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Recensione serie: Alla Corte di Re Artù
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Settembre 10, 2007 - 12:46 pm

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Alla Corte di Re Artù

Valutazione: 9.00

"... . Ti basta una gomma, una matita, un paio di dadi: e il mago Merlino ti farà entrare in uno dei luoghi fantastici della letteratura europea.
In questo libro il protagonista sei tu.
Prendi posto alla Tavola Rotonda!"

A cura di EGO

Valutazione generale: 9

Alla Corte di Re Artù (GrailQuest) è sicuramente la serie di librogame di J.H. Brennan più amata dai lettori e più coccolata dall’autore stesso, visti i continui riferimenti che infila nelle altre serie. Iniziata nel 1984, la collana realizza un sogno antico che fino ad oggi neppure il videogioco è mai riuscito a tramutare in realtà in modo decente: visitare l’epoca di Re Artù e vivere fantastiche avventure in qualità di cavaliere di Camelot. Una tentazione irresistibile non solo per un qualsiasi lettore, ma anche per qualsiasi autore, e ad aggiudicarsi l’onore di inscenare queste avventure, per fortuna, è uno scrittore capace di uscire dagli schemi dei libri che si prendono troppo sul serio.

Infatti il leitmotiv di tutte le avventure della serie è lo humor tutto britannico che le pervade. Se qualcuno si aspetta ricostruzioni storiche puntigliose e un’atmosfera da romanzo cortese, non potrebbe restare più spiazzato. A introdurci ogni volta nei vari volumi è il mago Merlino in persona, che sostiene che ogni libro è in realtà un incantesimo con cui lui preleva la mente del lettore per trasportarla nel corpo del protagonista, un ragazzino di nome Pip. Il contrasto tra i valorosi cavalieri della Rotonda Tavola (si dice così, fidatevi) e Pip, sia in nome che in corporatura, non potrebbe essere maggiore… senonché Brennan riesce, nel corso della saga, a gettare parecchie ombre e anche un po’ di fango su re, regina, cavalieri, popolani, scozzesi, gallesi (compreso Merlino stesso) e in generale su ogni possibile mito storico/medievale, inclusi i Greci e i tirannosauri, tanto che Pip ne esce alla fine più che riabilitato. Inoltre l’autore si inventa un enorme vivaio di creature, amiche e nemiche, troppo ridicole per non essere memorabili. La parte del leone spetta all’onnipresente Demone Poetico, che è nascosto da qualche parte in ogni libro e che offre dei quadretti comici irresistibili (e incomprensibili a chi non può proprio capire l’umorismo inglese, come molti americani); ma ci sono anche i luoghi, i messaggi, e soprattutto i nemici a spezzare la tensione, un po’ per le loro fattezze, un po’ per il comportamento, ma soprattutto per i nomi (come giustificare in un’avventura epica un Grande Uccello Pondoozlewazzle?).

Il sistema di gioco è molto semplice. Pip ha dei Punti di Vita stabiliti tirando due dadi e moltiplicando per otto. Colpisce facendo un certo numero ai dadi, in base all’arma utilizzata, e questa arma è quasi sempre la spada parlante Excalibur Junior (EJ), molto potente e allegra compagna di quadretti esilaranti, visto che può parlare. In ogni avventura esiste un numero da capogiro di oggetti di ogni foggia e natura, benigni e/o maligni, che invitano apertamente il giocatore ad infilarsi nelle situazioni più impensabili per vedere quale trovata ci aspetta in quella casa, in quella stanza, su quell’isola, dietro quell’angolo, oltre quella porta; un gusto per l’esplorazione accentuato dall’abitudine di Brennan di fornirci una mappa dei luoghi, con le varie locazioni segnate, e di lasciarci scegliere dove dirigere i nostri passi. Anche quando le cose vanno male e la scelta conduce al temuto paragrafo 14 (vero spauracchio della saga, un tormentone tale che quasi diventa un personaggio a sé), poi, è difficile non ammettere che quello che è successo valeva comunque il prezzo del biglietto.
Perché non sono solo gli eventi, ma anche il modo in cui vengono descritti, a rendere unici questi libri. Brennan è capacissimo di farti schiattare dal ridere in un paragrafo e poi di raggiungere toni da epos antico in quello successivo. Questa alternanza di umorismo e suspence, entrambi di altissimo livello visto il target giovanile, non ha nessun eguale in tutto il panorama del librogame. Non è raro scoppiare letteralmente a ridere sulla pagina dopo una battuta particolarmente brillante (e sono moltissime), e non è difficile trovarsi a trattenere il respiro quando si profila una situazione particolarmente tesa, o un lancio di dadi decisivo.

A questo proposito, non si può non discutere del regolamento e delle sue applicazioni. Da anni si discute su come interpretare correttamente diverse regole su cui l’autore, colpevolmente, non fa chiarezza e che si dimentica di adattare ad alcune situazioni particolari, col risultato che si è spinti a barare almeno un po’ o, al contrario, si rischia di essere troppo ligi alla parola scritta e di rendersi impossibili alcuni passaggi. Forse Brennan, giustamente, col proseguire della serie non voleva ogni volta scrivere centinaia di righe solo per ricordare le puntate precedenti e tutto quello che vi si era ottenuto; così facendo, però, ha creato un bel po’ di confusione, alimentata in Italia dal fatto che la traduzione della saga è passata attraverso molte, troppe mani, creando un garbuglio veramente difficile da sciogliere, e in alcuni casi anche brutto dal punto di vista stilistico.

Oltre alla confusione creata dal regolamento ambiguo, abbiamo poi le cattiverie gratuite (o quasi) dell’autore, specifiche da libro a libro ma quasi sempre dello stesso stampo. Particolarmente infame -anche se a lungo andare più onesto di un Tenta la Fortuna- è il lancio di dado vita-o-morte, che si presenta veramente troppo spesso; ma anche quando non si tratta di andare al 14 in caso di fallimento, i dadi tendono comunque a decidere l’esito di troppe cose, mortificando un po’ le possibilità di scelta del giocatore, che in linea teorica sono tantissime. Tra villaggi giganteschi, territori sterminati dove i punti cardinali sono un’opinione, dungeon intricatissimi ed enigmi assortiti, da fare e da divertirsi ce n’è da non poterne più. Brennan non è il tipo che ti dice “Puoi andare a destra (xxx) o a sinistra (yyy)” mollandoti lì a prendere la decisione a casaccio: descrive, suggerisce, insinua, lascia indizi (quasi sempre in codice, da tradurre anche con “macchinari” appositi), offre scappatoie. Di fronte a passaggi obbligati ma di un certo calibro narrativo, non si fa scrupolo di offrire indovinelli, quiz, codici, prove di disegno o di poesia, e addirittura dei lavoretti manuali con figure da ritagliare e ricomporre; uno stimolo continuo a ingegnarsi, ad esplorare, a divertirsi. Ecco perché, quando esce fuori il lancio di dado “io dio”, ci si sente traditi: dopo tante sfide all’ingegno, dà fastidio sentirsi di nuovo nelle mani del Fato.

Spiace dire che Alla Corte di Re Artù non sia una serie di valore omogeneo, ma è abbastanza ovvio che gli ultimi tre degli otto volumi disponibili abbiano decisamente meno verve dei precedenti, soprattutto per quanto riguarda lo stile, che si fa via via più fiacco, più forzato, meno brillante; ma anche il divertimento viene meno, con una scadente calibrazione della difficoltà (dal realmente impossibile al troppo facile) e la reiterazione di cose già viste, già fatte, già giocate. E lo stesso, inspiegabilmente, vale per i disegni: John Higgins ha illustrato i primi quattro volumi in modo impeccabile, poi dal quinto si è progressivamente perso in illustrazioni che sanno sempre più di bozze tracciate di fretta, spigolose, grezze, mal rifinite. E non si può nemmeno dire che sia per un’evoluzione dello stile, visto che tra il primo e l’ultimo libro sono passati troppo pochi anni.

Comunque Alla Corte di Re Artù offre qualcosa come due volumi (1 e 2) molto buoni, quattro (3, 4, 5 e 7) che vanno dall’eccezionale al capolavoro secondo le preferenze individuali, uno riuscito a metà (8 ) e un disastro pressoché completo (6). Direi che possiamo tranquillamente definirla una delle serie migliori mai pubblicate, il vero capolavoro di J.H. Brennan in questo genere.

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