Interludio: E tutti i miei sogni finirono (giu 75QE Ostelor) | Terra Di Mezzo | Forum

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Interludio: E tutti i miei sogni finirono (giu 75QE Ostelor)
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Ottobre 20, 2007 - 3:21 pm

A quindici miglia da Alsarias, verso sudovest, nella cucina di una residenza di campagna saccheggiata e abbandonata, era riunito un gruppo di uomini molto più esiguo di quello che, all’alba di due giorni prima, aveva gridato la sua sfida a Gondor sotto gli stendardi Valdacli. Il loro comandante, un uomo brizzolato, tarchiato e burbero, era perfettamente consapevole di dover affrontare una difficilissima sfida, se voleva difendere Ostelor.
Tanadas stava ascoltando il resoconto di un cavaliere Haradano su ciò che aveva scoperto la sua pattuglia mandata in ricognizione: gli arcieri del re Eäromä erano entrati in città, consegnata loro da Bendaman. Erano ora in quattro grandi accampamenti posti di fronte alla porta, alle catapecchie e allo specchio di Artagora.
Altri nemici erano arrivati durante la notte senza che nessuno li vedesse, sorgendo forse dalla stessa terra, avevano superato i soldati di Tanadas e li attendevano ora lungo il cammino. Alcuni accampamenti si frapponevano fra loro e la città natia; fra loro e la salvezza. Un accampamento, contrassegnato da un grande stendardo bianco, era proprio di fronte a loro, poco oltre un boschetto.

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Tanadas

“Si trova accanto al mulino a vento”, riferì un secondo cavaliere.
“Me lo ricordo, quel mulino”, ribatté Tarfil. L’ammiraglio si era unito ai balestrieri di Tanadas in fuga, dopo la decisione di Bendaman di arrendersi. Tanadas fece scorrere le dita nella barbetta brizzolata, com’era sua abitudine quando stava pensando. “E’ lì che dovremo attaccare”, disse poi, a voce così bassa da dare l’impressione di star parlando a se stesso.

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Tarfil

“Ma proprio lì saranno più forti”, lo avvisò Tarfil.
“Creeremo un diversivo.” Tanadas si riscosse dalle sue fantasticherie. “Ingold”, disse, rivolto a un uomo che indossava una cotta di maglia a brandelli, “prendi con te tutta la gente che lavora per noi: cuochi, scrivani, stallieri, chiunque non sia un combattente. Poi, dopo aver raggruppato tutti i carri e i cavalli da tiro, avviatevi verso i passi sulla strada del Cammino di Trenth. La conosci?”
“Posso trovarla.”
“Partite prima di mezzanotte. Fate molto baccano, Ingold! Potete portate con voi il mio trombettiere e un paio di tamburini. Cercate di far credere al nemico che l’intero esercito stia andando a est. Voglio che ben prima dell’alba i loro soldati si siano raggruppati nell’accampamento sulle colline.”
“E noi altri?” chiese Tanadas.
“Ci metteremo in marcia a mezzanotte”, rispose Tanadas, “e ci dirigeremo a sudovest, fino a incontrare la strada di Ostelor. Marceremo nel più assoluto silenzio”, ordinò, “e andremo a piedi, tutti! I balestrieri in prima fila, dietro di loro gli uomini d’arme, e daremo l’assalto quando è ancora buio. Ci sottrarremo alla mira degli arcieri e, meglio ancora, coglieremo il nemico nel sonno.”

Il piano dell’ultimo capitano di Ostelor era pronto: creare un diversivo a est e attaccare da ovest. Esattamente ciò che Eäromä si aspettava che lui facesse; e il buio non avrebbe ingannato gli occhi dei suoi Elfi.
Cadde la notte. I Valdacli si misero in marcia, gli Elfi si prepararono ad accoglierli e Ostelor attese.

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Ottobre 26, 2007 - 11:28 pm

A quel punto Loras, che era rimasto nascosto per tutto il tempo protetto da quella leggera nebbia umida, che galleggiava a un palmo da terra, fuori dal campo di battaglia ma non così distante da non poterne seguire gli eventi e comprendere gli esiti, si mise in cerca di Niara. Il braccio lanciante del trabocco gondoriano era rotto e bloccato al suolo, i genieri morti sparsi attorno ad esso, e Loras inciampò in un grosso spunzone di metallo che sporgeva da una trave e serviva ad ancorare la tasca. Imprecò, perché il ferro gli aveva fatto male allo stinco, poi vide che Niara era là, a pochissima distanza da lui: si era arrampicata sulla struttura del trabocco e stava per scoccare una freccia verso le teste degli uomini che stavano combattendo vicino alle baracche in fiamme. Aveva mirato a un gruppo di Valdacli riuniti attorno a uno stendardo e, prima che questi si riparassero dietro gli sgargianti scudi o che Loras potesse trascinarla giù da quella posizione tremendamente esposta, uno di loro era crollato al suolo seguito subito da un secondo, e Niara aveva estratto una terza freccia che aveva piantato in un luccicante scudo sul quale era dipinto un ermellino bianco, dopo di che, accorgendosi di Loras e vedendo altri uomini d’arme avvicinarsi troppo alla collina e frapporsi tra lei e i suoi bersagli, era saltata giù dal trabocco e si era messa a correre verso un boschetto ancora più avanti, il boschetto dal quale Loras era sicuro di aver visto uscire degli alberi che camminavano.

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Niara

Loras pensava di amare quella fanciulla selvaggia, ormai, così come l'amava Kiryazis, ma non ebbe lo stesso il coraggio di seguirla; Niara, forse, poteva passare impalpabile come la nebbia che la circondava anche in mezzo all’intera armata di Cirmoth, ma non lui, e ormai aveva visto tutto ciò che c’era bisogno di vedere. I Valdacli erano stati sconfitti, ma anche l’armata di Gondor era distrutta, e forse i suoi capitani morti o catturati; ora, che cosa avrebbe dovuto fare? Correre presto al passo Fiammanera con la notizia, oppure scivolare silenzioso oltre gli accampamenti e dirigersi a sudovest, verso casa, verso Ostelor?

Un nemico che indossava una corazza sbucò da dietro una tenda e vibrò un fendente di spada basso, verso il suo ventre, che Loras parò solo per istinto e per un colpo di fortuna; la sua spada volò via e il contraccolpo sul braccio gli procurò un tale dolore da sbatterlo a terra piegato in due. L’avversario alzò la sua arma per un secondo colpo mortale; Maité vide Loras a terra, e, senza pensarci, incoccò una freccia, tese la corda e la rilasciò. Riuscì a infilare il dardo nella fessura della visiera dell’elmo, con la stessa precisione con cui a casa, assieme alle Sorelle, giocava a colpire i piattelli, e dalla fessura scaturì un fiotto di sangue che brillò sotto la luce della luna, sfavillando come una gemma, mentre il nemico si accasciava contro la tenda. Maité gli tese il braccio e con fatica, spaventato, Loras si rialzò e raccolse la spada.

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Maité

Assieme corsero in avanti, scavalcando i cadaveri, sfiorando tende parzialmente crollate. Non era il posto adatto per tirare con l’arco, era tutto troppo aggrovigliato, perciò Maité si mise in spalla il listello di tasso e sguainò il suo lungo pugnale mentre Loras la precedeva, la spada sempre in pugno. Si infilarono in una tenda, saltarono un giaciglio rovesciato, poi, udito un grido, si fermarono di colpo e Maité si voltò, rapidissima, con l’arma alzata. Loras vide sul pavimento una donna, semi nascosta dalle lenzuola, che la fissava scuotendo la testa. Loras si voltò, per lasciarla dov’era; Maité scattò in avanti di un paio di passi e affondò il pugnale nel petto della donna, che arcuò all’indietro il corpo trafitto, iniziando poi a contorcersi e a dibattersi. Maité, liberato il pugnale, fu così inorridita dalle urla della sua vittima che vibrò più volte l’arma, colpendo ripetutamente la donna per farla tacere.

“E’ morta! Dei del cielo, è stecchita!” le gridò Loras. “Perché? Perché l’hai ammazzata?”, chiese sgomento. Poi l’afferrò per la manica e la trascinò via.

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Ottobre 26, 2007 - 11:31 pm

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Mentre i fuggiaschi venuti dalle campagne e dalla costa entravano in Ostelor, Paraphion, in piedi sulla terrazza della sua casa, sentì l’ultima delle porte della città venire sbarrata fragorosamente. Inviò un messaggero verso i quartieri della guarnigione, per quanto fosse una mossa futile; aveva già appreso dai suoi informatori che di Tanadas non vi erano ancora notizie, e che il Consiglio non era in grado di raccogliere neppure mille uomini dalla regione circostante, ora che la flotta aveva preso il largo.
“E quanti di questi sarebbero arcieri?” aveva chiesto.
“Al massimo cinquecento, vostra grazia.” L’uomo che aveva così risposto era Sha Bla, fuggito al galoppo da Alsarias, colui che le aveva recato la notizia della morte di Akhibrazan ed Ar-Venie, e della cattura di suo padre. “Al massimo cinquecento”, ripeté Sha Bla, “ma in realtà, vostra grazia, il numero potrebbe essere di gran lunga inferiore.”
“Inferiore? Come mai?”
“Molti hanno scelto di partire con la flotta e di resistere nel sud”, rispose Sha Bla, poi abbozzò un sorriso amaro.
“E di quanti arcieri e balestrieri dispone la guarnigione della città?”
“Quelli validi sono sessanta, vostra grazia”. Sha Bla aveva in mano l’ultimo rapporto del sergente che aveva preso il comando. “Soltanto sessanta. Volete che tenga pronta una portantina, vostra grazia? Per ogni evenienza ...”.
"E' una guarnigione molto bellicosa, la nostra", commentò Paraphion seccamente. "Anche i cittadini faranno la loro parte e io non scapperò. Maledetti i traditori.", disse, squadrandolo.

Sha Bla sorrise di nuovo amaramente, e, dopo averla salutata con un inchino, si voltò per scendere di nuovo le scale. Tutto il rischio corso per raggiungere Ostelor in fretta era stato inutile, gli uomini sarebbero stati insufficienti, la città sarebbe stata assediata. E ora era chiuso dentro assieme a quella baldracca incinta, che ora sventolava lo stendardo dei Fuindil. Molto bella, ma pur sempre una baldracca incinta.

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Novembre 10, 2007 - 11:20 pm

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Stava scendendo la sera, quando Min Curloer arrivò a Inziladun. Stava meglio, la sua ferita era in via di guarigione e il braccio era salvo; da quel punto di vista il suo animo era dunque sereno e soddisfatto mentre s’incamminava verso quella che era stata la sua casa. Da quel punto di vista: ma per il resto, il suo animo vibrava a tal punto, percepiva a tal punto fluidi immateriali, da rendere Curloer già preparato a vedere senza sorprendersi minimamente le imposte chiuse e la casa vuota.

Min Curloer aprì il cancello del giardino di Ar Venie servendosi della sua chiave, e seguì il viottolo che passava accanto alla serra fino alla cucina, poi si avviò tranquillamente su per le scale, aprì la porta rivestita di pesante stoffa verde e si trovò nell’atrio. Silenzio; una perfezione di teli per riparare i mobili dalla polvere, di tappeti arrotolati, di sedie allineate; raggi di luce che filtravano attraverso le imposte; falene; le prime delicate ragnatele in luoghi insoliti come gli intagli della mensola del caminetto.
Silenzio; perfezione anonima; aria immobile, non la minima vibrazione. Silenzio. Odore di assi nude; un canterano con i cassetti rivolti verso il muro.

Nella camera di lei lo stesso ordine asettico e spoglio; perfino lo specchio era stato coperto. L’impressione non era tanto di austerità, per quanto la luce grigia fossi qui più morbida, quanto di assenza di significato. In quel silenzio nessuna attesa, nessuna tensione; lo scricchiolio delle tavole del pavimento sotto i piedi non conteneva nessuna minaccia, nessuna specie di passione: Curloer pensò che avrebbe potuto saltare o mettersi a strillare senza alterare in nulla quel vuoto silenzioso e disumano. Era privo di significato come una morte totale, un teschio nell’oscurità di un bosco, il futuro inesistente, il passato scomparso. In tutta la sua vita Curloer non aveva mai provato una sensazione di già visto altrettanto intensa, eppure gli era in certo modo familiare: quel non sapere che piega avrebbe preso il sogno, la sequenza delle parole che sarebbero state pronunciate da uno sconosciuto in una strada e ciò che lui stesso avrebbe risposto, l’arredamento di una stanza che non aveva mai visto, fino ai particolari. “Che cosa cerco mai?” disse, e il suono della sua voce corse per le stanze vuote. Dopo essere rimasto un lungo momento ad ascoltare il battito del proprio cuore, si diresse con decisione verso la terrazza. Vi trovò ciò che si aspettava di trovare: la severa nudità dei mobili graziosi allineati contro la parete non aveva importanza, non significava nulla; ma qui, senza poter dire da dove provenisse, aleggiava l’ombra del suo profumo, ora più forte ora così tenue che solo concentrandosi a fondo era possibile afferrarlo.
“Perlomeno non c’è l’orrore dell’altra stanza”, disse.

Accostò la porta con la massima attenzione, scese nella sua camera, tolse lo straccio che copriva lo specchio nel quale lei si guardava ogni mattina, lasciando così la sua impronta nella casa, e dopo aver fatto scattare la serratura uscì in giardino. Ne percorse di nuovo i vialetti, varcò il cancello verde e seguì la strada verso il porto e le barricate.

Con le mani dietro la schiena e gli occhi bassi, camminò lungo la via finché il giorno non morì.

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Gennaio 7, 2008 - 12:43 am

Nimrodel mandò via il suo seguito con un gesto secco e poche, fredde parole. I due uomini continuavano a chinare il capo, nervosi per il fatto di essere circondati da così tanti elfi tutti insieme, una delle quali era addirittura una principessa in persona, sposa promessa di un grande re, senza considerare che aveva usato il Potere. Gli altri due portatori avevano aspettato nel corridoio, accovacciati contro il muro, e adesso erano ansiosi di andarsene dagli appartamenti degli elfi e di tornare nelle taverne di Alsarias.

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Eäromä stava seduto con gli occhi chiusi, il volto pallido. Il suo petto si muoveva al ritmo di un respiro leggero.
“In che modo questo inciderà sugli eventi?”, chiese Nimrodel. “Loro non ci servono più, ora che la Chiave è in mano al Nemico e i demoni di Chennacatt sono su di noi. Eldaran è morto. Abbiamo bisogno di tutta la nostra forza qui, per rispondere subito a chi ci minaccia. Eppure rischi la vita di tuo fratello, e lo mandi via, mandi via lui e Nirien. Senza consultarci. Per aiutare degli Uomini!”

La porta si richiuse alle spalle di Nimrodel e dei servi, ed Eäromä sospirò stancamente. “Sai che avevo promesso, Nimrodel, ed ho mantenuto”, disse. “Li avresti lasciati da soli, ancora una volta?”
Nimrodel non rispose. Eäromä stette per un attimo in silenzio; pensava a Nielval, e a Nirien e Borgil. Dov’erano, adesso? Già oltre il passo Fiammanera, o seduti assieme attorno a un piccolo fuoco, sulla strada per il Grande Harad? “Una brutta notizia. Brutta”, disse. Il suo viso era calmo, ma si strofinò le mani come se le volesse lavare.
“Abbastanza interessante però” osservò Verin. Era l’elfo venuto dal profondo di Taaliraan; la quarta persona che Eäromä aveva scelto per quell’informale consiglio. “E’ un vero peccato che la battaglia abbia ridotto la carcassa a quel modo. Avremmo potuto saperne di più”.
I quattro erano soli negli appartamenti di Eäromä. Al di là delle feritoie, l’alba imperlava il cielo.
“Per ora ci basti sapere che il Concilio di Ardor non è finito con la distruzione di Ardinaak” disse Teris in tono duro. Era una donna alta dal viso aperto, e nonostante l’età indefinibile della sua stirpe, mostrava delle striature grigie tra i capelli castani. “Uno di loro è ancora vivo. E questo può ancora essere usato a nostro vantaggio.”
“Si, può ancora essere usato a nostro vantaggio” convenne Nimrodel. La sua voce era ferma, l’espressione fiera sulle guance lisce. “Se riusciamo a ritrovarlo, naturalmente. E ad allearci con lui.”
“Il legame con l’Oscuro è durato troppo a lungo”, disse Eäromä. “Di questo dobbiamo tener conto.”
Verin annuì, ma si accigliò allo stesso tempo.
“Il sire di Ardor vi sarà legato ancora, che venga trovato da noi o no” continuò Nimrodel. “Anche se fosse uno dei Giovani, potrebbe già essere cambiato al di là d’ogni guarigione, anche se non ha più la capacità di progredire nel male potrebbe attrarre seguaci. Il Guardiano, la fiera scagliata contro di noi nella battaglia, lo dimostra. Un segno così piccolo. Un potere così debole. Eppure corromperà chiunque sia vicino a lui abbastanza a lungo, e questi a loro volta contageranno altri e l’odio e il sospetto che hanno distrutto Ardor saranno di nuovo liberati nel mondo, elfi si scaglieranno contro elfi. Mi chiedo quanti, in poco tempo da oggi. Eppure noi dobbiamo trovarlo e allearci con lui.”

Eäromä guardò male la sua compagna. ‘Un altro pericolo si presenta e lei lo fa sembrare come un rompicapo in un libro’ , si disse. ‘Non si rende conto del mondo che la circonda. Allearsi con lui?’

“Allora dobbiamo trovarlo presto”, disse Verin. Eäromä si voltò stupito. Verin annuì di nuovo, in risposta allo sgomento del re.
“Eäromä, il tuo dubbio è legittimo, lo condivido. Non ho fiducia in niente e nessuno che sia cresciuto anche alla semplice ombra di una sola pietra della Torre. Ma si tratta di un Eldar; se non viene ritrovato da noi, chi potrà avvicinarlo senza correre pericolo maggiore? Gli Uomini di Ostelor forse, oppure i cacciatori delle Terre Selvagge?”

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Gennaio 20, 2008 - 4:01 pm

Mangiavano un piatto di stufato, al tavolo accanto al camino, accompagnando con un pezzo di pane ogni cucchiaiata. Le porzioni non erano abbondanti, ma il cibo era caldo, e riempiva lo stomaco. Il calore del camino a poco a poco filtrò dentro di loro. Fingendo di guardare il piatto, Arbalzor continuò a tenere d’occhio la porta. Tutti i soldati che entravano o uscivano avevano l’aria abbattuta quanto loro, ma questo non bastava a tranquillizzarlo; la locanda non era tanto distante dal luogo dell'ultima battaglia.

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Tanadas mangiava lentamente, senza sentire il gusto della carne. Dopo un po’ , allontanò il piatto, fece un gesto a Tarfil, e si alzò, tirando giù il cappuccio, fin quasi a coprire gli occhi, attirandosi alcune occhiate dei sergenti che Tarfil avrebbe evitato volentieri. Chiese a mastro Alwine di mostrargli la stanza.
Il locandiere parve sorpreso che andassero a letto così presto, ma non fece commenti. Prese una candela e li guidò fino a una stanzetta con più letti, in un angolo della locanda. Quando fu uscito, Arbalzor lasciò cadere accanto al letto i fagotti, gettò sulla sedia il mantello e, tutto vestito, si distese sulla coperta. Gli abiti ancora umidi lo infastidivano, ma se dovevano scappare di nuovo, voleva essere pronto. Non si tolse nemmeno il cinturone con la spada, pronto a dormire tenendo la mano sull’elsa.
Tarfil si sedette. “Non sprechiamo le ore che abbiamo”, disse, addentando una grossa fetta di pane e versandosi da bere da una brocca di latte appena munto.

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Tanadas lo guardò in silenzio. Si sentiva male. Erano a un giorno di cammino dal campo del mulino, a est, e nessun Elfo era comparso. Un giorno di meno per Ostelor, che presto avrebbe visto i mantelli verdi dei guerrieri di Eäromä sotto le sue mura. Non avrebbe dovuto più preoccuparsi di loro, una volta sul Cammino di Trenth; la guerra andava a ovest, perché i passi erano tenuti dai Valdacli e, con Cirmoth sconfitto, il re degli Elfi non aveva forze sufficienti per muoversi in due direzioni. Non avrebbe dovuto più preoccuparsi di loro, né di Ar-Venie. Faceva effetto, pensare di non doverci pensare più. ‘Luce santa’, pensò Tanadas, ‘piangere alla mia età’. Si sentiva male.
Cosa fare, ora? Molti altri soldati erano sopravvissuti alla battaglia del mulino. Molti erano balestrieri di Ostelor. Sarebbero tornati a casa. Avevano visto i loro comandanti fuggire al primo fischiare delle frecce, accecati dalla paura; li avevano visti scappare lasciandoli di fronte al nemico, da soli, privi di guida, a trovare un coraggio che non avrebbe dovuto essere il loro ma quello della loro bandiera. L’avrebbero riferito ad altri … altri. L’idea gli provocò una morsa allo stomaco.

“Non possono esserci Elfi in ogni bosco da qui ai passi”, stava dicendo Tarfil. “E poi, non voglio dormire sotto un cespuglio o in una locanda, se posso arrivare al Trenth”.

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Arbalzor, dopo un momento d’incecisione, stava annuendo; Eadur, la sua giovane sposa, era a Ostelor, ma Arbalzor già non ci pensava più. “La città non cadrà”, continuò Tarfil. “Gli Elfi sono troppo pochi per prendere d’assalto le mura, anche con le macchine di Alsarias e anche se Bendaman si schiera con loro. Resisterà. Il mare è nostro, le nostre navi possono permetterle di resistere per sempre."
"Messaggeri saranno di certo già partiti, e Adarrathil verrà presto in soccorso”, convenne Arbalzor. “E’ un contingente piccolo, non può contrattaccare, ma Ostelor resisterà. Sono solo poche settimane di navigazione”, disse, annuendo di nuovo. Ora sembrava più sicuro. “Noi andremo ad Arpel; i passi sono sicuri, e con il bel tempo cavalcheremo veloci. L'Armata del Sud avrà bisogno di buoni comandanti”.
Tarfil recitò il solito discorsetto, ma con una punta di disagio; Gondor non aveva più uomini, le armate di Arpel avrebbero attraversato i passi, l’Alleanza avrebbe vinto perché Cirmoth era morto.
Tanadas si sentiva molto stanco, come sempre da quando aveva lasciato casa. Prese un grosso fazzoletto, e si asciugò il viso. “Va bene”, disse. “Voi andate verso i passi. Ma Arpel non verrà in nostro aiuto; Elessar di Gondor verrà presto a sapere della battaglia, e altre navi verranno da Umbar”. Arbalzor emise un suono soffocato; Tarfil si strinse nel mantello.
“I Valdacli del Sud non verranno”, disse Tanadas. “Prendete con voi gli uomini, quelli che sono rimasti; io torno a Ostelor. Là dove vado, non ho bisogno di compagnia. C’è ancora gente, là, che ha bisogno di me.”

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Gennaio 20, 2008 - 4:04 pm

“Vecchio pazzo.”

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Tarfil serrò le labbra, scuotendo tristemente la testa. Tanadas era lontano, ormai, e in quella nebbia il suo cavallo non si vedeva già più. Rientrò nella locanda, e chiese del vino pagandolo con quello che aveva nelle tasche. ‘Non ha torto’, pensò. ‘Adarrathil è da solo, pochi soldati, troppo pochi contro gli Elfi. E quando nel sud si sentirà parlare di boschi che camminano e combattenti stritolati da spiriti albero … meglio andar via e basta, sparire per un poco di tempo, fin quando le cose non si sistemano’ .

Sedeva in fondo alla sala comune, quando entrò un giovane con la pelle scura e l’aspetto da paesano, e il passo vivace. Aveva le spalle e la testa coperte da un mantello nero, e portava in mano un bastone che aveva un occhiello sulla cima, un occhiello nel quale era infilata una pietra rossa. Arbalzor dormiva nella stanza in fondo, i soldati erano tornati alle loro tende; nel locale c’era solo una serva intenta a spazzare, che non staccò mai lo sguardo dalla scopa. Il giovane diede uno sguardo disinvolto alla stanza, ma quando scorse Tarfil si fermò appoggiando il bastone per terra. Lo fissò per diverso tempo, prima di togliersi il mantello e appoggiarlo su un tavolo; poi lo fissò ancora, e alla fine si accostò al suo tavolo, rimanendo in piedi a guardare il Valdaclo. “Vi dispiace se mi siedo?” domandò.

Tarfil pensò che volesse dividere con lui il vino, anche se sembrava in grado di pagarselo. La veste che portava era ricamata e anche il mantello nero aveva ricami lungo l’orlo. Gli stivali di cuoio erano consumati, ma non davano l’impressione di essere di poco prezzo. Con un cenno Tarfil indicò una sedia vuota, ma involontariamente deglutì: c’era qualcosa di sbagliato, nell'aria. Non sapeva cosa.
“Come ti chiami?” domandò.
“Come mi chiamo? Ah … chiamatemi Paitr. Sono un emissario; vengo da est. Ci siamo già incontrati sul campo del mulino. Sono venuto in vostro soccorso, e vi dico che non dovete temere: per quanto forti siano, il Signore delle Ombre è più forte. L’Ombra inghiottirà tutti loro, e il loro re!”

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Tarfil sobbalzò e si alzò a mezzo con aria impaurita, impallidendo. Dal centro della stanza provenne un ansito, seguito dal rumore di un manico di scopa caduto per terra.

"Sarete, fra pochi anni, ciò che abbiamo bisogno che siate: un popolo sconfitto, pieno di risentimento, che dovrà ricostruire tutto. Che dovrà affidarsi alla nostra buona grazia. Che potrà essere usato e guidato così come noi vogliamo guidarvi."

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