voi?”
Saed, le mani sprofondate fino al polso nel mucchio, rispose distrattamente: “Gli uomini della mia carovana, e una schiava dai capelli biondi come quest’oro. E Silla. Silla è una sapiente.”
Ba trattenne il fiato. Poi il silenzio di Han lo indusse a guardare.
Il viso di Han era distorto dalla collera e anche dalla paura. Le labbra snudarono i denti.
“Una carovana!” Agitò il pugno contro di loro. “Una carovana! Avevate detto che servivate il Fuoco e che andavate a … a … Portavate il Simbolo, conoscevate le parole segrete! Mi avete mentito!”
“Se sei ancora d’accordo” disse Ba “torneremo domani mattina.” Aprì lentamente le mani, in un gesto d’amicizia. “Se sei d’accordo.”
“No. Questo è …” Ansimando, Han scosse la testa come se non sapesse decidersi. “Prendete quel che volete. Ma adesso, subito. Prendete quel che volete. Tranne … tranne … “

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Un calice cadde rumorosamente dalle mani di Saed. All’improvviso il viso di Han si era distorto ancor di più, i suoi occhi si erano spalancati, quasi uscendo dalle orbite, e aveva ringhiato: il sangue era schizzato violento sul viso e sulla veste di Ba, e Abit aveva spinto ancora di più la spada, fino a farne uscire la lama, con uno schiocco, dalla sua gola; poi l’aveva ritratta di colpo, sorridendo. Han era balzato in avanti, lottando per trovare il fiato; i suoi grugniti riempirono la stanza, tra il fracasso di piatti e di calici d’oro gettati per terra. A un tratto un ultimo grido strozzato di sofferenza atroce, e un singhiozzo, e poi morte.

[size=2]Liberamente tratto da "L'Occhio del Mondo" di Robert Jordan[/size]

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Gennaio 4, 2008 - 6:32 pm

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Venne Eldoth, con aria d’accusa, implorando aiuto. Farah, piangendo per la lontananza da casa; e Arakhon, imprecando per aver attirato i predoni sulle loro tracce; e padron Aldor, che si torceva le mani sulle ceneri della sua tenuta; e Urrit, che urlava nelle grinfie di Ba: persone che conosceva, persone che aveva solo incontrato. Ma peggio di tutti fu Ciryaher. Ciryaher, con la fronte corrugata, si fermò davanti a lei, scosse la testa e non disse una parola.

“Devi dirmelo” lo supplicò Tuija. “Mi ami? Dimmelo, per favore. Mi ami?” E urlò: “Mi ami? Non devi. Non devi!”

“Tuija, stai calma.”

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Per un attimo Tuija pensò che fosse la risposta di Ciryaher, ma poi si accorse che Ciryaher era sparito. Tuija si chinò su di lei e le accostò alle labbra la tazza con l’acqua.

“Cerca di riposare. Sei tutta sudata.”
“Farah?” mormorò Tuija. Farah annuì e ci fu qualcosa di così rassicurante in lei che Tuija sprofondò nel sonno senza nemmeno toccare l’acqua.
Un sonno turbato da molti sogni. Almeno, Tuija non capì e non ricordò, ma fu tanto leggero e tanto terribile che le si aprivano gli occhi ogni volta che Farah la controllava. L’accarezzava, la cullava, e le parlava.

“Sei nata in una grande città, Tuija? Quella del padrone Arakhon?”
“No … io sono nata a Same, come Suri, proprio in una locanda. La locanda di Ba, che roba. C’è di che fare una storia per i menestrelli. La chiamavamo Kukkakyla, che vuol dire ‘grande casa fiorita’, perché d’estate nel giardino crescono tante piante che hanno dei fiori... bei fiori.”
“Bei fiori? Grandi, Tuija? Non ho mai visto fiori grandi.”
“Si, tanto grandi … prima dell’arrivo di Ba c’era un altro padrone, Melio, e stavo male. Padron Melio era più cattivo di Ba, era sempre ubriaco. Comunque, ero piccola, e ho passato anche giornate belle, tanto belle, non è stato tutto brutto. Non è mai tutto brutto.”

Khalid le sorrise. Gli abiti gli pendevano addosso in stracci bruciacchiati che lasciavano intravedere lampi di luce, mentre Mu'Had scappava e lui lottava contro lo spettro per darle il tempo di fuggire. Sotto gli stracci, la carne era annerita e bruciata.

“Sai leggere, Tuija? Mio padre Ender mi ha insegnato.”
“Non è tuo padre. Ender … non è tuo padre. Vai via da lui, bambina … ho imparato a leggere dai soldati Valdacli, e riuscivo a parlare la loro lingua, quindi erano buoni con me. So anche scrivere. Se ti fidi dei Valdacli, bambina, rimpiangerai di non esser morta. Ricorda, il prezzo dell’aiuto dei Valdacli è sempre più piccolo di quanto tu non pensi, sempre più grande di quanto tu non immagini …”

Adimir uscì dall’ombra, con i capelli riuniti in una piccola treccia scura come li portava a Vaisala, e il viso addolorato e triste.
“Perché mi hai lasciato?” disse. “Sono morto perché mi hai abbandonato.”
Tuija scosse debolmente la testa. “No, Adimir. Non volevo. Ti prego.”
“Siamo morti tutti” disse lui tristemente. “E la morte è il reame del Maestro. Apparteniamo al Maestro, poiché ci hai abbandonati.”
“No. Non ho avuto scelta, Adimir. Ti prego, Adimir, non andare via. Torna, Adimir!”
Ma lui si ritirò nelle ombre e divenne un’ombra.

Una volta si domandò se Farah non dormisse per niente, ma ripiombò subito nel sonno, prima di approfondire il pensiero.

“Brucio” mormorò. Sapeva vagamente che solo l’attimo prima aveva freddo, ma ora si sentiva come in un forno. “Brucio”, ripeté . Sentì sulla fronte la mano di Farah.
“Presto mio padre arriverà. Com’è tuo padre, Tuija? E’ forte come il mio?”
“Ah! Non è tuo padre, te l'ho detto. Non è cattivo, Farah, ma stai attenta … Non sono tutti cattivi, gli uomini … però … Ba non mi vendeva a... solo qualche volta. Lavoravo, spesso facevo da mangiare, mettevo a posto. Ba diceva che faceva così perché ai clienti non piacevamo tanto, facevo ridere... "
"Come facevi, Tuija, come i menestrelli e i mangiafuoco? Giocavi con le torce?"
"Si, suonavo e cantavo. Avevo tre palle colorate. Andavo spesso dall’ambasciatore dei Valdacli, i soldati erano gentili con me. Là ho conosciuto Adimir. E’ morto. Andavo anche negli altri villaggi... Leiri, Mulkan, la baia di Pieni Satama... sono arrivata anche fino a Kylmatalo, ma d’inverno è pericoloso, perché ci sono i Troll. Devi stare attenta ai Troll!”

Al cigolio di cardini si svegliò completamente, ma per un istante rimase distesa nel fieno, desiderando d’essere ancora addormentata. Così non sarebbe stata consapevole del dolore. I muscoli le facevano male come cenci strizzati e avevano la stessa forza. Debolmente cercò di sollevare la testa: ci riuscì al secondo tentativo.
Farah sedeva contro una parete, vicina a lei. Teneva il mento contro il petto, che si alzava e si abbassava al ritmo regolare del sonno profondo.
Tuija guardò in direzione della porta.

Un uomo la teneva aperta. Per un attimo fu solo una sagoma scura nel buio, messa in risalto dalla fioca luce del primo mattino; poi entrò nella stalla e lasciò che la porta si richiudesse dietro di lui. Alla luce della lanterna Tuija lo vide più chiaramente. Ghaouti.
“Farah” chiamò Tuija. E poi, più forte: “Farah!”
Farah sospirò e quasi cadde, svegliandosi di colpo. Si strofinò gli occhi e fissò Tuija. “Stai meglio?” chiese. “La febbre non c’è più.”
“Scusa, Farah” disse a stento. Non riusciva a sollevarsi. Il senso di nausea era forte. Si lasciò cadere di nuovo, e si strinse la testa fra le mani. “Dove siamo?”
“A casa. Fuori dale mura. Il padrone aveva paura che la gente scoprisse che c’era un ammalato nella sua locanda. Gli ho detto che se ci sbatteva fuori ti portavo nella sala comune, e avrebbe perso tutti i clienti. Non vuole che se ne vadano.”
Tuija si agitò nel fieno.

“No, Suri non c’è”, disse Farah. “E’ vicino. Si è nascosto dietro ai carri. Ha bevuto tanto, fin che è stato in piedi. Adesso dorme.”

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[size=2]Liberamente tratto da "L'Occhio del Mondo" di Robert Jordan[/size]

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30
Gennaio 4, 2008 - 6:44 pm

Sit here by my side
For the night is very long
There's something I must tell

Many a year was I
Perched out upon the sea
The waves would wash my tears,
The wind, my memory
I'd hear the ocean breathe
Exhale upon the shore
I knew the tempest's blood
Its wrath I would endure

And so the years went by
I give you now my books
And all their mysteries
Now take the hourglass
And turn it on its head

The daylight is almost gone
The birds have sung their last
The bells call all to pass

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31
Gennaio 4, 2008 - 6:54 pm

Attento, osservava, mentre spingeva delicatamente le dita sui tasti del clavicordo, i passi lenti del danzatore. La musica, delicata, carica di sentimento, riempiva la stanza, scaldava come il fuoco, e sembrava quasi spinger via il fumo delle candele e il freddo della nuda roccia. Suonava, e ricordava le voci dolci della terra del Qan Ten. Ricordava i fuochi, e le serate di settembre, e tutto ciò che non era più.

Sull’ultima nota del terzo movimento, alzò le mani, lasciando che la voce dello strumento si spegnesse lentamente; e così, nell’attimo in cui la musica finiva, il danzatore si fermò, e ricadde sulla pietra, con un rumore sordo. Rompendosi, trasformandosi in argilla e polvere, e perdendo per sempre la sua forma e la sua effimera vita.

“Vieni. Ti avevo sentito”, disse il Maestro. Delicatamente, appoggiò sui tasti del clavicordo il panno di velluto rosso; con la minuscola chiave d’ottone, chiuse a chiave il coperchio, accarezzando il legno, e si alzò.

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L’elfo guardò il costrutto d’argilla, ora disfattosi, con estremo interesse, e si mosse verso il Maestro, entrando nella sua stanza con passo estremamente leggero e facendo attenzione a non svegliare Alall, addormentata su un tappeto di cuscini, e a non toccare i disegni. Sul pavimento, il vecchio aveva tracciato, con uno stilo appuntito imbevuto in un inchiostro magico, una rete argentea di simboli e parole, alcuni leggeri come l’aria, come le ali dell’airone, altri forti e pesanti come il martello del fabbro. 'Sono stato io' , si disse l’elfo , 'a insegnargli. Solo poco tempo fa. Mai avrei potuto immaginare ...', si disse ancora, affascinato di fronte alla complessità delle combinazioni e alle rivelazioni che, momento dopo momento, apparivano nell’opera del Maestro e si mostravano ai suoi increduli occhi immortali.
“La vostra arte ha fatto questo, Maestro?”, chiese Fuinur. “Esso viveva, e danzava!”
Nella voce dell’elfo c’erano ammirazione, reverenza; gratitudine. Accanto al Maestro, grazie a lui, aveva dimenticato per sempre il passato e il dolore. Poteva imparare, ora, poteva capire, e nient’altro aveva più importanza. Ora, con la guida del Maestro, Fuinur capiva.

“Ho fatto questo, e altro, durante la tua assenza. Ogni giorno, ogni stagione mi avvicinano di un poco alla verità” , disse Alatar. “Eppure essa è ancora celata. Possiamo modellare la cera e l’argilla, e infondere in esse la scintilla della vita … invero, essa rimane solo per un attimo. Poi se ne va, portata via dalla Musica. E’ ciò che ci manca. Così poco, così poco …”.
Alatar sospirò, e si avvicinò alle candele, sostenendo il passo con il suo bastone. “Ma non svegliamola. Dorme e sogna, e in ogni sogno, anch’ella si avvicina alla Musica”. Accanto alle candele, sopra la testa di Alall, stava un piccolo incensiere di ferro e argento; le braci, chiuse al suo interno, rilasciavano un leggero fumo azzurro dall’odore di cinnamono. Il vecchio lo aprì, vi gettò una presa d’una polvere, e, richiusolo, si avviò verso il corridoio. “Andiamo, elfo. Lasciamola sognare.”

Presero per una stretta scala con un corrimano di ferro, dritta, ripida, e immersa nel buio. Per essi, il buio non aveva significato, ma procedettero piano, un passo dopo l’altro, fino a quando non furono in cima alla torre degli strumenti.
Entrarono nella sala rotonda, e si mossero fra i banchi di lavoro coperti dai mille arnesi, libri e talismani del Maestro; Fuinur vide ancora una volta gli astrolabi e il telescopio, le tavole delle stelle e i tarocchi di Draal, e il disco di Same, e si meravigliò nuovamente della precisione ed eleganza degli incunaboli portati da Morija, che mai cessavano di sorprenderlo. La notte, oltre le molte finestre, era fredda, ma il vento non entrava nelle sale di Alatar, e anche il freddo, per essi, non aveva più significato.
Alatar si sedette su uno scranno a dondolo, prendendo la pipa, e chiuse gli occhi. Nella stanza più in basso nessuno suonava più, ma la musica aleggiava ancora nell’aria, e a Fuinur sembrò di udire ancora con chiarezza le note sentite poco prima.

“Questa canzone accende il mio cuore, ogni volta. Soffro terribilmente. Eppure, non mi stanco mai di suonarla ancora e di chiederle di cantare. Ma non sei qui per ascoltare Alall o veder ballare il costrutto, elfo. Vuoi parlare di un sogno diverso”, disse Alatar, sottovoce; era immobile, la pipa in bocca e le braccia appoggiate in grembo. La sedia dondolava leggermente, e a Fuinur pareva che tutto, la sala, la sedia e la sua stessa figura, fossero parte di un sogno sbiadito.
“Maestro. Non riesco a trovare, per esso, una spiegazione”, disse Fuinur.
“Ah. La sete dei Luminosi”, rispose Alatar. Le sue labbra s’incresparono appena in un sorriso, e aprì gli occhi. “Appresi di molte maledizioni a Dol Guldur, e a Shaoul Gul, eppure nessuna di esse è altrettanto terribile quanto quella che colpì voi. Non sempre, elfo, è possibile dare una spiegazione a ogni cosa. Talvolta la Musica è troppo complessa per poter essere capita, e interpretata”. Chiuse di nuovo gli occhi, e aspirò una boccata di fumo.
“Come ha potuto, Arakhon, entrare nel tuo sogno, Maestro?” chiese Fuinur.
“Questa è una domanda semplice, elfo. Talvolta, nel nostro cammino, e nel desiderio di raggiungere la meta, trascuriamo delle cose … "

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32
Gennaio 6, 2008 - 2:31 pm

“Occorre una risposta”, aggiunse Raian. “E’ molto importante mandare subito un messaggero verso Harar. Adesso. Subito.”

Il Falco aprì la bocca, poi la richiuse. Raian era un buon capitano, il migliore, forse; si comportava, però, come se non esistesse rango. Dava fastidio, e l’aveva già fatto punire molte volte. Adesso aveva troppi pensieri per la testa però, e se quella rinuncia all’etichetta e all’affermazione della propria supremazia potevano servire a farlo andar via, gli avrebbe dato il suo assenso, e qualsiasi altra cosa lui avesse chiesto. Non aveva tempo. “Sì. Sì, certo. Subito. Manda Qasim. Digli di riferire a Wahab che non attenda, che l’oro gli arriverà entro questo mese. Sul mio onore”. Il Falco si morse l’interno di una guancia per trattenersi dal ridere istericamente. ‘Fra pochi giorni potrebbe essere morto o anche peggio, e io sono ancora qui in mare, a chiedermi dove ci porterà il destino ‘, si disse.
Si schiarì la gola. “Se aspetti fuori, ti darò il resto degli ordini, ma intanto fai far vela verso la baia e manda Qasim ad Harar con la lancia più veloce”. Fece pressione sulla porta, per costringerlo a uscire.

Una volta nella stanza, si buttò sul letto per togliersi gli stivali. Erano ancora buoni, vissuti, con qualche crepatura nel cuoio, ma ancora indossabili e perfetti per i suoi piedi. Poi si spogliò di corsa, ammucchiando gli abiti sopra gli stivali.
“Hai cambiato idea?” chiese Rehm. “Dimmi tutto, ora. Forse dovrei …”
“No, rimani.”
L’acqua era fredda; era sempre così, su quella nave. Per quanto i marinai di Rehm cercassero di usare ogni cortesia possibile al Falco, più di tanto non potevano fare. Si era freddata nel tempo che aveva passato a parlare con Raian e con il latore delle brutte notizie.
Il guardaroba aveva tre ante intagliate nel semplice stile di Morija, e la decorazione suggeriva, più che mostrare direttamente, una serie di cascate e stagni rocciosi. Aprendo lo sportello centrale, osservò per un attimo gli abiti che avevano occupato il posto dei pochi indumenti portati appresso. C’era una dozzina di giubbe a collo alto della migliore lana e della foggia più bella che avesse mai visto, ed erano quasi tutte ricamate. Tre camicie per ogni giubba, sia di lino che di seta, con maniche ampie. E una veste lunga, anch’essa di seta, ma nera, e più fine e più ricca ancora.

“Perché vuoi aiutarlo?” domandò Rehm.
“Per la nostra speranza”, rispose il Falco.
“Perché, Falco? Le nostre rotte sono sicure e rapide, e i Valdacli presto saranno in ginocchio. Da che cosa dobbiamo guardarci?”, chiese.
“Dall’ombra a mezzogiorno, Rehm”. Scosso da un brivido, il Falco mosse la mano verso la veste nera.
“L’ombra? L’ombra del Drago è un ricordo, persino a Tar Emlin l’erba cresce di nuovo”, insistette Rehm. “Non capisco. Tutto deciso, tutto pronto questa primavera; abbiamo fatto come volevi. Il Mare delle Isole è nostro. Presto non avranno più grano per il loro pane e ferro per le loro armi. Mobarek è morto; a Zambra avresti potuto prendere tutta la mano con una carta sola. Tutto come desideravi. Perché getti via la vittoria nel momento del trionfo? Dimmelo, Falco, se credi ancora in me.”

Come se non fossero sicure di ciò che avrebbero sentito, le dita del Falco sfiorarono il ricamo di un serpente arrotolato quasi a formare un cerchio, ma il rettile aveva quattro zampe e la criniera di un leone, era ricoperto di scaglie rosse e oro e a ogni zampa aveva cinque artigli dorati. All’altezza del cuore, dove un nobile avrebbe portato l’emblema della propria casata.
La mano scattò all’indietro come se avesse toccato qualcosa di rovente. ‘Abiti nuovi in cui morire’, si disse; un colpo secco alla porta interruppe i suoi pensieri.

[size=2]Liberamente tratto da "La Grande Caccia" di Robert Jordan[/size]

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33
Gennaio 10, 2008 - 8:36 pm

Il primo a salire a bordo fu uno degli uomini con il mantello rosso, e Jebel capì subito perché gli abitanti di alcuni villaggi della costa di Ormal dichiaravano che a Same ci fossero dei mostri. Portava un cappuccio; l’armatura era di cuoio spesso, decorata con piume rosse, dipinta e dorata, e sul petto era inciso a fuoco un disegno simile alla testa di un orribile insetto. Placche sovrapposte rosse e nere, bordate d’oro, coprivano le spalle, la parte esterna delle braccia e quella anteriore delle cosce. Anche i dorsi d’acciaio dei guanti erano di color rosso e oro. Dove non c’era cuoio, l’uomo indossava una veste scura. Lo spadone a due mani dalla lama ricurva appeso alla sua schiena aveva fodero ed elsa ricoperti di pelle nera e rossa.
Poi la figura armata si tolse il cappuccio, e Jebel sgranò gli occhi. Era una donna. Aveva i capelli biondi e tagliati corti e un volto duro, ma non c’era possibilità d’errore. Jebel non aveva mai sentito parlare di una cosa simile, se non fra i Valdacli, ed era noto a tutti che i Valdacli erano pazzi. Altrettanto sconcertante era il fatto che il viso di lei non sembrava tanto fuori dal comune, come invece lui si era aspettato dai Sameani. Certo, aveva gli occhi verdi, e la pelle assai chiara, e uno strano tatuaggio sul viso, ma erano cose che lui aveva già visto in precedenza. Se quella donna avesse indossato un vestito senza il velo nessuno l’avrebbe guardata due volte. Jebel la osservò meglio e cambiò opinione: quello sguardo gelido e gli zigomi duri sarebbero stati notati ovunque.

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Gli altri col cappuccio seguirono la donna sul ponte. Jebel notò con sollievo, quando alcuni si tolsero lo strano mantello, che almeno loro erano uomini; uomini con gli occhi neri, che sarebbero passati inosservati nel Chenna o a Tul Harar. Aveva cominciato ad avere visioni di donne con la pelle bianca e gli occhi verdi armate di spada. Streghe con la spada, precisò a sé stesso, ricordando la nebbia e le voci che venivano dal mare.
La donna Sameana esaminò la nave con aria arrogante, poi riconobbe Jebel come il capitano – doveva essere lui o Zafra, a giudicare dagli indumenti; il modo in cui Zafra teneva gli occhi chiusi e borbottava preghiere fra sé riduceva la scelta a Jebel – e lo fissò con uno sguardo penetrante come una picca.

“Hai altri passeggeri, e ci sono donne fra il tuo equipaggio?”

Aveva un accento strascicato e lento che rendeva difficile capirla, ma il tono lasciava intendere che era abituata a ricevere risposte. “Parla, uomo, se sei il capitano. Altrimenti, scuoti quell’altro idiota e digli di parlare.”
“Sono io il capitano, signora” dichiarò Jebel con cautela. Non aveva idea di come rivolgersi a lei, e non voleva fare un passo falso. “Non ho passeggeri e non ci sono donne nella mia ciurma”. Pensò alle ragazze e alle bambine che erano state portate via dai villaggi di recente e, non per la prima volta, si chiese cosa ne facessero.
“Parla lentamente, uomo” chiese la donna con gli occhi verdi, nella sua cadenza strascicata. Attraversò il ponte per mettersi di fronte a lui, alzando il capo per fissarlo e, in qualche modo, sembrando più alta e più grossa di lui. “Tu sei anche più difficile da capire degli altri. E non sto chiedendo il tuo sangue, non ancora. Io sono Alall.”
Jebel ripeté la sua frase di prima, cercando di parlare lentamente, e aggiunse, “Io sono un pacifico commerciante, signora. Non sono coinvolto nella vostra guerra.”
“Un pacifico commerciante?” meditò Alall. “In questo caso, sarai libero di andare dopo che avrai giurato la tua fedeltà e ci avrai portato a Tul Harar.”
“A Tul Harar? No, no, signora, non posso. La mia nave non può tornare nel Golfo e …”
Non vide arrivare il manrovescio. Barcollò quando il dorso del guanto d’acciaio della donna gli spaccò il labbro.
“A Tul Harar” sibilò Alall con una pericolosa delicatezza. I suoi occhi avrebbero fatto sembrare caldo il ghiaccio.

Jebel ingoiò il sangue e tenne le braccia abbandonate lungo i fianchi. Anche se avesse avuto una spada a portata di mano, non avrebbe guidato la sua ciurma al massacro contro una dozzina di guerrieri armati, ma fece fatica a mantenere la voce umile.
“Non intendevo mancarti di rispetto, signora. Io non conosco i tuoi usi. Se ti ho offeso, è stato per ignoranza, non ne avevo l’intenzione.”
Lei lo guardò, poi disse, “Siete tutti ignoranti, capitano, ma pagherete il debito dei vostri progenitori. La vostra terra era nostra, e lo sarà di nuovo. Con il Ritorno, sarà di nuovo nostra”. Jebel non sapeva cosa dire, quindi decise di tenere la bocca chiusa. “Guiderai il tuo vascello fino alle coste del Mumakan …” Jebel cercò di protestare, ma lo sguardo di lei lo zittì. “ … là, se non sei altro che un commerciante pacifico, ti sarà permesso di andare per la tua via.”

[size=2]Liberamente tratto da "La Grande Caccia" di Robert Jordan[/size]

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Gennaio 13, 2008 - 6:22 pm

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La stanza di Egaewe non distava molto dalla Camera delle Assemblee di Tul Harar; pochi passi lungo uno stretto corridoio. Era vasta, un bell’ambiente a cupola le cui pareti lucide si univano ad arco. C’era spazio più che sufficiente per una corte intera di musici e giocolieri, e sarebbe bastato anche per una tavola imbandita. Una sala, più che una stanza.
La Sapiente preferiva, evidentemente, la semplicità, e nella sala non c’era molto oltre al piccolo tavolo attorno al quale sedevano e al diwan. Il pavimento era liscio e lucido come ardesia passata a cera, ma forniva un appoggio sicuro ai piedi. Pietre bianche scintillavano d’innumerevoli puntini dai colori indicibili ed emanavano una luce fioca e riposante; Ciryaher era sicuro che quella luce non fosse naturale, ma percepì anche che era benigna.

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Sadnaril Egaewe

“Bene. Adesso che con le faccende diplomatiche abbiamo chiuso, e Arakhon è di fronte all’Assemblea, possiamo passare ad argomenti più importanti. So che tu conosci la negromanzia di Mordor, Ciryaher. Che cosa ne sai al riguardo?”

Ciryaher spalancò la bocca. Cogliendolo di sorpresa mentre si stava preoccupando per Arakhon e per le decisioni dell’assemblea dei Parlatori, le parole di Egaewe, pronunciate in modo così casuale, lo colpirono come se avesse sbattuto contro una colonna di marmo. Tutti i consigli di Intillamon e le sue istruzioni cominciarono a vorticargli nella testa, ancora una volta. La fissò, umettandosi le labbra e ostentando indifferenza, e sicurezza. Un conto era pensare che lei sapeva, tutt’altra cosa scoprire che era davvero così. Il sudore finalmente prese a gocciolargli dalla fronte.

Lei si sporse in avanti sulla sedia, aspettando la sua risposta, ma Ciryaher ebbe la sensazione che avrebbe preferito spostarsi indietro. Si ricordò di un altro ammonimento di Intillamon: “Se ti scoprono e hanno qualche motivo per temerti …” Gli venne da ridere. Se lei aveva motivo di temere lui .

“No, non sono negromante. Voglio dire … Non l’ho mai fatto di proposito. E’ semplicemente successo. Quando studiavo a Ostelor. Certe conoscenze non sono insolite fra i Valdacli, Arakhon stesso conosce il Linguaggio Nero. Io non voglio … toccare quel potere, sfiorare la Musica. Non lo farò mai più. L’ho giurato.”

“Tu non vuoi” ripete Egaewe. “Bene, questa è una saggia decisione. E stupida, anche. Sono pochi quelli ai quali è stato insegnato; nella maggior parte dei casi, tutti caduti nelle mani dell’Ombra. Alcuni sono come te, hanno in sé il seme del potere fin dalla nascita. Nelle donne è più debole, ma prima o poi finiscono per toccarlo, com’è successo a me, che lo vogliano o no, sicuro, come le uova di pesce generano pesci. Tu continuerai a sfiorare la Musica, menestrello. Sia essa la Musica degli Ainur, o la nota di Melkor. Diventerà sempre più forte. E sarà meglio che impari, che impari a controllare il potere, a capirlo, o non salverai Arakhon e non vivrai abbastanza a lungo per impazzire. Il potere uccide quelli che non ne possono controllare il flusso.”

“E come dovrei fare a imparare?” chiese Ciryaher. Egaewe e Nuth si limitavano a stare sedute, imperturbabili, e lo osservavano. Come ragni, si disse lui. “Come? Tu non puoi insegnarmi nulla, e io non so come o cosa imparare. E in ogni caso non voglio. Voglio smettere. Non riesci a capirlo? Smettere!”
“Ti ho detto la verità, Ciryaher” dichiarò Egaewe. Dal tono che aveva usato sembrava che stessero avendo una piacevole conversazione. “Quelli che avrebbero potuto insegnarti sono morti da tremila anni. Nessuno qui può insegnarti a toccare quel potere, non più di quanto tu puoi imparare a sentire lo spirito di Aman. Un uccello non può insegnare a un pesce come volare, e un pesce non può insegnare a un uccello come nuotare."
“Ho sempre pensato che quello fosse un detto sbagliato” disse Nuth all’improvviso.

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Nuth di Morija

“Ci sono uccelli che s’immergono e nuotano. E nella baia di Morija ci sono dei pesci che volano, con delle lunghe pinne che si dispiegano quanto le tue braccia, e becchi come spade che possono perforare …” Le sue parole si smorzarono e lei si agitò. Egaewe la stava fissando, priva d’espressione.
Ciryaher approfittò dell’interruzione per recuperare una parte di controllo su sé stesso. Le due donne avevano distolto la loro attenzione solo per un momento, ma quando tornarono su di lui, il suo viso era calmo.
“Perché mi stai dicendo queste cose, Egaewe?”
Egaewe si accigliò e si mosse sulla sedia. “Questo trucco te lo hanno insegnato i Teocrati?”
“No. L’ho imparato dai libri dei Kinn-Lai. Non potete leggermi nello spirito, se io non ve lo consento. Perché mi stai dicendo queste cose?” chiese Ciryaher di nuovo.
Egaewe lo guardò dritto negli occhi. Nuth, fissando il pavimento, disse: “Perché tu farai parte del Cerchio. Tu chiamerai il Drago, e Arakhon lo cavalcherà.”

La stanza vacillò. Il mondo vacillò. Tutto sembrava vorticare attorno a lui. Si concentrò sul nulla e il mondo tornò stabile.
“No, Nuth, signora. Io posso sentire la Nota di Melkor, che Mandos mi aiuti, ma non sono re Elrond Mezzelfo, né Gandalf il Bianco e nemmeno la bianca dama di Lothlorien. Mi potete aiutare, uccidere o lasciare andare, ma non chiamerò nessun drago e non cavalcherò con Arakhon contro i Cancelli di Mordor. Non sarò un falso eroe al guinzaglio di Morija, del vostro Cerchio.”
Sentì Nuth ansimare ed Egaewe sgranò gli occhi, uno sguardo duro come roccia nera. Non ebbe effetto su di lui; scivolò sulla superficie del suo orgoglio e della sua calma interiore.
“Perché pronunci quei nomi senza rispetto?” chiese Egaewe. “Chi ti ha detto che il Cerchio manovra i fili di questi eventi, chi ti ha parlato di Morija e di falsi eroi?”
“Un amico, Egaewe” rispose Ciryaher. “Un maestro. Il suo nome era Shakor Belechael, i miei compagni lo conoscevano come Intillamon. Lui è morto, ormai.”
Nuth sospirò e lo guardò. “Tu non sei un falso eroe” dichiarò la donna orientale nella sua cadenza veloce e sottile, con fermezza. “Tu sei uno degli eroi della Compagnia della Luna.”
“Io sono un menestrello nato a Ostelor, signora. Che credeva troppo in cose che erano tutte sbagliate.”
“Nuth, raccontategli la storia” disse Egaewe. “La vera storia, menestrello. Ascolta con attenzione.”

[size=2]Liberamente tratto da "La Grande Caccia" di Robert Jordan[/size]

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Gennaio 17, 2008 - 8:56 pm

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E accadrà che quanto gli Uomini hanno costruito sarà distrutto.
A Occidente non ci sarà più l’Ombra, ma quella d’Oriente si stenderà a Mezzogiorno, e Melkor, il Corruttore, poserà ancora una volta la propria mano sul mondo dei vivi.
Le donne piangeranno e gli uomini si perderanno d’animo, mentre le terre del Marinaio saranno ridotte a brandelli come stracci consunti. A Oriente non resterà più nulla.
Eppure una Compagnia di Eroi si formerà per affrontare l’Ombra. Si formerà ancora come in passato, e rinascerà di nuovo, e ancora, per sempre. I Draghi si sveglieranno e ci saranno gemiti e lacrime al loro avvento.
Gli Eroi vestiranno le genti di ceneri e stracci, e con la loro venuta spezzeranno di nuovo il Mondo. Come un’alba liberata dalle catene accecheranno e bruceranno, ma si confronteranno con l’Ombra e il loro sangue ci darà luce.
Lasciate scorrere le lacrime, o popoli del Mondo. Piangete per la vostra salvezza.

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