Interludio: Oscuro (mag, lug 75QE, Grande Harad) | Terra Di Mezzo | Forum

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Interludio: Oscuro (mag, lug 75QE, Grande Harad)
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Agosto 5, 2007 - 10:55 pm

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Rosso. Viola. Blu notte. La luce, oltre il vetro finemente montato a mosaico e sostenuto da un’elegante intelaiatura d’un qualche legno, forse sandalo, attraversandone le tessere cambiava di colore mano a mano che il sole scompariva, oltre l’orizzonte, e oltre la baia. I mercanti e i venditori di cianfrusaglie avevano già gridato da tempo gli ultimi richiami, e, smontati i loro piccoli banchetti e le tende, se ne sarebbero presto andati; tutto, di fronte alla grande casa di donna Niazi, sarebbe rapidamente diventato di nuovo deserto e silenzioso. Per un’altra notte; una notte ancora, senza sonno, e senza riposo.

Ciryaher si accorse del buio solo quando i suoi occhi non furono più in grado di seguire il filo d’inchiostro lasciato dalla penna sulla sottile, delicata carta bianca che la padrona di casa gli aveva donato. Infastidito, posò la penna con mala grazia, e si alzò per accendere il lume. Faceva caldo, però; il fuoco era spento. “Un bell’impiccio”, disse rivolto alla sua immagine vagamente riflessa sul mosaico, appena visibile nell’ultima luce. Seccato, non aveva nessuna voglia di scendere fino al cortile per prendere una lampada accesa; guardò a lungo e intensamente i due angoli della sua stanza, concentrandosi sul divano di cuscini e sulla grande poltrona di paglia intrecciata, e, soppesati i pro e i contro, si lasciò cadere nella poltrona, non molto morbida, ma sicuramente più fresca.

Per il quarto giorno consecutivo non era riuscito a staccare la mente e, tranne che per brevi tratti, il corpo, considerata la fame che sentiva, dai caratteri che aveva visto nella cittadella di pietra, e che aveva copiato prima su una tavoletta di cera appena tornato sulla Baghlag, la loro barca, e poi sulla carta a casa di Niazi. La traduzione dalla Lingua Nera di Mordor non era possibile, in quanto non si trattava di essa; l’iscrizione era forse più antica. Ancora una volta avevano trovato qualche cosa che aveva addirittura preceduto l’era di Sauron, il Signore degli Anelli.
Ma quanto più antica? Non riusciva a capire, non riusciva a tradurre correttamente. D’altra parte non era né un mago né un traduttore; era un sacerdote fallito, un fuggiasco, scappato dalla verità, un assassino...

Colto da orrore e sgomento per i suoi stessi pensieri e dal peso della colpa, compagno inseparabile di tutte le giornate che aveva trascorso da quel giorno in avanti, si alzò di colpo dalla poltrona e si buttò a faccia in giù nel letto. “Basta!” gridò, mordendo il lenzuolo e soffocando l’urlo affinché nessuno lo sentisse. “Lasciatemi in pace, lasciatemi dormire...”

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2
Settembre 6, 2007 - 9:56 pm

Zafar aveva dieci anni, e la matrigna aveva pronunciato la sua personale opinione che il ragazzo non sarebbe vissuto altri cinque anni. La matrigna era blanda e smunta, e contava poco, ma la sua opinione venne appoggiata dalla moglie più giovane di Melat, che contava quasi tutto. Dekhat, cugina e moglie di Melat e tutrice di Zafar, rappresentava ai suoi occhi quei tre quinti del mondo che sono necessari, reali e antipatici; gli altri due quinti, in perpetuo antagonismo con i tre precedenti, stavano in lui e nella sua immaginazione. Zafar pensava che un giorno o l’altro egli avrebbe ceduto alla prepotente pressione delle tediose cose necessarie come la malattia, le restrizioni e la cretinaggine della cugina. Senza la sua immaginazione, abbandonata a briglia sciolta nell’isolamento, egli sarebbe già venuto meno da lungo tempo.

Il giardino oscuro e tetro del quartiere occidentale di Harar, vigilato da tante finestre e graticci, sempre pronti ad aprirsi per lasciar uscire un messaggio di non far questa o quella cosa, o per ricordare l’ora delle medicine, non gli offriva molte attrattive. I pochi alberi da frutto che conteneva erano gelosamente custoditi fuori dalla sua portata, come se fossero i rari esemplari del loro genere fiorenti in un arido squallore; probabilmente sarebbe stato difficile trovare un ortolano che offrisse dieci soldi per i loro frutti. Però, in un angolo dimenticato, dietro un folto di lugubri cespugli, stava un deposito per gli arnesi, di rispettabili proporzioni e che non serviva più a nulla. Tra le sue pareti, Zafar trovava un porto. Per lui esso prendeva a volte l’apparenza di una piazza di spettacoli o di un tempio. Egli lo popolava con la sua legione di fantasmi familiari evocati in parte dai libri di preghiere e da altri che aveva trovato in casa, in parte dalla sua fantasia. La baracca però vantava anche due inquilini. Uno in carne ossa, la gallina Houdan, sulla quale il ragazzo riversava l’affetto che non riusciva a trovare sbocco altrove; e più indietro, nella penombra, stava una cassetta divisa in due scompartimenti, uno dei quali chiuso sul davanti da strette sbarre di ferro. Era la dimora di una statuetta di rame e legno a forma di lucertola, che un cortese garzone del porto aveva, una volta, fatto entrare di contrabbando, gabbia e tutto, nel suo presente quartiere, in cambio di un tesoro di monetine d’argento accumulati da lungo tempo in segreto. Zafar aveva un grandissimo timore della lucertola dai denti aguzzi, che era però il suo bene più prezioso. La sua presenza nella baracca era per lui una gioia segreta e paurosa, da tenere scrupolosamente segreta alla Donna – così, nel suo segreto, egli chiamava la cugina. Un giorno, sa il cielo con quali elementi, egli compose un nome meraviglioso per la bestia di legno, e da quel giorno, essa divenne un dio e una religione. La Donna si permetteva il lusso della religione una volta la settimana, nel tempio degli Adulti dove un giorno, gli diceva, sarebbe stato ammesso anche lui, ma per Zafar la celebrazione del servizio assieme agli Adulti era un rito estraneo nel Tempio del Serpente.

Ogni giovedì, nella penombra e nel silenzio odoroso di muffa della baracca, egli venerava, con mistica ed elaborata cerimonia celebrata davanti alla cassetta di legno, Vashtar, il Grande Serpente. Rossi fiori, quando era la stagione, e bacche scarlatte durante l’inverno, venivano offerti nel suo santuario. Infatti, egli era un dio che esercitava una speciale potenza sulle cose feroci e intolleranti, in contrasto con la religione della Donna, la quale, per quanto Zafar poteva osservare, esagerava nel senso contrario. Nelle grandi feste veniva sparsa davanti alla cassetta polvere di noce moscata; l’offerta riceveva un significato particolarmente importante perché la noce moscata bisognava fosse rubata. Tali feste capitavano a intervalli irregolari, ed erano dedicate soprattutto a qualche avvenimento notevole. In una certa occasione, quando la cugina soffrì durante tre giorni per un acuto mal di denti, Zafar celebrò i suoi festeggiamenti per tutti e tre i giorni e gli accadde quasi di persuadersi che il Grande Serpente era personalmente responsabile di quel mal di denti. Se la malattia fosse durata un altro giorno, la provvista di noce moscata sarebbe finita.

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Da "Sredni Vashtar", di Saki[/size]

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Settembre 7, 2007 - 11:13 pm

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Anno settantacinquesimo, Lothron

Riprendo il mio scrivere. Da quando siamo tornati in casa di Niazi non ho scritto, invero, molto; la mia mente è stata occupata per un poco da altri pensieri e più spesso completamente vuota.

Ho voluto comportarmi come un predatore. Ho pensato di essere un predatore, per una volta nella vita, e questo ha degli effetti; se il corpo è sazio, la mente è vuota, ma provo amarezza anziché gioia. Quando finalmente pensi di essere un predatore, di solito sei in torto: sei sempre la preda di qualcun altro. Di giorno fa già caldo; stasera l’aria è fresca, e mi vengono dei pensieri. Non penso a Jampe, adesso, non ho molte incertezze, e questa stanza è grande, per una persona sola. Forse anch’io diventerò gentile, e la dolcezza vincerà la sua noia.

Arakhon è partito da diversi giorni e in questo quartiere, o forse in tutta questa città, adesso c’è qualcosa di oscuro. L’oscuro, la tenebra, invero ci seguono da lungo tempo ormai, e questo dolore continuo e il non poter aver pace sono per me la giusta punizione, la mia unica speranza di redenzione. Guardo nella coppa, e vedo che non ci sarà pace per molto tempo ancora.

Dal nostro ritorno, ogni giorno mi sono giunte voci di paure, di apparizioni, di morti inusitate. Arakhon è però impegnato a Zambra con la politica della sorella, e le condizioni di Khalid sono state a lungo tali da dover richiedere tutte le attenzioni di Tuija e dei gentili servitori della casa. Non vado d'accordo con Samaduin, e allora ho vagato un poco da solo, un poco in compagnia di Farah, in cerca di più tracce, impiegando così tutto il tempo nel quale ero troppo stanco per studiare i codici. Sono stati giorni duri.

Di questi morti, ne ho visti con i miei occhi due, un tal Mutaz certo benestante piuttosto avaro, e un ragazzo povero, Makin, che però era violento e malvoluto. Ho potuto saggiarne anche la consistenza delle ossa e l’odore. Nei loro occhi, il terrore; i muscoli contratti e la loro posizione fanno chiaramente capire la causa della morte, il cedimento del cuore provocato da una paura insopportabile. Di per sé ciò non sarebbe straordinario, ma entrambi i morti, il ragazzo in primo luogo, erano nel pieno delle forze e di salute robusta. Ancora non escluderei una causa naturale, e non l’avevo esclusa sentendo il solo racconto dei parenti, ma lo stato dei cadaveri!

Essi erano spaventevoli anche per me alla vista e come rattrappiti, chiusi su se stessi, e completamente prosciugati del sangue e della forza vitale. Essi erano rimpiccioliti di metà della loro altezza, simili a resti tratti da un sudario dopo cent’anni di deserto, la pelle fragile come carta e le ossa bianche come la calce e facili a spezzarsi al minimo urto. Ma il colore non era quello di pelle e ossa bruciate dal sole; appariva invece come che un freddo inverno, un prematuro inverno, si fosse abbattuto con tutta la sua collera e in un attimo su di loro. Volli comunque toccarli per esaminarli meglio e ciò fu forse un errore, perché entrai in contatto, senza volerlo, con una presenza. Questo essere oscuro sa ora di me? Ciò che so per certo io, è che non riesco più a dormire. Per ora, inganno il tempo cercando di scoprire se si tratti veramente di lui, del Maestro, e che cosa gli dia forza pur qui, all’interno di queste mura, che dovrebbero essergli proibite; intanto Niazi suona un gentile strumento, talvolta mi accompagno a lei, e Tuija è di guardia alla finestra e canta dolcemente.

Sono in preda all’angoscia; dei veloci messaggeri sono già in mare, e la mia sola speranza è che Arakhon arrivi da noi prima del nostro Nemico.

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Settembre 7, 2007 - 11:32 pm

Dopo un po’ di tempo, l’isolarsi di Is’ad nella camera della nonna cominciò a richiamare l’attenzione di Mu’taz suo padre. “Non le fa bene stare a baloccarsi là dentro tutto il giorno” , egli decise prontamente, “non è una cosa bella stare vicino ai morti” ; e una mattina dopo il jadwa annunciò che tutta la roba era stata venduta e portata via durante la notte e che la camera sarebbe stata adornata di un diwan per gli ospiti e aperta alla luce del sole. Coi suoi occhi miopi, egli diede uno sguardo a Is’ad aspettando un’esplosione di rabbia e di dolore, pronta a rintuzzarla con un torrente di ottimi precetti e di ragionamenti. Ma Is’ad non disse nulla; non v’era nulla da dire. Qualche cosa forse, nel viso bianco di lei, gli diede un minimo scrupolo; infatti, per il tè, in quel pomeriggio, fu servito il pane abbrustolito, leccornia di solito bandita per la ragione che faceva male, e anche perché il prepararlo “dava da fare”: mortale colpa, questa, agli occhi dell’onesta famiglia.
“Credevo che il pane abbrustolito ti piacesse” , egli esclamò, con aria offesa, osservando che la figlia non ne prendeva. “Qualche volta”, rispose Is’ad.
Quella sera, nella sua stanza, Is’ad non andò a dormire. Is’ad aveva l’abitudine di cantare le lodi agli dei di Harar, quella sera andò nella camera ora vuota e chiese una grazia al Vento delle Sabbie.

“Fa’ qualche cosa per me, Qadr.”

La cosa non fu specificata. Poiché Qadr era una dea, bisognava supporre che ella sapesse già ciò che si voleva. Soffocando un singhiozzo nel dare uno sguardo agli angoli vuoti, Is’ad tornò verso il mondo che odiava.
E ogni notte, nelle gradite tenebre della sua camera, e ogni sera nella penombra del cortile, Is’ad ripeté l’amara invocazione: “Fa’ qualche cosa per me, Qadr.”

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Da "Sredni Vashtar", di Saki[/size]

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Settembre 7, 2007 - 11:36 pm

Makin, informato che le visite di Saud nel giardino segreto non cessavano, fece un altro viaggio di ispezione. “Che cosa tieni chiuso in quella conigliera?” egli domandò. “Mi pare un porcellino. E’ tutto mio, qui.”
Saud tacque stringendo le labbra, ma Makin aspettò che il ragazzo fosse a scuola dai profeti d’Isra, si arrampicò di nascosto fino alla sua camera e frugò fino a quando non ebbe trovato la chiave accuratamente nascosta, e subito dopo tornò verso il giardino segreto per completare la sua conquista. Era lui il capo del quartiere. Era un caldo pomeriggio, e Saud era stato costretto a rimanere a casa dopo scuola. Dall’ultima finestra della sala da pranzo si poteva vedere al di là del cespuglio la porticina del giardino segreto, e Saud si mise di fazione a quella finestra. Vide Makin entrare, poi lo immaginò mentre apriva la porta della sacra conigliera e scrutava coi suoi occhi piccoli nel folto giaciglio di paglia dove si nascondeva il suo dio. Forse egli avrebbe frugato nella paglia spinto dalla sua goffa impazienza.

E Saud sospirò profondamente la sua preghiera ancora una volta. Ma mentre pregava, sapeva di non credere. Sapeva che Makin sarebbe uscito ora, con quell’increspato sorriso, che egli odiava tanto, sulla faccia; poi fra un’ora o due, col buio, Makin avrebbe portato via il suo meraviglioso dio, non più un dio, ma un semplice furetto bruno in una conigliera. Egli sapeva che Makin avrebbe trionfato sempre come trionfava ora, e che gli avrebbe sempre dato le botte, debole e malaticcio sotto la sua detestabile, dominante e superiore forza, fino al giorno in cui nulla avrebbe avuto più importanza per lui. E sotto l’aculeo e nell’avvilimento della sua disfatta, Saud cominciò a piangere e a cantare con sfida l’inno del suo dio minacciato:

“Shihab dio della battaglia, uscì per combattere,
I suoi pensieri erano rossi pensieri, e i suoi denti, bianchi,
I suoi nemici chiedevano la pace, ma egli diede loro la morte.
Shihab Fiammeggiante, il Bellissimo"

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Da "Sredni Vashtar", di Saki[/size]

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Settembre 9, 2007 - 10:46 pm

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“E che cosa sarebbe questo?” , gridò la donna, scagliando la lettera in faccia a Samaduin. Il listello di legno che permetteva di ripiegarla, alla maniera di Tul Harar, colpì l’orlo del suo bicchiere, rompendolo, e il vino rosso si rovesciò sulle sue brache e sul pregiato tappeto.
“E’ una lettera di …”
“Lo so da me che è una lettera! Non so leggere, ma non sono così ignorante e sporca come l’Eccellenza vostra crede. Layali sa leggere, e prima che Eccellenza venisse da me mi ha letto tutto, tutto quanto. C’è scritto che devo andare via da qui, spostarmi in altre case, perché c’è bisogno di posto. Ho appena finito di metterlo in ordine come si deve, questo posto, e non me ne vado da nessuna parte, nossignore. Mi state a sentire, signore?”

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“Jampe, non fare così. Certo che ti ascolto, sai che sei sempre nei miei pensieri, e le tue parole sono sempre importanti per me” , disse Samaduin, gentilmente, mentre si chinava cercando di togliere almeno un poco del vino dal tappeto adoperando la manica della sua casacca, prima che fosse troppo tardi. “Per le brache è già troppo tardi” , pensò. “Mi costeranno un sacco di denaro. Queste sono buone solo per andare al macello, adesso. E guarda il tappeto”.
“Mi avete chiesto di stare qui buona e gentile con voi. E l’ho fatto! E in cambio che cosa mi avete dato? Niente, neanche un soldo. E’ stato il buon signore Arakhon a darmi i soldi, e con quelli ho fatto tutto da sola. E voi? Mi avete chiesto di essere buona con certe persone, gentile con i vostri amici, e ho fatto anche quello. Ne avete mandati tanti di amici da me e non ne avete mai pagato mezzo, di soldo. Quando è venuto in città quel tale straniero, sono corsa subito a raccontarvi tutto. Mi avete chiesto di aiutarvi e di cercarlo assieme a voi, e ho fatto anche quello, e voi che cosa mi avete dato in cambio? Niente. Neanche un grazie, un sorriso. L’unico che ha avuto un sorriso per me è stato Suri, e gliene sono così grata. E adesso che cosa fate? Arakhon non ha neanche fatto in tempo a partire, che mi dite che devo darvi le nostre camere e andar via!”
“Si tratta, Jampe, di due questioni importanti messe insieme”, continuò Samaduin. “Arakhon si deve sposare, e qui in casa verrà un sacco di gente, per un certo tempo. In più sono tornati da ovest tutti i suoi compagni di viaggio. Non c’è proprio spazio. E questa è la prima cosa”.

Samaduin si rialzò, e fece qualche passo verso un tavolino di legno verniciato di rosso, sul quale appoggiò il bicchiere rotto, i pezzetti di vetro che aveva raccolto e il fazzoletto con il quale, assieme alla manica, aveva tentato di riparare il danno sul tappeto. Gettò un’occhiata oltre al graticcio della finestra, fin giù in strada: c’era abbastanza movimento. Erano i giorni del mercato del sale, i carri lo portavano a Tul Harar prima che facesse troppo caldo. Bisognava pensarci presto; quell’anno, a causa dei pericoli sulle strade dell’interno, era molto rincarato. Doveva concludere il prima possibile, e far caricare tutto sulle navi, per Arpel; se riuscivano a passare i pirati, con la guerra, ciascun carico sbarcato nelle città valdacle voleva dire una montagna d’oro.

“La seconda cosa”, proseguì, giocherellando con un cuscino appoggiato su una sedia di vimini, “è che, con il matrimonio di Arakhon, non puoi più restare qui. Né tu, né le tue ragazze, Jampe. Niazi non lo tollererebbe. Mi dispiace”.

Mentre lo diceva, era sincero.

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Settembre 9, 2007 - 10:55 pm

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Aveva camminato a vuoto per tutto il pomeriggio, attraverso i mercatini, e dopo nelle piazzette e per i vicoli fin sulle mura del quartiere. Poi, si era seduta sulle pietre di una terrazza vicino a una piccola fonte, ed era rimasta lì, in silenzio, a guardare il sole gettarsi oltre le porte della città, oltre la piana del deserto. Il mare della baia era diventato nero, e le fiaccole e le lanterne erano state accese a ogni posto di guardia e di fronte alle case. Faceva quasi freddo, adesso; si rialzò lentamente, e prese la via che l’avrebbe portata nella residenza di Niazi.

Sapeva che Samaduin aveva ragione, che non sarebbe potuta rimanere nella casa col giardino. Non poteva più stare con Arakhon e con gli altri, perché lei era, era quello che era. I soldi non le mancavano, poteva comprarsi una casa sua, ormai, e anche una casa bella grande; nondimeno, però, le dispiaceva andar via. Era stato un periodo magnifico: si era sentita al sicuro, si era sentita parte di qualcosa. Aveva degli amici. Si, degli amici.

Girò verso la parte orientale del quartiere, e prese la scala che portava fino al vicoletto dei fornai, perché era la più breve, e ormai la conosceva bene. Conosceva abbastanza bene tutti, oramai, e loro conoscevano lei; era un posto sicuro, e già da tanto non aveva più paura. Tanti l’ammiravano, perché lei, Jampe, era veramente bella, degna d’un re. Però non era vero, di paura, quando attraversava quel tratto buio di galleria fra le case, ne aveva sempre un poca, da quella volta in cui era corsa la' per ripararsi dalla pioggia e aveva visto lo straniero e la sua dama. Quella donna, quella dama non si poteva dimenticare, perché, se Jampe era degna d’un re e bella, quella era una dama nata per l’Imperatore del Mondo, così alta, con quel petto come marmo, e quegli occhi, da perdercisi dentro. Non riusciva a dimenticarla, lei, Jampe, immaginarsi se poteva dimenticarla un uomo. Quella dama era lì, nella sua testa. Quella dama era lì, di fronte a lei, sola nella galleria, e le veniva incontro.

Jampe sentì un colpo sordo nel petto e penso: “Ecco, è così che si ferma, e dopo è tutto finito”. Le mancò il respiro. Un passo, ancora uno, e la dama sarebbe stata a un palmo da lei.
C’era un vecchio attaccato a una bottiglia, nella galleria, se ne stava appoggiato con una mano a una parete cercando di reggersi in piedi e con l’altra di tanto in tanto alzava la fiasca e beveva un sorso, cantando piano; cantava qualcosa di triste, forse in una lingua del nord. Non ci pensò neanche per un istante; aprì il cordoncino che le teneva chiusa la gonna, spinse il vecchio per terra avvolgendolo con le sue gambe nude, e prima che lui potesse protestare per la vinaccia della bottiglia che scorreva via verso le scale formando una specie di fanghiglia, gli chiuse la bocca con la propria. Il vecchio aveva un sapore schifoso, e non era poi tanto ubriaco, perché già le stava mettendo le mani addosso e già il suo corpo la sentiva e lei sentiva il suo. Ma era mille volte meglio degli occhi della dama.
Jampe non sentiva niente, né un passo, né un respiro, soltanto i mugolii del vecchio e gli echi della galleria. C’era ancora? Possibile che se ne fosse già andata? Non aveva sentito niente, non sentiva niente, neanche un passo. Un attimo prima sì che aveva sentito, però: si era sentita guardare. Era possibile sentirsi guardare? Certo che era possibile. Quella donna l'aveva guardata e le aveva letto tutto dentro. Sapeva chi era, sapeva dove dormiva, cosa mangiava, sapeva con chi faceva l’amore e sapeva anche di Arakhon. Quella donna sapeva tutto! Ma chi era?

Il vecchio mugolò ancora qualche cosa, era venuto, e se n’era anche andato, perché adesso ronfava come un mantice. Jampe non osava muoversi; sapeva che non avrebbe potuto restar lì tutta la notte, accucciata coi piedi nel fango, perché il prossimo ubriaco avrebbe potuto essere di tutt’altra specie, quei topi che camminavano là attorno sfiorandole le gambe le facevano schifo, e faceva anche freddo. Si alzò. Cercò tutto il suo coraggio, lo trovò, lo raccolse e si voltò di colpo, con la mano stretta attorno al pugnale che portava nascosto, pronta a combattere anche se lei il coltello l'aveva usato nella sua vita solo per mangiar la carne.

Non c’era nessuno.

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Settembre 15, 2007 - 10:20 pm

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Nel dipinto, Ciryaher vedeva ora una donna alta, magra e dalla pelle color latte. Il volto pallido, appena incorniciato da capelli biondi raccolti in una lunga treccia, aveva quel ghigno triste da teschio, che Ciryaher ricordava bene dalla descrizione del diario; indossava una veste verde, lunga abbastanza da sfiorare il pavimento della sala all'angolo della quale era stata rappresentata. Una veste allacciata solo su una spalla, come un chitone di Hathor, e sostenuta sul davanti dalle forme spigolose del seno.

Anathien.

L’intuizione gli era venuta solo la notte prima, dopo lunghe ore passate a rileggere gli scritti di Intillamon. Avrebbe dovuto forse chiamarlo Shakor, ora che aveva scoperto tutte quelle cose su di lui; nel ricordo di Ciryaher, eppure, il viso del vecchio era quello di un maestro gentile, di un uomo pieno di premure nei confronti di tutti, dall’animo generoso. Per Ciryaher, Intillamon non era lo Shakor freddo e razionale di Ostelor, l'uomo spietato che Ar-Venie gli aveva descritto; Ciryaher non aveva conosciuto il vecchio a Ostelor, e per lui sarebbe sempre rimasto Intillamon.
Il percorso che l’aveva portato a ricordare nuovamente quei passaggi del diario e a chiedersi perché non avesse provato prima a lasciar scorrere la sua mano nervosa e impastata di colore sulla tela, così come aveva fatto sulla Baglah, quando aveva riportato nel mondo dei vivi l’immagine della strega Shuzgam, non gli era completamente chiaro, non aveva compreso tutto. D’improvviso nel silenzio della casa di Niazi aveva pensato alla tenuta di Vaisala in mezzo alla neve, ad Aldor, a quello che era caduto quattro anni prima, ad Intillamon stesso, e per chissà quale associazione gli era venuto in mente il passaggio nel diario che parlava di quelle strane rappresentazioni pittoriche sopravvissute a due Ere del mondo e di Anathien, la Dama Triste. E se aveva dipinto il volto di Shuzgam, aveva pensato, perché mai non provare a dipingere il ritratto di Anathien. Per quanto si sforzassero, infatti, Khalid e Ciryaher non avevano mai capito quale legame effettivo ci fosse fra gli elementi contenuti nel diario di Intillamon e ciò che stava accadendo, soprattutto perché erano ignoranti e, cosa per nulla trascurabile, ne mancava un'intera parte, che non avevano mai trovato e che forse adesso, grazie ad Athair e Anysa, era in mani nemiche.

Tenebra, Anysa, gli Orchi di Ny Chennacatt , la guerra a Ostelor, le premonizioni di Ciryaher, il pessimismo di Tara, Ba Zalarit; che cosa aveva a che fare, tutto ciò, con la vita passata di Intillamon e con le leggende di un male più antico di Sauron e del Popolo Che Non Sogna? La Corona Nella Culla esisteva, ed apriva veramente la porta fra il mondo di Eä e il mondo sotterraneo degli Altri Dei? Dove si trovava, ora, Mudrail? Per quale motivo, a Gondor, re Elessar si era così spaventato da mandare un esercito al gran completo verso Ostelor, nonostante la battaglia alle porte di Mordor fosse stata vinta e l'Anello distrutto? Chi erano, gli Altri Dei?
Troppi misteri. Una certezza però era che Intillamon aveva parlato di Anathien nel suo diario, e che i coloni giunti da Numénor, e vissuti nel Sud, oltre l'Harad, erano parte di quella storia, e anche più che una semplice parte, così Ciryaher pensava, perché avevano toccato quella storia stessa, avevano vissuto con il Popolo Che Non Sogna. C’erano state, di sicuro, delle unioni di sangue, le discendenze si erano intrecciate; Anathien l’aveva visto, e sapeva.

Attraverso la sua immagine, Ciryaher avrebbe potuto parlarle.

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9
Settembre 15, 2007 - 11:04 pm

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“E’ lei Anathien?” , chiese Tuija. Tuija, in piedi accanto allo scrittoio, vedeva appena il dipinto, perché Ciryaher aveva spento la lampada molto tempo prima, e le due candele che aveva tenuto accese si erano completamente consumate. Solo una piccola fiammella rimaneva ancora viva nella tazza di terracotta; la notte era scura.
“Immagino di si. Non potrei comunque dire diversamente, Tuija. Così come te, io non l’ho mai vista. Anathien è certamente morta da migliaia di anni; forse è morta in un luogo desolato, oppure ha chiuso gli occhi nella tranquillità del suo letto, in una stanza di fronte al Grande Mare. Non sono capace di dirlo, neppure d’immaginarlo. Anche mentre la dipingevo, la sua immagine, l’immagine del suo tempo, rimanevano per me all’angolo della mia mente. Appena percettibili. Inafferrabili, e, temo, incomprensibili.”
“Non hai paura di tutto questo, Ciryaher? Non hai paura, qualche volta?”
“Qualche volta, Tuija?”, disse Ciryaher. Si sentiva stanco, come dopo una lunga passeggiata sotto il sole; aveva bisogno d'acqua, e di chiudere per un poco di tempo gli occhi. Non aveva però la forza di alzarsi, e rimase così, sprofondato sulla sedia, con solo la forza di allungare la mano verso una brocca che conteneva ancora del tè. “Mia dolce fanciulla. Ti sento così … pura, quando dici cose come questa, ed è la tua dolcezza a portare un po’ di felicità nella mia giornata. Sono così contento di averti ritrovata …”

Tuija stava per aggiungere qualcosa alla sua domanda, e si era piegata verso il dipinto per osservarlo meglio; alle parole di Ciryaher era rimasta a bocca mezza aperta, con il labbro sollevato, stupita e incapace di proseguire. Mai, in quegli anni, Ciryaher le aveva parlato così. Tuija aveva sentito una vampata di calore sulle guance, e non osava guardarlo, perché sapeva che, in quel momento, Ciryaher, il signore, l’amico che le aveva insegnato a leggere, a scrivere, a suonare e anche a stare seduta con le ginocchia unite, la stava guardando come un uomo guarda una donna. Le guardava la schiena nuda.

Fu solo un attimo; Ciryaher posò la brocca, e continuò a parlare.“Ho sempre paura, Tuija. In tutti i momenti della giornata, e ho paura di tutto, in modo particolare da quando viaggiamo con Arakhon. Me ne vergogno, più che mai adesso, perché Arakhon e Khalid e tutti i nostri compagni sono uomini valorosi; loro non hanno paura di niente. Io temo persino la mia immagine riflessa nell’acqua. Ho paura della morte, un vero terrore. Che cosa ci posso fare?”, disse. Si alzò, e con il mozzicone di candela rimasto ne accese altre tre, di modo che nella stanza si fece più luce; si mise di fianco a Tuija, cingendole le spalle mentre lei s’irrigidiva leggermente, e guardò anch’egli il dipinto. “Ma di questo, no, Tuija. Di questo non ho timore. Lei non c’è più; in qualche modo che non so, potremo forse parlarle, ma è morta da tanto tempo, così come Shuzgam.”
Tuija era interessata. Tutta la sua attenzione era fissata sulla figura della dama. Le sue braccia erano snelle e su quello destro portava un bracciale d’oro. Quello sinistro era sollevato e la posizione lasciava pensare che si stesse facendo scudo agli occhi con la mano. Era strano, dato che era al chiuso, e non c’era il sole, ma la posa era quella lo stesso.
“Anche questa volta, non so come abbia fatto a dipingerlo”, disse Ciryaher con un mezzo sorriso. “Io non so disegnare; nelle giornate normali, non ci riesco. Tempo addietro, però, ho decifrato alcuni passaggi dei rotoli trovati da Imrazor a Ostelor, e credo di aver imparato un incantesimo. Se ripeto quei versi con convinzione, nella lingua in cui sono stati scritti e che ho capito grazie a Khalid e ad Athair, allora le mie mani si muovono da sole e … dipingo. E’ singolare.”

Tuija lo udiva a malapena. Continuava a trovare nel dipinto nuovi particolari che attiravano la sua attenzione. Il cordone nero alla vita della donna, per esempio, che si accordava alla guarnizione della veste, e l’accenno appena percettibile del seno sinistro, esposto dal braccio alzato. Era un dipinto bellissimo. Sentiva di potersene stare a contemplarlo per ore di seguito. Si stupì di ciò che stava pensando: La dama del dipinto non avrebbe paura di Ba, la donna del dipinto non avrebbe minimamente paura della Tenebra .

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Settembre 23, 2007 - 11:23 pm

Pietre lisce, chiare e arrotondate, formavano un vago lastricato, quasi sepolto nella polvere che si alzava anche al passo più leggero. Ba cercò di respirare con la bocca, ma la polvere gli intasò la gola fino a soffocarlo.
Era un luogo pericoloso. Più avanti c’erano tre aperture nell’alta muraglia, poi il corridoio curvava scomparendo alla vista. In quel momento il Maestro poteva trovarsi dietro uno di quegli angoli, assieme all’Elfo.

Ansimando per il calore, Ba si fermò a esaminare la muraglia. Era già entrato nella fortezza del Maestro due o tre volte, sebbene lui non riuscisse a ricordare altro se non il fatto che era accaduto e che lui era riuscito a uscire in qualche modo. Era pericoloso pensarci troppo. Cespugli spinosi riempivano le tre aperture e chiudevano la via; fittamente intrecciati, morti, marroni, pieni di spine nere e acuminate, simili a uncini lunghi come dita. Troppo alti per guardare da sopra, troppo fitti per scrutare attraverso. Ba li toccò cautamente e trasalì. Sebbene avesse fatto attenzione, una spina gli punse il dito bruciando come un ago arroventato. Arretrò, inciampando nelle pietre; scosse la mano, schizzò gocce di sangue. Il bruciore si calmò, ma tutta la mano gli pulsava.

Di colpo dimenticò il dolore. Con il tallone aveva scalzato una pietra. Sollevandola, vide le occhiaie vuote: era il teschio di un uomo. Guardò il corridoio, fatto di pietre chiare e lisce, tutte uguali. Si mosse in fretta, ma era costretto a camminare su quelle pietre e non poteva neanche rimanere immobile senza calpestarle. Un pensiero vagante gli disse che forse le cose non erano quelle che apparivano, ma lui si affrettò a scacciarlo. Pensare era pericoloso.
All’improvviso, i cespugli si aprirono, e si trovò faccia a faccia con l’Elfo. L’Elfo mostrò in viso un lampo di sorpresa: si arrestò di colpo e il mantello rosso sangue smise di svolazzare; gli occhi emisero bagliori di fiamma, ma Ba se ne accorse appena, nel calore della fortezza.

“Per quanto tempo pensi di poter continuare a vagare per luoghi non tuoi? Per quanto tempo credi di poterci disturbare?”

Ba arretrò con passo malfermo e si domandò perché si toccava la cintola come se cercasse il coltello. “Devo vedere il Maestro”, mormorò. “Devo vedere il Maestro. Devo parlare al Maestro. Sono qui, li ho in pugno, presto saranno nostri. Per il Maestro. Ma mi serve il potere, il potere ”. Ma comprendeva appena il significato delle sue stesse parole.
“Il Maestro non è qui, uomo; e non è al tuo servizio. Sei il mio cane, qui, e non il suo. Se non accorri ai miei ordini, ti strangolerò e getterò il tuo corpo fra le fiamme dell’abisso, dove brucerai fino alla fine del tempo!”
L’Elfo protese la mano e all’improvviso Ba seppe che c’era il modo di sfuggirgli, un vago ricordo che urlava pericolo, ma un pericolo minore del suo tocco. “E’ un sogno!” gridò, “E’ un sogno!”
L’Elfo cominciò a spalancare gli occhi, per la sorpresa, o per la collera; l’aria tremolò e i suoi lineamenti si confusero, diventando sempre più vaghi.

Ba si girò e si trovò a fissare la propria immagine riflessa mille volte, diecimila volte. In alto c’era il buio, e il buio in basso, ma tutt’intorno c’erano specchi, specchi posti a ogni angolo, specchi fin dove arrivava la vista; e tutti riflettevano lui, acquattato, che continuava a girarsi, con occhi sgranati, atterrito. Un’ombra nera e confusa passò sugli specchi. Ba si girò, cercò di seguirla con lo sguardo; ma in ogni specchio l’ombra sgusciava dietro la sua immagine e spariva. Poi ricomparve, ma non confusa. Il Maestro percorse a grandi passi gli specchi, diecimila Maestri che cercavano e attraversavano senza posa gli specchi argentei.
Ba si trovò a fissare l’immagine del proprio viso, livido e tremante. Dietro la sua, comparve l’immagine del Maestro, che lo fissava senza vederlo. In ogni specchio le fiamme scaturivano dalle cavità degli abissi, cavità dalle quali grandi e mostruosi Vermi si precipitavano verso di lui, lo prendevano, lo avvolgevano, lo consumavano, mischiandosi. Ba voleva gridare, ma aveva la gola di pietra. C’era un'unica immagine, in quegli specchi infiniti. La sua. Quella del Maestro. Li aveva svegliati, erano sulla porta: sarebbe stata la fine di tutti i loro nemici. Mancava solo la chiave.

Ba sobbalzò e aprì gli occhi: il buio era interrotto solo da una fioca luce. Respirando appena, mosse solo gli occhi. Avvolto fino al mento in una ruvida coperta di lana, teneva la testa appoggiata sul braccio. Sotto le dita sentiva la superficie liscia delle assi di legno. Il ponte di un’imbarcazione.
Scricchiolio di sartiame. Ba emise un lungo sospiro. Era ancora a bordo della sua nave. L’incubo era terminato. Per quella notte, almeno.
Senza riflettere, si mise in bocca il dito; sentì il sapore di sangue e smise di respirare. Lentamente accostò al viso la mano e nella fioca luce della luna notò la goccia di sangue sulla punta del dito. Una puntura di spina. In quel momento, una figura scivolò furtivamente dall’alto verso di lui, verso le coperte gettate sopra le assi, sulle quali si accoccolò. “Sono nel quartiere dei mercanti”, mormorò sottovoce. “In una delle case di Mobarek”.

[size=2]Da "L'Occhio del Mondo", di Robert Jordan[/size]

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Ottobre 3, 2007 - 9:04 pm

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Nel silenzio del Maestro, l’Elfo lo guardò di nuovo male, e Ba abbassò gli occhi. Per un momento, nessuno parlò, mentre Ba cercava disperatamente la frase giusta per riprendere il suo discorso.

“E’ una buona notizia” , disse il Maestro. Ba sentì l’aria ritornare nei suoi polmoni, come se fosse stato tolto il tappo all’enorme vaso nel quale si era sentito rinchiudere. Il sangue ritornò nelle sue mani e sulle sue guance, e d’un tratto avvertì la presenza del Potere con straordinaria intensità.
“Perché vuoi che sia Anysa a farlo?”, chiese infine l’Elfo.
“Perché è più facile chiederlo a lei, piuttosto che chiedere a Ba di scoprirsi improvvisamente intelligente. Lui o la sorella, dunque.”

Ba guardò verso di loro senza capire. Di chi stavano parlando?
L’Elfo scosse la testa tristemente. “Non riesci a sentirlo?” chiese, quasi in un sussurro. Guardò teatralmente in lontananza. “Le forze si spostano. Le ombre vagano. D’un tratto ecco un fremito nella trama del telaio, nelle possibilità. Un riassetto del futuro, mentre i destini si moltiplicano. Tutto diverge, e poi diverge di nuovo.”
Tornò a guardare Ba. Ba gli sorrise, pensando che scherzasse, ma la sua bocca era seria, e si sentì di nuovo privato dell’aria nei polmoni. “C’è un erede alla linea dei Kinn-Lai. Il Popolo Che Non Sogna non è morto” disse piano. “Ne sono certo. L'Erede aprirà la Soglia”.
Ba ebbe quell’improvvisa sensazione di vacillare sull’orlo del vuoto, senza sapere di quanto sarebbe caduto, come se avesse mancato un gradino nell’oscurità. Proclamò, con troppa fermezza: “La linea si è estinta a Ra-Morij, è finita con Rugia”.
L’Elfo lo guardò con occhio scettico. “Ah” disse con falso entusiasmo. “Certo che sì. Allora deve essere Anysa che è incinta.”
“Deve essere lei” concordò Ba, soprapensiero, ma si rese subito conto di ciò che aveva detto, e il suo cuore sprofondò. L’aria gli mancava sempre di più. Forse, ora, l’Elfo avrebbe bruciato la sua anima con il Fuoco Nero. Fu colto da improvvise vertigini, ma si costrinse a trarre un lungo respiro per calmarsi.
“Ti sei messo un sacco in testa, Ba? Potrei stringerne i legacci attorno al tuo collo. Hai perso troppo tempo, e molte cose si sono messe in movimento. Troppi, ora, hanno sentito e sanno, e si avvicinano a te, da est, da ovest, Uomini ed Elfi e persino la gente del mio sangue. Persino coloro che pensavo per sempre perduti.”

Il Maestro emise una risata senza vita. “Non ha senso che si parli di questo, ora. I nostri amici sono vicini a Ba e Ba li ha in pugno. Non avranno cuore per abbandonare i loro compagni; verranno loro da noi, così come è venuto il negro, e lo scopriremo, troveremo tutto ciò che ci manca. Lo stupito menestrello, e anche Arakhon. Sono contento, Ba, contento di te e della tua vittoria.”

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Ottobre 3, 2007 - 9:56 pm

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Il panico s’impadronì di Tuija. Non pensò più alla sua spada. Non pensò più a Khalid e ad Anysa. Sentiva solo il freddo, tanto freddo, sentiva solo che stava tremando e che non poteva fermarsi, sentiva solo che stava morendo e che stava gridando. Era lei, e la guardava con i suoi occhi vuoti, e la toccava con le sue braccia, solo che non erano veramente braccia, non lo erano affatto, e Tuija urlò, urlò, urlò; era l’oblio, che stava invocando, l’oblio e la fine di ogni percezione e conoscenza, ma la realtà che aveva davanti non le diede tregua.

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“Dei, o Dei. Ho tanta paura” , pensò Tuija, cercando di sottrarsi alla stretta di Zanaenia con un ultimo sforzo, “Non avrai la tua vittoria né loro!”
Fu allora che Zanaenia si erse minacciosa sopra di lei e levò la mano. Tuija divenne improvvisamente muta. Sentì la lingua paralizzarsi nella bocca e il cuore battere affannosamente, irregolarmente. La spada si frantumò e le cadde dalla mano tremante. Urlò di nuovo, e le sue grida raccapriccianti si fecero via via più confuse e distanti nella coscienza che se ne andava e nella nebbia che l’inghiottiva insieme a tutto il resto. Poi Tuija si sentì cadere; non udì e non vide più nulla.

Si destò scossa dai suoi stessi movimenti. Tremava di nuovo, sbatteva le mani e i piedi come per il morso di uno scorpione e non riusciva a fermarsi. Era a terra e al buio, distesa su di un pavimento di pietra sporco e umido, ed era nuda. Tuija gemette, e con un enorme sforzo di volontà riuscì a controllarsi, ad alzarsi e tenersi diritta, ma poi ricadde in ginocchio.

Levò con difficoltà gli occhi verso la fioca luce che proveniva dall’alto, e poi si mise ad avanzare carponi verso la porta. La stessa si trova in cima ad una scala di pietra, lunga molti gradini. Temette per un momento che le forze le sarebbero appena bastate a muovere l’equivalente di due o tre passi, ma non fu così. Tuija si sentiva consunta dalla sofferenza, dal morso velenoso che stringeva il suo cuore, dalla paura, dalla preoccupazione per Khalid, ma non cadde; trasse un profondo respiro e continuò a muoversi. S’inerpicò sempre più su, faticosamente, salendo piano, incespicando spesso e strisciando infine come una lumaca con un pesante fardello sulla schiena. Quando la sua volontà non riuscì a spingerla oltre, e le sue membra cedettero definitivamente, si fermò, e vincendo la vergogna per l'essere nuda chiamò piano verso l’uomo che aveva aperto la porta. “Aiuto. Vi prego, aiutatemi”.

L’uomo si avvicinò, s’inginocchiò accanto a lei, l’aiutò a sollevarsi e ad appoggiarsi al muro, poi le prese dolcemente il viso e l’accarezzò. Stringendole le mani fra le sue, le disse: “Coraggio, bambina, è l’ultimo sforzo. Lasciati andare. Sei tornata a casa”. La voce morbida nelle sue orecchie e il tocco di quelle mani calde, ora sul suo seno, furono come uno schiaffo; Tuija spalancò gli occhi, e si ritrovò a fissare il viso beffardo di Ba.

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Ottobre 3, 2007 - 10:04 pm

Quando i guerrieri furono di ritorno all’accampamento nella baia di Zambra, i feriti sistemati, e i morti raccolti e preparati per la pira, Jano si avvicino ad Arakhon e domandò: “Dov’è Ponto?”

Istantaneamente l’espressione del viso di Arakhon passò dalla gioia per il calore del fuoco e per il riposo alla pena dolorosa. “E’ morto” rispose, e quasi pianse. “E’ stato ammazzato là, sul muro della piccola rocca. Suri mi ha aiutato a seppellirlo nel cortile. Avrei voluto portarlo indietro. Ma che senso avrebbe avuto; non avrei potuto comunque onorarlo così come si sarebbe meritato. E allora quella rocca rimarrà per Ponto, sarà la sua tomba, e così lo ricorderemo.”

“Era un buon cane”, disse Jano, addolorato. “Così lo ricorderemo.”

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Ottobre 5, 2007 - 11:05 pm

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I topi anticipavano ogni suo movimento. Lottava, cercava di difendersi con le mani e con la fiamma della lampada, ma erano più veloci di lui. Da principio, i voraci animali erano rimasti stupiti e terrorizzati per la forza della reazione di Samaduin, che avevano creduto finito, e si erano ritratti allarmati, molti addirittura erano fuggiti oltre il davanzale della finestra. Ma era stato solo un attimo. Vedendo che si muoveva con difficoltà e che non riusciva a sostenersi, uno o due dei più coraggiosi erano balzati sulla sua schiena ed avevano cominciato a mordere. Era stato il segnale dell’assalto. Dalla finestra, erano ritornate le truppe di rinforzo, si erano aggrappate al tavolato e ai corpi dei feriti, li avevano scalati, ed erano stati loro addosso a centinaia. Si affollavano, brulicavano sopra di loro, si gettavano a ondate, sempre più numerosi. Si dimenavano proprio attorno alle loro gole; le loro labbra gelide cercavano quelle delle loro vittime, mezze soffocate dal loro peso. Un ribrezzo che non aveva nome gonfiava il petto degli uomini ormai privati della speranza; Samaduin aveva il cuore imprigionato in una morsa.

Un momento ancora, e la lotta fu terminata.

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Ottobre 5, 2007 - 11:18 pm

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Quando rialzò lo sguardo, il misterioso cambiamento avvenuto nella stanza improvvisamente le si svelò. Jampe aveva visto le immagini sulle pareti della sala muoversi con contorni ben disegnati, mentre invece i colori apparivano confusi e sbiaditi. Ma ora, mentre giaceva riversa sul grande tappeto, con la schiena forse spezzata, questi colori avevano acquistato una luminosità intensa e sorprendente, una luminosità che continuava a crescere, dando a quei ritratti spettrali un aspetto capace di sconvolgere nervi molto più saldi dei suoi. Occhi demoniaci, dotati di una vivacità bizzarra e sinistra, la guardavano da tutti i punti della stanza, anche da quelli dove prima non sembrava esserci stato nulla, e brillavano alla lucentezza di un fuoco il bagliore del quale proveniva dall’esterno.

Paura.

Quando respirava, le arrivava alle narici il fiato di un ferro rovente. Un odore soffocante era penetrato nella sala. Gli occhi che fissavano la sua agonia avevano un bagliore sempre più cupo. Il rosso che colorava tutto era ancora più intenso. Ansimava. Le mancava l’aria. Ora non poteva avere dubbi sulle intenzioni degli assalitori, crudeli e privi di pietà. Con la poca forza che ancora aveva si trascinò lontano dalle pareti arroventate, verso il centro della sala.

Mentre rifletteva sgomenta sulla morte infuocata che l’attendeva, pensò al pozzo del giardino e alla sua frescura come a un balsamo.

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Ottobre 5, 2007 - 11:28 pm

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All’improvviso, un confuso rumore di lotta! E il clamore delle grida! E lo schiantarsi terribile della porta che le aveva finora difese!
Pazze che erano state! Come avevano fatto a non capire che i guerrieri dal manto nero avrebbero voluto loro per prime? Avrebbero potuto resistere all’orrore del loro tocco? E anche se vi fossero riuscite, avrebbero potuto resistere alla stretta del rimpianto?

“La morte” , mormorò Niazi, “qualunque morte, ma non questo.”

La fessura nella porta si allungava sempre di più sotto i colpi di quei guerrieri, con una rapidità che non le lasciava il tempo per pensare. Urrit cercò di arretrare, ma era spinta in avanti dal muro alle sue spalle. Alla fine, si abbandonò, e si lasciò scivolare a terra piangendo. Non lottava più, ma l’angoscia che provava si trasformò per l’ultima volta in un lungo, altissimo, disperato grido. Sapeva che ormai stava per cadere nell’abisso, e cercò di non guardare.

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Ottobre 6, 2007 - 12:13 am

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Ho sentito racconti che parlavano di me in quella notte. Perfino una canzone. Non ricordo di aver schiumato e ruggito mentre combattevo. Ma neanche ricordo di non averlo fatto. Da qualche parte, dentro di me, c’erano sia Unnath Edril che Shuzgam, ma anche loro erano annegati nelle passioni di chi mi circondava.

La casa era assediata. Quando Anysa era arrivata con gli uomini di Ba c’erano stati soldati di Samaduin nel cortile. Alcuni dei loro corpi erano ancora lì. Un massacro. Avevo superato di corsa cadaveri afflosciati che sanguinavano nella sabbia. Sembravano tutti della nostra gente. I guerrieri di Ba erano uomini bruni e muscolosi, asciutti più che massicci, i capelli neri sciolti e selvaggi sotto i loro copricapi. Come quelli già incontrati nel deserto. Questa volta però ero solo. Khalid e Tuija erano caduti. Arakhon e Suri erano lontani con Ender. Alcuni avevano elmi di metallo. Le braccia nude erano decorate con spirali scarlatte, ma non avrei saputo dire se si trattava di un tatuaggio o di pittura. Erano fiduciosi, tracotanti, sorridenti. I servi della casa di Niazi erano in trappola; la struttura era stata costruita come una residenza, non come un bastione difendibile da un attacco di sorpresa. Con l’illusione dell’immagine di Khalid, Anysa aveva fatto aprire il cancello, e l’ Oscuro si era riversato all’interno. Era questione di tempo prima che gli uomini intrappolati nelle sale venissero uccisi.

Pensavo a Tuija, a come mi aveva sorriso la notte prima, mentre recitavo le parole che avevo tradotto dai rotoli e imparato. Pensavo a com’era stata contenta quando avevo suonato per lei. Avevo gettato un grido di battaglia ululante, paura terribile e gioia vendicatrice fuse in un unico suono. L’emozione di tutti i miei ricordi correva al mio fianco, aveva trovato sfogo in me e mi aveva spronato. Gli aggressori si erano girati a guardare mentre li raggiungevo. La sentinella al cancello giaceva ancora dove l’avevo vista cadere nel mio sogno. Il sangue riversatosi dalla bocca aveva inzuppato la camicia ricamata. Era stato colpito alla gola, da una freccia scagliato da dietro. Uno strano dettaglio da notare mentre correvamo a gettarci nella mischia. Non c’era strategia, né formazione, né piano di battaglia. Solo un gruppo di uomini e donne a cui improvvisamente veniva offerta l’occasione di sopravvivere. Era più che sufficiente.

Se prima avevo pensato di essere una cosa sola con quelle donne e quegli uomini, dopo ero stato immerso in loro. Le emozioni mi colpivano e mi spingevano in avanti. Non saprò mai quanti o quali sentimenti fossero i miei. Mi sopraffecero, e Ciryaher si perse dentro si essi. Divenni le emozioni di quella gente, di tutto, della casa stessa di Niazi. Tenendo levata l’ascia che avevo trovato, ruggendo, li avevo guidati. Piuttosto ero stato spinto in avanti dal loro estremo desiderio di qualcuno da seguire. Tutt’a un tratto volevo uccidere quanti più di quei nemici potevo, più in fretta che potevo. Volevo che i miei muscoli schioccassero con ogni colpo, volevo gettarmi avanti attraverso una marea di anime diseredate, calpestare i corpi dei nemici caduti. E lo feci. Avevo già sentito le leggende del Dunland, degli uomini del Nord che cadevano preda di quella frenesia. Avevo pensato che fossero bruti animaleschi, alimentati dalla brama del sangue, insensibili ai danni che causavano. Forse, invece, erano anche troppo sensibili, incapaci di difendere le loro menti dalle emozioni che si riversavano a sospingerli, incapaci di badare ai segnali di dolore dei loro corpi. Non lo so.
So che colpii Anysa con tutta la mia forza con il dorso della lama quando mi si parò di fronte e che cadde davanti alla nostra folle corsa. So anche che finii l’ultimo uomo che si era frapposto fra noi e la strada, in una battaglia ascia contro ascia. So che stetti in piedi di fronte a quell’ombra oscura, che invocai gli dei. La canzone dice che era uno spettro dagli occhi gelidi, coperto da un manto. Suppongo che fosse possibile. Non ricordo nient’altro di lui tranne il modo in cui la mia ascia si fracassò quando affondò nel suo cranio, e il sangue nero che sgorgava sul suo pallido viso mentre crollava in ginocchio e si dileguava nel buio.

Così era finita la battaglia, e noi, che eravamo ancora vivi, eravamo fuggiti nei vicoli, fino a trovare rifugio nelle case di amici e conoscenti. Poi era venuta l'alba, ma la sua luce mi era apparsa malsana.

[size=2]Liberamente tratto da "L'Assassino Di Corte", di Robin Hobb[/size]

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Ottobre 6, 2007 - 12:20 am

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Cara Urrit.

Sono a Zambra sotto la tempesta. La mia seconda tempesta. La più grande tempesta che ho incontrato.
Siamo sbarcati contro la spiaggia con i tuoni e i fulmini con la pioggia di traverso. Fredda.
Arakhon urla sotto il diluvio, sbraita nella sua armatura bianca. Ha ancora forza e coraggio!
Non lo capiscono. Si chiedono cosa vuole? Come fa? Perché si danna?
Senza di lui saremmo inermi sotto la pioggia. A piangere come bambini. Siamo solo bambini viziati. Gli uomini come Arakhon fanno gli uomini. Non bisogna mai arrendersi.
Il tempo, il mare, il deserto, i demoni, i malefici, sono tutte cose che Arakhon affronta in piedi. Sbraita contro il cielo, sbraita contro il vento, grida all'amico ubriaco. Allarga le braccia e serra i pugni.

Abbiamo preso una fortezza oggi. Io sono svenuto. Arakhon era in piedi sotto la pioggia. Braccia conserte, con lo sguardo vivo. Perché vive ogni momento lui.
E guarda la città e pensa al domani. Qualcosa gli dà forza. La forza di un uomo o di un dio.

Suri sorride al domani. A te

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Ottobre 16, 2007 - 8:06 pm

Maggio,
dell'anno 75,
della Quarta Era.
Tul Harar.

Le nuvole grigie erano il tetto del mondo su Tul Harar.
Le notizie giunte erano di un colore ancor più grigio se non tetro.
Al porto vennero a cercarci uomini di importanza della città e ci chiesero di Arakhon Eshe di Ostelor. Lo trovarono nella sua fierezza, quella di chi misura colui che gli è davanti.
-La casa è bruciata, gli uomini della guardia morti. Le donne, scomparse.- riferirono mesti e preoccupati.
Trovammo Ciryaher, il fuggitivo, l'uomo della musica, lo speziale, lo studioso, conoscitore di arcani e mente brillante del seguito del padrone. Nel suo modo spaventato disse degli accadimenti della notte; della notte delle fiamme.
Hanno preso le donne, donna Niasi, Tuia, Farah, Urrit, Yampe. Anche Khalid è scomparso.
C'era disperazione nella sua voce eppure era lucido.
Samanduin è morto.
Anche Yaffai Mubarek è stato ucciso!

C'era ancora sangue sulle sue vesti, scuro, rappreso, morto. L'uomo dalla grande paura, aveva combattuto contro gli emissari neri della notte. Aveva visto Anysa. Aveva cercato di ucciderla, lei aveva cercato di ucciderlo. Tutti sarebbero dovuti morire per mano dei logotenenti neri dell'ombra assassina; nessuno avrebbe dovuto più vedere lo scorcio della luce del sole nell'indomani.
Tutto scomparso. Tutto parve perduto in un sogno da mille e una notte. Non ci sarà mai un lieto fino a questa storia che ci logora da tempo? Un bagliore sul giorno a venire? una semplice consolazione almeno? Ci sarà mai un giorno come quello?
I carboni scuri delle travi più grosse, braci ancora ardenti che covavano l'ultimo soffio del furore delle fiamme, le pietre, i marmi preziosi, devastati dalla vampa, neri del fumo. Tutto cenere e fuliggine, il giardino, la fontana, le camere, l'atrio, il salone delle feste, la sala del pranzo, dello studio, la libreria, la stalla.
Un giorno grigio.
Un giorno grigio-nero di cenere.
E pure il cane, Ponto, quello stupido cane bavoso era morto.
Un giorno nero.
Essenzialmente non v'era altro modo per riferirvi ciò.
Un giorno nero.
Sembrò tutto prossimo, ad una certa disfatta, alla fine capitale di tutte le speranze in un nuovo territorio, tanto che il mio padrone mi osservò come per la prima volta.
Buon padrone il tesoro non è stato toccato.
Inutile notizia senza il suo vero mondo, un mondo in cui giovare di questo tesoro di famiglia.
Fu così che ebbi la fortuna di pensare che forse il gioiello poteva essere scampato.
Il più bello dei gioielli di AraKhon lo rintracciamo alla fine del giorno.
La piccola Yampe, impaurita, senza colore sulle labbra e con gli occhi gonfi di lacrime eppure ancora bella abbracciò il suo padrone come se fosse l'ultima luce rimasta nel suo cuore. L'ultimo bagliore di questa terra lontana dove forze diabolesche vogliono togliere la luce dalla volontà degli uomini.
Uomini come noi.
La cicatrice sul volto di AraKhon si mosse in un'espressione di violenza, quando mi guardò di nuovo. Per nulla grato al fato. Come se una rabbia rimasta a dormire per anni ora volesse uscirgli fuori dalla faccia, dalla bocca, dal naso, dalla ferita antica.
Ancora quel gesto, le braccia conserte, sguardo vivo, ma reso cupo dal segno che lo sfigura ricordo di una prima vera e forte violenza rabbiosa da tempo rimasta celata dietro quella riga assimetrica su una faccia allegra.
Mani che si serrarono su else sbiancando le nocche, sotto un cielo grigio, nero, una forza inaudita, nata per troppi eccessi nella sua pazienza.
Si represse ancora, ma la vecchia ferita gli pulsava nella testa come se fosse stata fatta in quel vecchio ed antico giorno.
Un giorno nero.

Dalla conta narrata
dall'umile servitore
della nobile famiglia
Eshe di Ostelor:
LA SECONDA TEMPESTA
SURI il Sorridente.

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Ottobre 20, 2007 - 3:04 pm

L'umidità della cella non faceva che produrre condensa sul soffitto e sulle pareti di roccia viva. Un'infinità di gocce d'acqua continuava a scendere provocando ormai un rumore assordante e costante nelle orecchie di Khalid.
Con gli occhi fissi e lontani e le mani che cercavano di coprire i lobi auricolari per non sentire, egli pensava a quanto ciclica fosse la sua esistenza, a tentare invano di inseguire la libertà. Non sapeva più di chi potersi fidare e realizzava finalmente che l'Oscuro si stava muovendo nel tentativo di mettere uomo contro uomo, sua unica fonte di potere. Nella testa finalmente, una visione più ampia e globale, di tutto ciò che aveva visto. Come facevano quegli insignificanti esseri (che mai prima d'ora avrebbe considerato diversi, per educazione morale) a credere che l'Ombrachetuttobrama - come si chiamava nella sua lingua, tra i pastori - potesse concedere qualcosa in cambio dei servigi offerti nel suo nome? Ba, Anysa e tutti gli altri, caduti nella trappola seducente di un gioco di potere più grande di loro, ormai erano ammaliati ed accecati dall'ombra stessa.
Fin'ora tutto gli era sembrato schematico e lineare, come gli era stato insegnato. "Ricordati Khalid", gli avevano sempre detto nelle sue terre "che se offri il latte delle tue capre al vicino di casa, egli in cambio darà qualcosa a te". Si. Tra i contadini e la gente semplice questa logica era una necessità se non altro. Ma Morgoth (il nome segreto del Male che aveva appreso solo da poco) era succube anche di se stesso e del male che recava in Arda e non avrebbe scambiato niente con nessuno. Avrebbe dispensato solo morte e disperazione, ripiegando su se stesso il fetore dei suoi lussuriosi desideri di dominio.
L'haradan si chiedeva quanto valesse continuare a vivere. E per chi o cosa? Il tumulto caotico che si era propagato da Ovest dopo la caduta della Torre Nera anni prima, aveva reso le genti ceche e folli. Chi l'avrebbe ascoltato ora? Non se ne sentiva capace, stanco e consumato come se gli avessero succhiato tutto il sangue via dalle vene, ma per un istante pensò che ora, l'unico modo per sconfiggere il male era quello di ingannarlo con il suo stesso inganno. Quando la vera forza della Tenebra è quella di non far sapere che esiste. E che non può essere vista.

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