Interludio: i Denti di Alsarias (mag 75QE, piana di Maldor) | Terra Di Mezzo | Forum

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Interludio: i Denti di Alsarias (mag 75QE, piana di Maldor)
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Agosto 5, 2007 - 11:21 pm

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Eäromä

“Come una miriade di termiti su un buon legno” , disse Eäromä, guardando gli uomini sui bastioni nemici.

“Non c’è speranza di prendere quei forti” , disse Tharmaroth. “Armanô li costruì, e da due ere vigilano sulle mura di Alsarias. Aggiriamo la piana, Cirmoth; andiamo a sud. Non lasciatevi tentare!”

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Tharmaroth

Le mura di Alsarias apparivano, viste dalla collina in quell’alba di primavera, come una lunga fila di denti neri e appuntiti, inframmezzata da qualche torrione e da poche e ben difese porte. Proprio come nelle canzoni dei braccianti del Mispir, e proprio come Cirmoth li aveva sentiti descrivere dai primi esploratori e dai capitani del reggente del nord, Valandor, amico di Gondor.

Oltre Alsarias, a ovest, c'era la strada per Ostelor. Oltre quelle mura, a ovest, la vittoria, rapida e decisiva, una vittoria per re Elessar; e se avessero preso Alsarias, la vittoria sarebbe venuta con l'estate. A sud c'erano i passi sulle montagne, le terre non coltivate, e un altro duro inverno.

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Cirmoth

“La tua propensione per la vittoria, Tharmaroth, per la buona fortuna sarà cantata nelle sale di Elessar, e di certo avrà l’onore del sorriso di dama Arwen” , rispose Cirmoth, in piedi accanto al fuoco attorno al quale il servo Lothran si affaccendava. Il tono, più tagliente della lama appena affilata, non ammetteva repliche, e nessuno dei capitani dell’armata di Gondor e Mispir parlò. “Dicesti le stesse parole quando ci schierammo nella piana, di fronte agli armati di Ostelor e Rò-Mollò” , continuò con voce più morbida, sorridendo. “Temevi Yamo, eppure dov’è Yamo, adesso?”
“Incatenato nelle vostre galere, signore!” gridò Aphalzar, il più giovane dei figli dei nobili di Urland, colui che si era distinto proprio in quella carica contro Yamo di Ostelor. "Viva Cirmoth! Viva re Elessar!"

Cirmoth rise, avviandosi verso gli esploratori e chiamando a sé Lothran. Guardandolo, mentre si allontanava subito seguito dagli scudieri più fedeli e assieme a loro da una moltitudine di tirapiedi che sarebbero stati meglio in mare, con una pietra legata attorno al collo, Tharmaroth scosse piano la testa. “Non va.”
“Cosa temete, signore?” chiese Aphalzar. Ma Tharmaroth non disse più nulla, e rimase chiuso nel suo scuro borbottare.

Fu Eäromä, il re degli Elfi, a rispondere. “I Valdacli hanno molti arcieri sui bastioni. La macchina di Artagora domina il campo, da quella collina, la’, a settentrione”, disse, mentre con un bastoncino disegnava sulla terra una rappresentazione fedele delle forze che sarebbero state impegnate in battaglia, di fronte agli occhi del ragazzo, che lo ascoltava rapito dalla sua voce e dalla sua fierezza. Eäromä continuò.

“Vedo la battaglia. Cirmoth farà avvicinare piano gli armati di Tharmaroth, con le loro aste lunghe, e protetti dai grandi scudi; li farà avvicinare in modo che i nemici comincino a tirare, stancandosi e sprecando frecce. Con i suoi cavalieri, coprirà con manovre bene assortite il movimento dei suoi mastri, che porteranno la loro magia il più vicino possibile al punto debole scoperto dagli esploratori. Poi, nel mezzo del mattino, manderà gli arcieri vicino ai bastioni, diritti da oriente a occidente; il nemico avrà il sole negli occhi, mentre i nostri arcieri tireranno bene e faranno molte vittime. Forse il loro generale Akhibrazan farà una sortita, ma io credo di no.
Ora i fanti di Tharmaroth saranno ancora più vicini alle mura; ma le balestre dell’avversario li colpiranno. Il cammino è lungo; avranno il tempo per tirare tre e forse quattro volte. E dalla collina la macchina di Artagora li colpirà di fianco, e ancora altre macchine, di certo, tireranno da oltre i bastioni. Gli uomini che arriveranno sulle mura saranno troppo pochi e troppo stanchi, e Akhibrazan li finirà.
Così andrà la battaglia. Un mare di corpi; un prezzo troppo grande, e una sconfitta.
Ma forse, con la magia, i mastri di Cirmoth riusciranno ad aprire una breccia. E allora, forse, gli uomini che saranno più avanti potranno allargarla, e forse la cavalleria riuscirà a passare e a mettere in rotta i guerrieri disorganizzati di Akhibrazan, che, a meno di non aprire le porte e schierare i suoi sulla piana, non avrà spazio per manovrare. Forse. Alphazar, quelle macchine presto ci uccideranno, e Cirmoth non vincerà. A meno di un insperato aiuto”.

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Agosto 9, 2007 - 9:45 pm

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“No”, disse Tara.
“No, Nielval?”, rispose Eäroma, in tono di domanda. Fin dal primo momento in cui si erano incontrati, Eäromä aveva usato solo il suo nome elfico, solo quello; un nome che lei non gli aveva rivelato, ma che Eäromä aveva percepito, compreso, così come di lei aveva compreso tante altre cose.
“No, Eäromä”.
“E’ d’uso, nella tua terra madre, ripagare con un rifiuto, in un momento così importante, chi sta correndo sì gravi rischi per la salvezza, addirittura, di quella stessa terra?” disse Eäromä. “E’ d’uso mancare a una promessa già il giorno dopo?”
“E’ d’uso, fra gli Elfi, fare delle parole un’arma, e bruciare con essa il cuore dell’amico?”

L’elfo rimase in silenzio. Trascorse solo un attimo, un pesante attimo. Tara parlò per prima. “Non posso farlo, Eäromä. Non per la causa di Cirmoth, per quanto ora abbia capito la sua importanza; non per te, né... “ esitò, come se l’ombra delle cose che aveva visto a Ny Chennacatt fosse passata di fronte ai suoi occhi. “Neppure per sconfiggere l’orrore che ho visto, che tu mi hai mostrato. No, neppure per vincere Tenebra”.
“Egli utilizzerà l’ingenuità degli Uomini ancora una volta. Essi, deboli, cadranno. Cirmoth non può vincere senza il tuo aiuto. Il Nemico, sconfitto, risorgerà. Non domani, non per molte vite delle genti di queste regioni, ma presto”.
“E usare le armi stesse di quel nemico per sconfiggerlo, Eäromä? L’inganno e il tradimento? Mi chiedi di uccidere Akhibrazan, Eäromä. Ebbene come vuoi che sia fatto? Vuoi che io entri in Arpel segretamente? Certo può esser fatto con facilità. E raggiungerei la tenda di Artagora; parlerei con lui amabilmente, fino a notte, raccontandogli dei miei giorni pieni di sole sulle strade dell’Harad, e dei boschi color dello smeraldo, gettati lungo il fiume, e di Arakhon, dei suoi buffi vestiti, dei commerci e del vino. E lui ne sarebbe felice, e riderebbe. Non avrebbe timore di me, certo mi porterebbe da Akhibrazan e il capitano mi concederebbe di rimanere, protetta dal nome di Ar Venie, della donna che così tanto lui rispetta, e dalla parola di Artagora. E poi?”

Eäromä non rispondeva.

“E poi, dopo aver preparato la mia fuga, forse gli taglierei la gola. Meglio il coltello del veleno, in quanto gli uomini come Akhibrazan conoscono bene il veleno e sanno proteggersi da esso. Il coltello invece è rapido e silenzioso. E sarei subito qui. E dopo ... ”

“Basta!”, disse Eäromä. “Ti chiedo perdono. Ho... mancato. Non occorre che tu dica altro”.

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Settembre 28, 2007 - 10:05 pm

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Ar-Venie Eshe

Ar-Venie Eshe, signora di Ostelor, si preparò al combattimento. Si era infilata i cosciali, di un cuoio così spesso da vanificare qualsiasi colpo inferto da una spada, e sulla camiciola di lino portava appesa la Stella d’Oriente, che era appartenuta a sua madre ed era benedetta nel nome di Orome. Ar-Venie non era una donna particolarmente religiosa, ma pagava uno dei sacerdoti del Quartiere dei Templi in Rò-Mollò affinché badasse al suo spirito una volta che il suo corpo fosse caduto, e quel sacerdote aveva assicurato a Sha Bla che il solo fatto di portare la Stella le avrebbe garantito di morire nel suo stesso letto. Attorno alla vita si era legata una striscia di seta nera, che era stata strappata da una delle bandiere delle navi di Gondor catturate nella baia di Drel e successivamente immersa nell’acqua della Fonte Eterna nel cortile del castello di Akhibrazan, e lei era convinta che quello straccio serico l’avrebbe resa vittoriosa sull’antico e odiato nemico. O almeno, questo avrebbero dovuto pensare i suoi uomini, mentre lei li avrebbe condotti fieramente verso l’armata di Cirmoth.
Indossava anche l’usbergo di ferro e cuoio portato da Araphor nel giorno della sua morte. In quel tempo, dopo la tragedia di Ardor, i servi avevano impiegato due settimane per pulire dal sangue la delicata maglia di ferro; contrariamente agli usberghi indossati dai condottieri Valdacli, non era di solo metallo ma, per più della metà, di una pelle nera che la leggenda voleva esser stata strappata ad una delle terribili cavalcature alate dei Nazgul. Era più corto del consueto e lasciava le gambe prive di protezione, tuttavia Ar-Venie intendeva combattere a piedi e sapeva che il peso della cotta di maglia lunga stancava rapidamente chi la portava. Un uomo stanco era facile preda, ed una donna si stancava prima di un uomo. Sopra l’usbergo, indossava una sopravveste verde sulla quale spiccava lo stemma con l’Albero Bianco di Ostelor.
Aveva poi con sé lo scudo, benché in realtà questo fosse troppo pesante per lei, ma si aspettava che Cirmoth scatenasse i suoi arcieri Elfi e lo scudo era sufficientemente spesso da assorbire il terribile impatto di quelle frecce, lunghe una iarda e con la cuspide d’acciaio o peggio. Inoltre, Endariel Nindamos sarebbe stata accanto a lei, ed aveva promesso di proteggerla dagli strali di Gondor; poteva sempre posarne sul terreno la base e acquattarsi dietro, al sicuro, poi, non appena i nemici fossero rimasti senza frecce, disfarsene. Impugnava una picca, in previsione di una carica di quella stessa cavalleria che aveva affrontato Akhibrazan sulla piana di Maldor, e portava al fianco il suo stocco, lo strumento di morte preferito dalle donne degli Eshe.

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Endariel Nindamos

Per il momento, però, la picca non le sarebbe servita; sarebbero stati uomini appiedati contro uomini appiedati, quindi gli stendardi di guerra dei Valdacli furono portati avanti e piantati lungo la linea degli armati, di fronte alle mura di Alsarias.

Le catapecchie date alle fiamme nelle quali erano stati rinchiusi i prigionieri erano ormai un ammasso di braci che cullava corpi raggrinziti, neri e piccoli come quelli di bambini, e fu accanto a quei morti che Ar-Venie fece conficcare a terra i suoi vessilli. Al centro il suo stendardo, con il drago alato bianco e la nave in campo verde, e quello di Endariel, una stella argentea in campo azzurro; ai due lati, le bandiere dei nobili dell’Alleanza: il leone di Akhibrazan che brandiva una spada, il falco di Telumethar ad ali spiegate, quindi un susseguirsi, a est e a ovest, di stelle, asci, corone che garrivano al vento. L’esercito era diviso in tre falangi, ed era così numeroso che gli uomini sulle ali spingevano con le spalle verso il centro per mantenersi di fronte alla città, dove il terreno era più pianeggiante.

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Telumethar [Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Tarfil

I ranghi sul davanti pullulavano di fanti muniti di picche affiancati da armigeri che impugnavano spade, asce, mazze o martelli d’arme e, cosa più importante, reggevano gli scudi con cui potevano proteggere i soldati che manovravano le picche. Queste ultime erano munite in testa di un ferro simile a quello dell’alabarda, con una punta, un uncino e una scure. La punta poteva tenere a bada un nemico, l’uncino disarcionare o fare lo sgambetto a un uomo in armatura e la scure spezzargli la cotta di maglia o la corazza. Le prime file dello schieramento erano irte di quelle picche, quasi a formare una siepe d’acciaio con cui dare il benvenuto ai gondoriani. Alcuni dei nobili, come lo stesso Akhibrazan, erano a cavallo, ma soltanto per poter spaziare con la vista al di sopra delle teste dei loro uomini, e, mentre i loro sguardi erano rivolti a est, videro apparire le ultime truppe di Cirmoth.

Com’erano esigue! Quant’era piccolo l’esercito da battere!

Dietro lo schieramento si ergeva Alsarias, con le torri e i bastioni pullulanti di gente in attesa di assistere alla battaglia, e di fronte c’era quella misera armata gondoriana così folle da non aver scelto di ritirarsi a nord, di nuovo oltre le paludi. Il nemico aveva invece intenzione di combattere su quel terreno, benché i Valdacli avessero la superiorità numerica.

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Tanadas [Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Indur

“Se odiate Gondor, fate che lo sentano!” urlò Ar-Venie ai suoi uomini. E i Valdacli manifestarono il proprio odio con un fragore di tuono. Batterono spade e lance sugli scudi, innalzarono al cielo grida stridenti, e, al centro dello schieramento, un gruppo di tamburini iniziò a percuotere la pelle di capra dei loro immensi strumenti. “Se odiate Gondor, fateglielo sapere!” urlò Akhibrazan dalla sinistra dello schieramento Valdaclo, l’ala più vicina alla città. “Fateglielo sentire, il vostro odio!”
E il ruggito crebbe d’intensità, il fragore delle armi battute contro gli scudi si fece ancora più forte e l’odio di Valdacli dilagò sulla piana dove diecimila figli di Numénor urlavano contro quegli avversari tanto sciocchi da volerli affrontare.
“Li falceremo come spighe d’orzo”, pronosticò Tarfil , “bagneremo i campi con il loro fetido sangue e riempiremo le fosse delle loro perverse anime.”

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Akhibrazan

“Le loro donne sono vostre!” gridò Akhibrazan ai suoi uomini. “Stanotte le loro mogli e figlie saranno i vostri trastulli!” Sorrise al nipote, che camminava al suo fianco. “Tu potrai scegliere tra le donne di Urland, Mùazor.”
“E tra quelle di Gondor, prima dell’inverno”, replicò il nipote.
“Sì, anche quelle”, promise Akhibrazan. Ed egli, ammiraglio e generale di Rò-Mollò, era felice di essere su quel campo. Quel giorno lui avrebbe reso onore alla sua città e all’Alleanza dei Valdacli, e, forse, incuriosito Ar-Venie.

[size=2]Da "Il Cavaliere Nero" di Bernard Cornwell[/size]

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Ottobre 10, 2007 - 1:38 pm

Il Capitano Indùr dell’esercito di Ostelor, schierato sul campo di battaglia, ripensò alle ultime ore...
Si era svegliato poco prima dell’alba.
Era il giorno, secondo gli strateghi, in cui si sarebbe combattuta la grande battaglia contro le forze di Gondor, davanti alle mura della città di Alsarias… la battaglia che avrebbe deciso le sorti dei Domini Valdacli.
Nonostante la grande tensione che provava, Indùr era riuscito a dormire alcune ore tranquillamente. Sorrise fra sé: “Si vede che son diventato un rude guerriero” pensò, mentre con le dita si toccava la benda che ricopriva l’orbita oramai vuota del suo occhio sinistro, perduto in battaglia.
Un bagliore lo distrasse dai suoi pensieri: la prima luce dell’alba si rifletteva sulla lama della sua nuova spada, che aveva rinvenuto nelle terre selvagge e che era stata rimessa in sesto dagli artigiani al servizio della sua signora: Lady Ar-Veniè di Ostelor, capo del Consiglio e generale al comando delle forze schierate ad Alsarias. Indùr infilò la spada nel fodero e, mentre cominciava a prepararsi, gettò lo sguardo al di fuori della finestra ed osservò gli eserciti che iniziavano a schierarsi sulla piana davanti alla città. Qualcuno bussò alla sua porta. Quando la aprì, si trovò di fronte la sua signora, Ar-Veniè…
“Buongiorno…” la salutò educatamente “… Immagino sia giunta l’ora di andare. Bene, sono pronto!” Il giovane si agganciò la spada alla cintura, si allacciò il mantello e prese il suo nuovo elmo che si era procurato per sostituire quello frantumatosi quando perse l’occhio, salvandogli però la vita.
“Indùr, posso farvi una domanda?” disse Ar-Veniè. “Certo…” rispose il Capitano “… Dite pure”
“Voi non approvate tutto questo, vero?” Riprese la donna “Vi ho osservato da quando siete tornato, siete stato sempre taciturno, della vostra solita esuberanza che molte volte avete mostrato a casa, con me, Arakon, Imrazor, Tara e gli altri non ne rimane traccia. Vi avevo offerto la possibilità di evitare tutto questo, ma voi siete rimasto ed addirittura avete reclamato per voi il posto di mia guardia del corpo, il che vi esporrà a pericoli ancor maggiori sul campo di battaglia. Perche? Voglio saperlo!”
Indùr la guardò dritto negli occhi: “Volete sapere se potete fidarvi di me, vero signora?” pensò, ma poi disse: “Milady, ammetto di aver riflettuto a lungo sulla proposta di Cimroth e sulle parole di Tara ma, anche se rimango tutt’ora convinto che un pericolo ben diverso da Gondor minacci le nostre vite, io sono e sarò sempre (per quanto da molti venga considerato un mezzosangue) un figlio di Ostelor. Se la mia terra, la mia Patria è minacciata, io combatterò per difenderla! Ho rifiutato di consegnare il passo Fiammanera agli emissari del traditore Valandòr e sono caduto nelle loro mani durante il primo scontro per difenderlo, quando una loro sortita minacciava di coglierci di sorpresa. Lord Cimroth mi ha confidato che, in caso di sua sconfitta, gli ci vorrà almeno un anno prima di riprendere l’offensiva. Bene, andiamo a prenderci quell’anno sul campo di battaglia: forse così avremo il tempo di identificare quest’altro pericolo e, forse, saremo noi a dettare le condizioni ai nostri avversari.”
“Per quanto riguarda voi, mia signora, mi sono offerto di esservi a fianco perché voglio che vicino a voi vi sia una persona che conoscete da molti anni e della quale vi fidate, non da qualcuno che, considerato quello che vi è successo da quando siete il capo del Consiglio, approfittando del caos sul campo di battaglia, vi potrebbe piantare un pugnale nella schiena. Come già dissi, grande è il debito che ho nei vostri confronti. Se voi non mi avreste accolto come cadetto nella vostra famiglia, non sarei l’uomo che sono oggi! Questa è la mia occasione per ripagare quel debito, vi prego di non negarmela!”

Ar-Veniè aveva ascoltato il giovane senza interromperlo, riflettendo sulle sue parole poi, con gli occhi velati dall’emozione, rispose: “Avete… Hai la mia fiducia Indùr! Sono stanca di guardarmi sempre le spalle e, in battaglia non potrò permettermi distrazioni di sorta. Ho bisogno di un amico al mio fianco!”
Indùr aprì la porta del suo alloggio e cedette il passo alla sua signora poi, infilandosi l’elmo escamò: “Facciamola finita!” ed uscì a sua volta dalla stanza...
Uno squillo di corni lo richiamò alla realtà: la battaglia stava iniziando...

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Ottobre 17, 2007 - 11:04 pm

“Dobbiamo spostarci verso il bosco e attaccare quei maledetti”, disse Robel, uno dei guardiacaccia. Duecento e più marinai di Umbar correvano avanti e indietro a poca distanza, bersagliandoli da lontano con le loro frecce, mentre loro continuavano a star fermi sotto le mura di Alsarias. “Oltrepassarlo e poi correre verso le macchine!”

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“Ascolta, ragazzo, io sono un cavaliere e tu sei un pezzo di sterco”, ribatté Akhibrazan, con la voce ancora impastata per il terrore, da ubriaco. L’apparizione del mostro alato l’aveva scosso, e il colpo del trabocco che aveva schiacciato la bestia era arrivato così vicino a lui da fargli sentire nelle orecchie l’aria spostata dalla pietra che si schiantava al suolo. “Hai capito?” Avanzò verso Robel, ondeggiando lievemente. “Io sono un cavaliere”, ripeté, a voce più alta, “e tu sei una nullità!” Il suo volto paonazzo era contorto in un ghigno di derisione. “Sei una nullità!” urlò di nuovo, poi si voltò di scatto per assicurarsi che i suoi uomini stessero posizionandosi nel modo corretto.
Aveva intenzione di attaccare Cirmoth sul fianco, di convergere verso i cavalieri e la bandiera di Gondor mentre erano impegnati a combattere contro Ar-Venie e la Guardia. Sapeva che un prigioniero così ricco avrebbe risolto tutti i suoi problemi di denaro; era deciso a batterlo, a tenerlo e prendersi lui il riscatto. “Lei non può pretenderlo per sé, perché è una femmina”, aggiunse, sputando e puntando la spada verso i nemici, sconvolto. “E tu neppure, perché sei un pezzo di sterco. Io invece sono un cavaliere! Un cavaliere!” Sputò quella parola addosso a Robel mentre il fischio della palla di pietra riempiva le loro orecchie. Poi il corpo senza testa di Akhibrazan fece ancora qualche passo prima di cadere, la spada puntata verso il cielo, mentre Robel, inorridito, si piegava sul ventre, vomitando.

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Tharmaroth ululò di rabbia dopo che Indur, con il suo sacrificio, ebbe deviato il colpo sferrato verso Ar-Venie. Con un balzo stupefacente, abbandonò il cavallo, che proseguì nella sua corsa travolgendo lo scudiero di Venie e gli uomini che gli stavano attorno, e si lanciò contro la donna, che gli abbatté sul viso arrossato un’estremità del bastone che reggeva lo stendardo, che terminava con una pesante nocca di corno, poi lasciò cadere la bandiera a terra e assunse con la spada una posizione di guardia. Ar-Venie attese un istante, guardando il suo spietato avversario, poi affondò l’arma di sua madre verso il ventre di Tharmaroth, ma il capitano del Mispir, per quanto stremato dal combattimento e parzialmente accecato dal forte lampo della magia di Endariel, aveva i riflessi pronti e riuscì a parare il colpo e a rispondere.
Due uomini d’arme di Gondor stavano arrivando di corsa per aiutarlo – gli altri erano rimasti a guardia di Cirmoth -, e Ar-Venie, vedendo che stavano per piombarle addosso, balzò a sinistra, sperando di mettere le carcasse dei cavalli già caduti tra sé e quegli armigeri la cui livrea nera portava lo stemma dell’Albero Bianco. Tuttavia Tharmaroth fece per tagliarle la strada, così lei fu costretta a tirare un disperato fendente con la spada, mandandola a urtare contro la lama dell’avversario con una tale violenza che si sentì intorpidire il braccio. Il colpo fece barcollare all’indietro Tharmaroth, che riprese però subito l’equilibrio e si lanciò in avanti, sferrando una gragnola di colpi che Ar-Venie si sforzò disperatamente di parare. Ma non era una spadaccina all’altezza del miglior capitano di Valandor, ed era ormai caduta in ginocchio, senza potersi aspettare alcun aiuto da Indur a terra o da Endariel, impegnata a combattere contro i due scherani del capitano, quando a un tratto si udì un poderoso schianto, un boato così forte da far pensare che si fossero appena spalancati i cancelli di Mordor, e il suolo tremò.
Le macchine di Cirmoth avevano rilasciato ancora una volta il loro fuoco mortale e i loro proiettili colpivano le mura di Alsarias spazzando via i difensori; Tharmaroth, colto di sorpresa dal boato, si voltò, e Venie affondò la spada, aprendo nel suo corpo una cavità sanguinante che andava dall’inguine al ventre. Un grido d’agonia si innalzò verso il cielo; gli uomini di Urland, vedendo cadere e agonizzare il signore loro alleato, indietreggiarono.

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Nirién mantenne teso l’arco. Il lungo braccio del trabocco sul muro meridionale, notò, era stato abbassato fino a toccare il pavimento della torre, ma qualcosa non aveva funzionato e i genieri Valdacli dovevano aver interrotto a metà il lavoro perché non avevano caricato alcun proiettile nella immensa tasca di cuoio. Un improvviso movimento alla sua destra, ai limiti del bosco, dove si ergeva un ammasso di pietre, attirò la sua attenzione. Vide che un ferito si appoggiava a quel cumulo, cercando in tutti i modi di alzarsi in piedi, ma senza riuscirci. Aveva il volto coperto di sangue. “Eldaran?” l’apostrofò Nirién.
“Nirién!” Eldaran tentò di nuovo di alzarsi. “Sei tu, Nirién!”
“Che cos’è accaduto” chiese Nirién, sgomenta.
“Non è più il mio tempo” replicò Eldaran. I due Elfi ai quali era stato affidato il compito di proteggere il principe di Valagalen giacevano morti ai suoi piedi, e lui stesso sembrava sul punto di spirare. Era cereo in volto, privo di forze e ogni respiro era un rantolo affannoso. Aveva le guance bagnate di lacrime. “Ho tentato”, disse debolmente.
“Che cosa, Endariel? Che cosa?”, gli chiese Nirién con voce straziata, ma Eldaran non era più capace di rispondere.

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Ed eccolo, il signore che comandava gli uomini di Gondor, con la sua armatura coperta di piastre d’acciaio, la visiera dell’elmo alzata, in sella a un cavallo nero e con il braccio infilato in uno scudo. Vide Endariel, e i suoi pochi uomini stretti attorno allo stendardo di Ostelor spezzato, e sollevò la spada in un saluto.
Mùazor tese la corda dell’arco, e lo sollevò. “Muori, bastardo”, disse il giovane Valdaclo. Quello era l’uomo che aveva ucciso non solo suo zio, decapitato dalla palla di pietra là, di fronte alla porta di Alsarias, ma anche Yamo e Tamagran, così fece per scoccare la freccia. Tuttavia qualcosa si mosse rapida dietro a lui, uno dei cadaveri dei negri risorse impugnando prontamente un piccolo stiletto che teneva nascosto, poi si chinò in avanti e, di scatto, tagliò la corda, facendo sobbalzare violentemente l’arco nella mano di Mùazor e mandando la freccia a perdersi in aria. Il gesto era stato così rapido che Mùazor non aveva avuto il tempo di reagire. “Dèi!” bestemmiò, in preda alla più nera frustrazione. “Bastardo!” sbraitò verso la figura minuta; le sue dita annasparono goffamente verso la spada, ma prima che potesse impugnarla, fu a terra, la gola tagliata.
“Addio”, commentò Tara, mentre si inginocchiava accanto a un cadavere vestito di nero e iniziava a frugare in cerca di soldi, imitando gli altri uomini che si muovevano là dove non c’era più da combattere, e confondendosi fra loro. Guardò a est; una gragnola di frecce e dardi scagliati dalle mura colpì gli uomini di Umbar che marciavano verso di lei. Li vide vacillare. Dalle tende in fiamme arrivò l’urlo di una donna.

Ora cominciava a sentirsi debole. Quando i cadetti della milizia di Ostelor avevano caricato, travolgendo lei e i guerrieri del Dàr in mezzo ai quali si era nascosta, aveva avuto la prontezza di spirito di gettarsi in mezzo ai Valdacli chiedendo aiuto nella loro lingua, come se fosse una prigioniera che cercava di mettersi in salvo, e questo, forse, le aveva salvato la vita, ma qualcuno l’aveva colpita con una lancia poco sotto la spalla, rompendogliela, e la ferita doveva essere profonda, perché respirava male, e aveva sangue in bocca.
Continuava a tenere lo sguardo fisso sul punto in cui aveva visto cadere la bandiera degli Eshe. Provava un forte senso di vergogna perché era stata lei, piccola e traditrice, a rendere inutili la gran parte delle difese di Alsarias, a far schierare lo specchio di Artagora e le macchine nella maniera sbagliata. Era una vergogna amara, come quella per la gratitudine da lei provata nei confronti di Eäromä. “Carogna”.
“Carogna, bastardo!” Nelle orecchie le rimbombò la voce di Rudil, uno dei sergenti di Tharmaroth. Rudil, seguito da due uomini d’arme, stava spingendo davanti a sé un prigioniero, puntandogli alla schiena la propria spada, che, a ogni spintone, strideva sulle piastre dell’armatura del nemico. “Bastardo!” ringhiò di nuovo il sergente, poi la scorse. “E’ Telumethar! Telumethar!”, le gridò, scambiandola per un uomo della sua compagnia. “Guardalo!”
Telumethar era un uomo vecchio dall’espressione malinconica, che faceva del proprio meglio per mantenersi dignitoso. Il sergente lo pungolò di nuovo. “Ti assicuro, miserabile, che tua moglie e le tue figlie saranno costrette a prostituirsi per raccogliere la somma del tuo riscatto!”, disse. “Non ci sarà uomo nel Miredor che non dovranno portarsi a letto per pagare la tua liberazione”. Diede un altro spintone al vecchio. “Ti spremerò come un limone, idiota!” sbraitò, poi, esultante, proseguì il cammino con il suo prigioniero.

La donna urlò di nuovo.

Quella notte ne erano risuonate molte, di grida femminili, ma in quell’urlo c’era qualcosa di particolare che si fece strada nella mente di Tara, costringendola a voltarsi e a muoversi nonostante il dolore, allarmata. Quando lo udì, più debole, per la terza volta, iniziò a correre. “Venie!” gridò. “Dove sei?”
Superò di corsa i resti di una tenda in fiamme, smuovendo con gli stivali le braci e sollevando scintille. Il braccio la torturava. Aggirò la carcassa di un cavallo, evitò di stretta misura un ferito intento a vomitare in un elmo rovesciato, si lanciò in un passaggio tra i cadaveri dove spade, scudi, frecce e spuntoni di lancia erano sparpagliati sull’erba. Un uomo con un grembiule ornato dallo stemma di Ostelor e una ferita alla testa da cui il sangue sgorgava a fiotti le tagliò la strada, barcollando, ma lei lo spinse di lato e continuò a correre in direzione dello stendardo rosso abbattuto sopra le carogne di altri cavalli che sventolava ancora, sopra corpi fumanti che parevano in fiamme. “Ar Venie!”, gridava. “Venie!”

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Ma Ar Venie non poté andarle incontro. Era tenuta stretta sotto la carcassa di uno dei cavalli di Gondor, che le schiacciava le gambe spezzate al terreno e la schiena contro una trave di legno caduta da una delle difese che avevano improvvisato. Un uomo gigantesco l’aveva presa per i capelli e le stava togliendo l’armatura e i vestiti dal torso. L’uomo udì le grida di Tara e si voltò a guardare, con un ghigno sul viso. Era uno dei derelitti delle paludi del Mispir, tutto barba e denti smozzicati, e stringeva con forza Ar-Venie che nonostante le terribili ferite si dimenava nel tentativo di sottrarsi alla sua presa.
“Mollala!” gridò Tara.
“La bellina non va da nessuna parte”, ribatté l’uomo. “Tu resti qui, tesoruccio”, e intanto cercava di sfilarle la cotta di maglia, ma questa era troppo pesante e difficile da togliere, e Ar-Venie si contorceva troppo freneticamente. Tara raccolse una balestra, armò la leva combattendo contro la nausea, il velo davanti agli occhi e la voglia di cadere a terra, e gliela puntò contro. “Uccido la bellina”, disse l’uomo. Stava sbavando, con la saliva che gli colava nella folta barba, mentre carezzava la cotta di maglia che copriva le mammelle di Venie. Lei continuava a lottare, ma era così dolorosamente schiacciata da non riuscire quasi a muoversi. Tara mantenne puntata la balestra solo con il braccio destro, ormai non sentendo più l’altro, e tirò la leva. Il quadrello colpì di netto la folta e aggrovigliata barba del vagabondo, tagliandogli la gola: la larga cuspide gli tranciò la glottide con la precisione di un coltello da macellaio, mentre Venie, investita in pieno dal fiotto di sangue che le macchiò casacca e volto, urlava ancora.

Tara si era inginocchiata accanto a lei, in mezzo ai feriti e ai morti; piangeva, mentre accarezzava la bella testa di Ar-Venie, e le lacrime l’accecavano. Prese la sua mano, per baciarla, e Ar-Venie aprì gli occhi ancora limpidi e parlò con voce calma ma con fatica.
“Addio, Tara”, disse. “Il mio corpo è a pezzi. Torno da mio padre e dai miei avi. Ho sbagliato tante cose. Ma anche in loro compagnia non avrò da vergognarmi, ora. Alla fine ho vinto la mia battaglia”.
Tara non riuscì a parlare per le lacrime. “Perdonami, Venie”, disse infine, “Per aver obbedito ai tuoi ordini, e non aver saputo fare altro al tuo servizio che tradirti e ora piangere nel momento della nostra separazione. Perché hai fatto questo, Venie? Perché?”
Ar-Venie sorrise. “Non c’era altro modo. Le cose non andarono come avrei voluto, dopo la vostra partenza per l’Harad. Gondor e Ostelor avrebbero continuato a combattersi fino alla fine dei tempi, e la tenebra avrebbe vinto; loro sapevano tutto della mia famiglia, ormai, sanno molto più di quello che sappiamo noi stesse. Mi avrebbero usata. Ma ora Ar-Venie non c’è più. Ar-Venie, che ha commesso troppi errori. Non c’è più nessuno per combattere e da combattere, i signori che desideravano la guerra sono caduti, e la paura del nemico comune unirà gli Uomini. Vivranno assieme, e impareranno a conoscersi. Quando sarai lontana, Tara, pensami. Ormai non potrò più sedere con te come promesso, e parlare di filosofia”.
Chiuse gli occhi, e Tara si strinse a lei. Poi parlò ancora una volta. “La tua missione non è finita. Voglio da te ancora una promessa. Trova Artagora, e torna assieme a lui nell’Harad. Lei è da sola, e loro sanno; devi proteggerla, ma non nascondetevi, perché se lo farete guadagnerete solo poco tempo. Lei, lei non voleva che io vi lasciassi, ed ora non la rivedrò mai più. E vorrei darti un messaggio per Arakhon. Lui non deve aspettare, deve trovare la via per il Cancello. Deve ...”; ma in quel momento ci fu un gran clamore e tutto attorno a loro il suono di corni e trombe. Tara levò gli occhi: aveva dimenticato la battaglia e il resto del mondo, e sembravano trascorse molte ore da quando Ar-Venie aveva marciato verso la morte, benché di fatto non fosse passato che qualche minuto. Ora si accorse che correva il pericolo di venire intrappolata in mezzo allo scontro finale fra Cirmoth e ciò che restava della guardia di Ostelor, che stava per cominciare. Arrotolò un mantello e vi posò delicatamente la testa di Ar-Venie; poi spogliò uno dei cadaveri, e indossò la divisa della Guardia.

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“Cavalieri!” ruggì Cirmoth. “Cavalieri di Gondor, seguitemi! Cavalieri!”
Sessanta o settanta fra cavalieri e uomini d’arme di Gondor e di Umbar si affrettarono a mettersi ai suoi ordini, allineandosi a ovest delle piattaforme su cui si trovavano le macchine da fuoco e il grande trabocco. Il resto caricò i soldati nemici, schierati in linea di combattimento e così esultanti per la vittoria riportata su Tharmaroth da trascurare di guardare davanti a loro. Solo quando un ferale ruggito annunciò l’arrivo della guarnigione di Cirmoth si prepararono, allarmati. “Massacrate quei cavalieri!” urlò Ar-Venie. “Uccideteli!” ruggì Endariel. “Niente prigionieri!” sbraitò un altro. Istintivamente, gli uomini d’arme di Ostelor formarono una linea, ma Cirmoth, che l’aveva previsto, aveva già puntato la sua cavalcatura direttamente sul gruppo attorno allo stendardo rosso: gli zoccoli dei cavalli fecero risuonare la loro musica terribile e le lance e le spade sbatterono contro gli scudi e le armature dei difensori, piantandosi nelle cotte di maglia, nelle carni e nelle ossa. I cavalieri di Gondor erano pochi, ma, con i bersagli così vicini, non potevano fallire i colpi. Per difendersi, gli uomini di Ostelor si accovacciarono dietro gli scudi, e, quando questi si rivelarono inefficaci perché le lance li perforavano facilmente, si dispersero per un momento. Nel selvaggio boato prodotto dagli attaccanti, nessuno vide Ar-Venie cadere travolta dalla carica di Aphalzar.

Meno di una trentina degli uomini di Cirmoth stava ancora combattendo quando gli armigeri agli ordini di Tanadas, schiumanti di rabbia, rivolsero i trabocchi contro i cavalieri di Gondor senza ragionare, spinti solo da una cieca sete di vendetta. La prima cosa che i proiettili dei trabocchi incontrarono sulla loro strada furono le schiene dei soldati di Ar-Venie; i genieri di Tanadas non avevano idea di chi fossero le loro vittime, sapevano solo che erano nemici e che perciò dovevano farli a pezzi. E le pesanti pietre, dopo aver ucciso molti cadetti di Ostelor e Rò-Mollò, raggiunsero i cavalieri di Gondor; uno scudiero quindicenne che portava l’emblema della Cittadella sul petto tentò di proteggere il suo signore Cirmoth, ma entrambi morirono.

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Artagora si era spostato più avanti sul campo di battaglia, valorosamente, avendo capito che quella posizione a ridosso della collina dello specchio lo esponeva troppo, che là sotto era inutile restare, e aveva cercato di riunire attorno a sé tutti gli opliti e i balestrieri di Alsarias del fianco sinistro, che furono però travolti dalla schiacciante carica degli orridi Spiriti Albero, usciti dal boschetto, e l’arconte fu costretto ad assistere, sgomento, al massacro di quegli uomini e di un terzo dei suoi migliori guerrieri da parte di una torma di spaventose e scure figure che nulla avevano d’umano, che si muovano avvolte da una sorta di foschia e sembravano spiccare di netto la testa delle loro vittime con rami e fronde più affilate di mannaie e falci. Si affrettò a rientrare nei propri ranghi, mentre, terrorizzati, arretravano, ma a un tratto uno dei suoi opliti lo spinse senza tante cerimonie verso il lato della formazione che si muoveva in quella che da ritirata stava trasformandosi in rotta. “Da questa parte, arconte.”
Artagora si sottrasse alla presa dell’uomo, e riconobbe Creone. Non aveva saputo della sua venuta ad Alsarias, e non aveva idea che fosse sul campo di battaglia. “Che cosa possiamo fare?” chiese con voce fiera. “Raggiungeremo gli accampamenti sulla costa, arconte, e chiederemo rinforzi. Niso guiderà gli uomini al sicuro.
Artagora assentì, riflettendo che sarebbe toccato a lui impartire un simile ordine, e si pentì di aver dato ascolto a Tara e di aver imposto così rigidamente ai suoi carpentieri di orientare lo specchio in quel modo. I soldati di Gondor, tutte quelle truppe, distavano troppo dalla sua macchina, lo specchio era stato completamente inutile. Tara lo aveva tradito. Assentì, indicò a Niso di portarsi in testa agli opliti,e sortì dallo schieramento seguendo Creone. Si erano appena incamminati frettolosamente assieme a una dozzina di arcieri lungo il sentiero di erba calpestata che portava verso le mura quando l’oscurità fu di nuovo addosso a loro. Si levarono di colpo aspre e stridule grida, e gli Spiriti Albero attaccarono.

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“Soldati!” esclamò Endariel. “Avanti, per Ostelor e tutte le città dell’Alleanza!”

Davanti a lei, solo l’Elfo e l’uomo di Umbar combattevano ancora, assieme a pochi dei loro guerrieri. Il resto dei soldati di Gondor giaceva a terra, bruciato dalla luce di Roménna, fulminato dal potere di Numénor che era scaturito dal suo petto e dalla sua anima. Endariel li fissò con odio: era stanca e ferita, ma la vittoria era sua: le truppe di Alsarias si preparavano a scendere dalle mura. Distavano solo pochi passi, erano ansiose di combattere e in grado di fare piazza pulita dei suoi nemici. “Dov’è il Corno?” chiese.
“Signora? Sono qui, vostra grazia! Eccomi.” Il trombettiere di Nindamos, che portava anche il corno da caccia, era miracolosamente sopravvissuto al combattimento, rimanendo accanto alla sua baronessa.
“Suona i sette squilli!” ordinò Endariel.
“Non qui!” proruppe con voce roca un piccolo soldato della Guardia, così coperto di sangue da essere irriconoscibile e, poiché Endariel si era offuscata in viso, diede una frettolosa spiegazione. “La tromba attirerebbe altri nemici, vostra grazia. Sono là, in mezzo alle case, una torma di negri. Dopo i primi due squilli ci balzerebbero addosso come cani da caccia!”
Con un brusco cenno del capo, Endariel riconobbe la saggezza di quell’osservazione. Non sarebbe morta per mano di un negro; oltre agli ultimi uomini della Guardia aveva con sé ancora una ventina di cavalieri che stavano tornando da ovest dopo aver attaccato le macchine nemiche, e che, in quella che sarebbe stata una notte di scontri frammentati, costituivano una forza formidabile. “Dobbiamo allontanarci, vostra grazia”, insistette il soldato. “Verso ovest, incontro ai cavalieri”.
Si diressero correndo verso ovest, e stavano per raggiungere una posizione dalla quale avrebbero avuto ragione del capitano con la divisa di Umbar e del bastardo elfo, quando una freccia tirata da molto lontano volò verso di loro, rimbalzando di striscio su un pettorale. Dalla sinistra arrivò un flusso di uomini, così Endariel piegò a destra e si ritrovò di fronte al re Eäromä, molto più vicino di quello che aveva pensato.
“Corno!” proruppe Endariel. “Suona sette squilli! Sette squilli!”
“Signora”, ribatté il trombettiere. Aveva trovato il bocchino del corno misteriosamente otturato dal terriccio. Lui doveva essere caduto, anche se non se ne ricordava. Scosse gli ultimi granelli di terra dal bocchino d’argento, poi si portò il corno alla bocca e fece risuonare la prima nota, melodiosa e penetrante. Endariel sguainò di nuovo la sua bella spada. Si trattava di resistere accanto alle catapecchie solo il tempo necessario per permettere ai rinforzi di arrivare dalla porta della città e spedire nell’abisso quella marmaglia impertinente. Risuonò la seconda nota del corno.
Tara tolse il cappuccio della divisa della Guardia, tirò indietro la leva, piegò leggermente il corpo verso sinistra rimanendo nascosta fra le ombre create dalle catapecchie che bruciavano, e scoccò. Il dardo volò fischiando sopra la testa di Endariel e colpì il trombettiere nell’occhio. La visione del corno che cadeva suscitò un fremito fra gli uomini d’arme che, malconci e sanguinanti, attorniavano Endariel; videro in fondo al lieve pendio, appena al di là della luce dei fuochi che illuminavano la zona, le figure alte degli Elfi che correvano loro incontro come lupi. “Che gli dèi ci aiutino”, disse un sergente con voce atterrita: Eäromä e il capitano di Umbar erano loro addosso. “Attaccateli! Cacciateli!” urlò Endariel, chinandosi a raccogliere il corno.

Eäroma la ferì alla schiena proprio mentre stava prendendo fiato per suonare il terzo squillo; l’aria uscì sibilando e gorgogliando dal polmone trafitto, mentre si accasciava in ginocchio sul tappeto erboso. Endariel alzò lo sguardo verso di lui, urlando il suo amore per la terra di Numénor e la sua maledizione con tutto l’odio che aveva dentro. Eäromä esitò; Arcil di Umbar la colpì allo stomaco, forando la cotta di maglia, trapassandola da parte a parte e inchiodandola alla terra morbida. I soldati della Guardia la videro morire, e si prepararono all’ultimo assalto; gli Elfi tesero di nuovo le corde dei loro archi. Una ruggente voce intimò in adunaico agli arcieri e ai balestrieri di smettere di combattere: “Smettete di tirare!”, gridò il re degli Elfi. “Archi a terra! Questa battaglia è finita.”

[size=2]Liberamente tratto da "Il Cavaliere Nero", di Bernard Cornwell[/size]

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Ottobre 18, 2007 - 2:42 pm

Maggio del 75 della QE, Piana di Maldor, prima della battaglia

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Artagora percorse lentamente col suo sguardo l’armata valdacla, disposta sopra e le mura e ai piedi di esse. Si trovava sul lato sinistro dello schieramento, ai piedi della collina su cui i carpentieri avevano posto lo specchio ustorio.
Si pentì di essere stato ancora una volta debole.
Avrebbe dovuto essere più energico e deciso, e insistere per posizionarlo al centro, in cima alle mura proprio sopra l’ingresso alla cittadella. Ma ancora una volta aveva dato fiducia ad una persona ritenuta fidata…se non addirittura di famiglia….e oramai era tardi.
Al centro dello schieramento vedeva ben disteso nel vento del mattino lo stendardo di famiglia di Ar Veniè, fermo e saldo come l’ala di un falco. Poteva sentire la voce di lei incitare i i valdacli alla battaglia, i suoi soldati erano con lei, determinati e pronti, e il loro grido risuonò poderoso nell’aria.
Poi Artagora si girò verso i suoi uomini.
Erano disorientati.
Pochi di loro capivano la lingua dei Valdacli e questo li faceva sentire ancora più distanti da quel campo di battaglia.
Lui lo sapeva perché era li, le sue motivazioni erano chiare e limpide e accettava il proprio destino con tranquillità, ma loro?
Erano giunti in quelle terre pensando di dover semplicemente costituire la guarnigione di un’ambasciata e ora si trovavano sul campo di battaglia. In mezzo ad un’armata che non era la loro…
Artagora fece alcuni passi e si portò davanti al battaglione di opliti, si mise di fronte a loro con lo scudo ben saldo in una mano e la picca stretta nell’altra.
“Uomini i Athor!”
Tutti si gli opliti girarono a sentire quelle parole gridate nella loro lingua natia.
Artagora si sentì tremare le ginocchia. Come poteva dire a quei magnifici giovani che stavano andando alla mettere in gioco la loro vita? Non era un comizio ne una dissertazione di filosofia, era diverso, e il tono di Artagora fu diverso.
Non esitò né permise alla sua voce di avere incertezze.
”Oggi non siamo qui per solamente per combattere, siamo qui per gridare al mondo che siamo dei guerrieri.
Guardatevi attorno!
I Valdacli pensano che noi si sia solo in grado di marciare in parata e filosofeggiare di arte e scienza.
E la nostra alleanza è stata richiesta solo per poter schierare quella macchina!!”
Disse puntando la lancia verso lo specchio ustorio. Rimase in silenzio per un attimo, senza notare gli sguardi incuriositi e, a tratti divertiti, dei balestrieri Valdacli alle sue spalle.
Artagora vedeva solo gli sguardi dei suoi uomini.
"Quello che non sanno è quanto noi si sia lottato per proteggere la nostra terra, i frutti del nostro ingegno e la nostra arte!
“Quello che non sanno è che quanto coraggio e sangue abbiamo sempre versato sul campo di battaglia per difendere i nostri vessilli!”

Prese fiato.
Era rosso in viso, gridava con una decisione che quasi non riconosceva, e suoi occhi erano fiammeggianti.
Alzò la picca verso il cielo.
“Oggi combatteremo! Lanceremo il nostro grido su questa piana e dimostreremo che siamo guerrieri e che il nostro cuore è grande! E qualunque sia l’esito di questa battaglia, sarà grazie a noi che nessuno, né a nord né a sud, potrà mai azzardarsi a dire che gli Athoriani non siano guerrieri dai cuori colmi di coraggio!!!”Cento lance athoriane si levarono con un unico grido di battaglia. Pochi valdacli compresero, ma comunque capirono.

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Ottobre 18, 2007 - 10:37 pm

Eäromä, preceduto da un cadetto Valdaclo e seguito a poca distanza da Nirién, da tre dei suoi arcieri Elfi e da Arcil, osservava con crescente meraviglia l’imponente cinta muraria di Alsarias, più grande di tutto ciò che avesse mai visto; più vasta e più forte, forse, delle cittadelle attorno ad Ardinaak, e solo di poco meno bella. Era davvero una fortezza possente, e non certo facilmente espugnabile da un esercito nemico se qualcuno dei suoi abitanti sapeva maneggiare le armi; l’unica speranza per gli avversari era di sorprenderli alle spalle, inerpicandosi su per le scogliere della baia e sui pendii scoscesi che portavano al piccolo porto, per raggiungere la stretta strada che univa il porto stesso alla mura. Ma quella strada era fiancheggiata da imponenti bastioni fino alla sua estremità occidentale, e accanto ai bastioni si trovavano molte abitazioni. Certamente, se Ar-Venie non avesse commesso l’errore di ignorare il parere dei suoi generali e di sottovalutare i suoi avversari schierandosi in campo aperto, la vittoria sarebbe stata di Ostelor.
Eppure d’anno in anno Alsarias andava cadendo in rovina, e la popolazione era ormai ridotta alla metà. Nelle strade si ergevano palazzi e cortili sulle cui porte ed arcate erano incise molte lettere degli Uomini, dalle strane forme arcaiche: Eäromä supponeva che si trattasse dei nomi di loro famiglie importanti che un tempo abitavano in quelle dimore; eppure ora erano silenziose, non si udivano passi sui vasti pavimenti, né voci negli ampi saloni, né apparivano volti dalle porte e dalle vuote finestre.
Infine uscirono dall’ombra delle volte di pietra, e quello stesso sole che splendeva sulla collina allorché Cirmoth aveva dato l’ordine di attacco in risposta alla sfida dei Valdacli, illuminò mura lucide e slanciate colonne ed un grande arco la cui chiave di volta era stata scolpita nelle sembianze di un re coronato. Le guardie di palazzo erano vestite di bianco e portavano elmi di una strana forma, alti e con guanciali stretti contro il volto, sormontati dalle bianche ali di gabbiano; Eäromä aveva visto un simile elmo ornare la testa di Tharmaroth, il capitano Valdaclo alleato di Gondor che li aveva accolti sul campo di Maldor e guidati sino ad Alsarias. E gli elmi risplendevano come fiamme, poiché erano d’argento e testimoniavano la gloria dei Domini e dell’Alleanza. Sui loro manti era ricamato un disegno che richiamava un crisantemo, circondato da stelle con molte punte. Era questa l’uniforme degli eredi di Araphor, che Ar-Venie aveva indossato in battaglia nel suo ultimo giorno, e ormai ad Alsarias e a Ostelor nessuno più la portava, eccetto le guardie del capitano della città innanzi al cortile della fontana ove in passato Araphor passeggiava.

Furono fatti entrare immediatamente, in silenzio. Con passo veloce Eäromä attraversò il bianco pavimento del cortile e s’inoltrò nelle fresche ombre del palazzo di pietra. Percorsero un lungo corridoio, e si trovarono in un grande salone, illuminato da profonde finestre; al loro ingresso, Bendaman, l’ultimo dei capitani Valdacli rimasti in Alsarias dopo la battaglia, s’inchinò di fronte a loro e parlò nella lingua dei Sindar.
“Sire Elfico, Eäromä. Per la terza volta c’incontriamo. Fu nella piana di Maldor, la prima, e la seconda di fronte alle mura di questa città. E di nuovo qui. In questa ora buia, consegno a te la mia vita e quella dei cittadini di Alsarias e dei loro soldati, e tutte le nostre speranze. Benché tutti i presagi annuncino che il destino dei Valdacli sta per compiersi, ho potuto vedere che sei un coraggioso, e confido che manterrai la parola data. Non volevamo questa guerra, e troppe morti essa ha portato”.

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“E’ davvero buia quest’ora”, disse Eäromä, nella lingua dei Valdacli.
“Sarebbe ingiusto e crudele, non riconoscere il valore dei guerrieri di Ostelor e delle città sue alleate in questo momento di dolore. E sarebbe follia, e non orgoglio, disdegnare la fiducia e l’amicizia che ci offrite nell’ora del bisogno. Il signore degli elfi di Valagalen non sarà uno strumento nelle mani dei nemici oscuri. E per lui non vi è oggi al mondo scopo più importante del bene della tua gente, Bendaman; ed a comandare Alsarias, nobile Uomo, che posso chiamare amico, sarai ancora tu e nessun altro”.

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Ottobre 25, 2007 - 10:55 pm

Deposero Ar-Venie al centro del monticello di pietre eretto sul pavimento; là, sotto la torre di Alsarias, sarebbe rimasta fino a quando il tempo per portarla a Ostelor, alla sua casa, non fosse giunto. Piegarono e sistemarono sotto il suo capo il mantello, e la verde bandiera degli Eshe; pettinarono i suoi capelli chiari lisciandoli sulle spalle. Intorno alla sua vita scintillava una cinta d'oro. Posarono accanto a lei l'elmo che non aveva mai indossato, e sul suo grembo la spada; sotto i suoi piedi misero le spade dei suoi nemici. Quindi, dopo aver acceso le torce profumate, si voltarono, chiusero la porta della tomba, e stettero in attesa, a capo chino.

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"Avete lasciato a me l'ultimo saluto", disse Tara, "ma io non parlerò".
"Ed è bene che sia così", rispose Beleridan. "Ma ora che Ar-Venie di Ostelor è partita per la sua via, dobbiamo affrettarci a scegliere la nostra".

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Ottobre 25, 2007 - 11:04 pm

“Sono quaranta e due leghe da questo mare sino alla strada del Grande Harad”, disse Eäromä, “E tuttavia, Nielval, ai passi devi giungere domani, o falliremo del tutto la nostra impresa”. Pesante era il suo cuore,malgrado la recente vittoria, ma all’improvviso Saeros si mise a ridere.
“Su con il mento, figlio di Edrahil!”, egli disse. “Perché un proverbio dice: Quando tutto è perduto sorge spesso la speranza”.
Ma quale speranza scorgesse da lontano, egli non volle dire.
“E’ stato un grande giorno e un gran momento, qualunque cosa accada in futuro”, disse Borgil.
“Qualunque cosa accada, le grandi gesta non perdono il loro valore”, disse Eäromä. “Grande fu la cavalcata di Cirmoth, e grande rimarrà anche se non vi sarà più nessuno per cantarla nei giorni a venire”.
“Ed è molto probabile”, disse Nielval. “I vostri volti sono gravi, e mi domando che decisioni vogliate prendere, e quali siano le parole che devo portare a est”.
“Per conto mio”, rispose Beleridan, “Sono nel dubbio. Vorrei che con la vittoria la guerra fosse ormai terminata. Ma le armi dei Valdacli sono forti a sud, oltre i passi dove siamo stati sconfitti. Arpel è protetta dalla potenza delle montagne e dalle flotte del nord e del sud unite: non possiamo passare, e non ci sono altri uomini per combattere. Gondor è lontana; Hathor si è rivolta contro di noi. Anche se tu dovessi trovare Artagora, Nielval, anche se fosse vivo, non sappiamo che cosa dirà”.

I capitani tacquero, e rimasero lì seduti, ognuno immerso nei propri pensieri, fino a quando Nielval non ruppe il silenzio.

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“Signori miei”, disse, “Ascoltate le parole della dama di Ostelor prima della sua morte: 'Se combatterete, trionferete forse per un giorno sui campi di battaglia, ma contro il Potere che è sorto, se non vi muoverete in fretta, non vi è vittoria'. Non voglio che disperiate, come fece lei, ma che ponderiate la verità di queste parole e di ciò che Eäromä ed io vedemmo a Ny Chennacatt. La Veggente di Rò-Mollò non mente, e nemmeno la forza di questo antico nemico può costringerla a mentire. Può forse scegliere ciò che vuole mostrare alle menti più deboli, o far loro fraintendere il significato di quel che vedono. Tuttavia non si può mettere in dubbio che quando Ar-Venie vide attraverso la Veggente che grandi forze venivano preparate e che il male usciva dalle viscere delle montagne nelle quali per millenni si era celato, non vide altro che il vero, perché noi vedemmo la stessa cosa con i nostri occhi”.
“Le nostre forze sono state appena sufficienti a soggiogare i Valdacli del nord”, disse Eäromä. “Non avremmo vinto, se Bendaman non avesse consegnato la città contro il parere di Tanadas. Il prossimo attacco verrà da Arpel, e sarà più massiccio. Questa guerra è quindi senza speranza, come Ar-Venie aveva intuito. La vittoria non può raggiungersi con le armi, sia che rimaniamo in questa regione a subire un assedio dopo l’altro, sia che avanziamo oltre le montagne ove saremmo sopraffatti. Non abbiamo che una scelta fra mali diversi, e la prudenza mi consiglierebbe di rinsaldare le fortezze che abbiamo, aspettando l’assalto: solo così potremmo allungare il tempo che ci rimane e sperare nell’aiuto dei nostri alleati”.
“Allora tu vorresti che ci chiudessimo ad Alsarias, o a Ostelor, o che tornassimo al nord verso il Dàr, come bambini imbronciati su castelli di sabba mentre arriva la marea?”, disse Beleridan.
“Non sarebbe certo un consiglio nuovo”, disse Arcil di Umbar. “Non è forse ciò che facevate un tempo, Eäromä?”
“Ma no!”, disse l’elfo. “Ho detto che sarebbe prudente. Io non consiglio la prudenza. Ho detto che la vittoria non si potrà raggiungere con le armi. Spero ancora nella vittoria, ma non nelle armi”.

[size=2]Adattamento di un brano tratto da "Il Signore Degli Anelli", di J.R.R. Tolkien[/size]

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Novembre 8, 2007 - 1:32 pm

La battaglia di Alsarias era finita… L’esercito Valdaclo aveva perso, anche se un’ultima unità combattente si stava ritirando per tentare di opporre l’ultima disperata resistenza ad Ostelor…
Ad Indùr non importava più… Lui e la sua unità si erano validamente opposti alla carica di Tharmaroth e dei suoi, riuscendo a sgominarli, ma non era riuscito ad impedire la morte della sua signora, Lady Ar-Veniè, e questo lo faceva infuriare con sé stesso…
Non lo avevano consolato le parole di Tara, la quale aveva tentato di spiegargli come la loro signora avesse previsto, anzi, orchestrato tutto questo… Non era possibile, non ci poteva credere…
In ogni caso, sia lui che Tara erano feriti, stanchi e affamati: decise quindi di seguire la donna all’interno della città che si era arresa all’ultimo Capitano avversario rimasto: il sovrano degli Elfi Earoma. Egli si era comportato in modo onorevole con gli sconfitti ed Indùr, il quale non aveva mai provato sentimenti ostili nei confronti di quel popolo, decise di portare rispetto all’avversario.
Restituì ai vincitori la spada di Tharmaroth, che aveva tratto dal campo di battaglia, non sentendosene degno dal momento che, anche se ne aveva coraggiosamente interrotto la prima carica e contenuto la furia guerriera finchè i suoi uomini erano riusciti ad abbatterlo, non era stato lui a sconfiggerlo. Questo gesto gli fece guadagnare un certo rispetto da parte degli avversari… e permise, come giusto fosse, la sepoltura del Capitano di Gondor con le sue armi, mentre al giovane Capitano fu permesso di conservare la sua lama (che lui battezzò: NATHAIWE – Piccolo Morso) la quale, nonostante il rango enormemente inferiore a quella di Tharmaroth, ben lo aveva servito sul campo di battaglia.
Mentre venivano assistiti, alla luce di alcune lanterne, notò che Tara lo osservava con un certo stupore: “Cosa c’è che non va?” le chiese “I tuoi capelli…” gli rispose “Sono… sono bianchi!”. Indùr cercò immediatamente uno specchio e si guardò: Tara aveva ragione! Il dolore, la paura, lo shock, la rabbia, l’adrenalina, la stanchezza e tutte le emozioni contrastanti che aveva provato in quel giorno, avevano fatto incanutire precocemente la sua chioma biondo grano…
“Così sono sicuro di ricordarmi per sempre di questo giorno!” Esclamò il giovane. A quel punto la tensione accumulata gli giocò un ultimo scherzo ed Indùr esplose in una lunga, incontrollabile risata, che fece temere a Tara ed ai cerusici che, come accadeva alle volte in battaglia, il guerriero fosse uscito di senno.
Così non fu e, a poco a poco, Indùr riprese il controllo su di sé.
Fasciate le ferite, ritemprato e rifocillato il fisico (quel che il poco tempo a disposizione permetteva), recuperati dei vestiti e dell’equipaggiamento per sostituire quel che era stato rovinato nella battaglia, Indùr, Tara ed una piccola scorta fornita loro da Earoma, lasciarono Alsarias alla ricerca di Artagora…

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Novembre 8, 2007 - 2:40 pm

Tara era preoccupata… Il tempo stringeva e doveva assolutamente trovare Artagora, perciò le era sembrato del tutto naturale chiedere l’aiuto di Indùr, suo amico di lunga data, inaspettatamente incontrato sul campo di battaglia, mentre cercava le spoglie della sua signora.
Ma si era quasi pentita di averlo fatto: era certa che Indùr, che un tempo non avrebbe dubitato di lei neanche per un attimo, avesse creduto sì e no a metà della storia che aveva raccontato e quella risposta sibillina alla sua richiesta: “Verrò con te, perché la tua strada coincide con la mia”, non era quella che si era aspettata…
I suoi timori erano aumentati dall’evidente mutamento avvenuto nel giovane: i capelli incanutiti precocemente, l’occhio sinistro perduto, la sua stessa espressione, un tempo improntata al sorriso ed alla risata facile, tranne che nei momenti di dar battaglia, era divenuta fredda e dura; i suoi rari sorrisi poco più di un increspare di labbra.
Quando Indùr riconsegnò la spada di Tharmaroth si era sentita rassicurata, ma poi la risata folle che lo aveva colto mentre curavano le sue ferite l’aveva fatta seriamente temere per la sanità mentale del suo amico, oltre che riacutizzare i suoi dubbi…
Questi pensieri la tormentavano mentre osservava l’amico rivestirsi con abiti scuri, che creavano un contrasto stridente con i suoi capelli incanutiti… improvvisamente avvertì una presenza alle sue spalle…
“Dagli tempo, Nielval” le sussurrò Nirién “Le ferite del suo spirito sono più profonde di quelle del suo corpo! Egli sta combattendo una battaglia interiore fra ciò che gli dice il suo sangue e ciò che sa che è giusto… Non forzarlo, potresti fare un errore e perderlo! Ma non intestardirti a cercare in lui l’uomo che era un tempo… Quell’uomo è morto oggi assieme alla vostra signora!”
Mentre Nirièn finiva di parlare, Indùr teneva in mano il brandello dello stendardo degli Eshe che aveva ritrovato sul campo di battaglia… Alla fine sospirò e lo infilò in una tasca dei suoi vestiti.
“Andiamo” disse semplicemente rivolto a Tara, dirigendosi verso l’uscita…

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