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Cinema / Libri

“Il trono di spade” e il problema con le profezie

“Il trono di spade” e il problema con le profezie

di Vincent Baker (articolo apparso in origine sulla rivista Downtobaker).

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Molto è stato fatto, fin dal principio del “Trono di Spade” (“Game of Thrones” o GoT), sugli elementi posti in conflitto per la degna conclusione che si profilava: il maligno, la gelida crudeltà che striscia silenziosamente nelle lande di ghiaccio oltre la Barriera, e il fuoco che si innesca alto ovunque si guardi. Spettri dagli occhi azzurri che si risvegliano nei corpi di uomini morti tra le foreste del Nord; draghi in carne e ossa che nascono da uova di pietra nel cuore di una pira funebre, e le candele di vetro della perduta Valyria che avvampa di magia per la prima volta dopo cento anni.

Per Melisandre, sacerdotessa del culto di R’hllor, vecchia di quattro secoli, tutto questo non era altro che la conferma che l’apocalittica battaglia predetta dalla sua fede era in procinto d’avverarsi; una guerra per l’alba combattuta tra le dualistiche forze del bene e del male: il Signore della Luce e il Grande Altro della notte senza fine. Come tanti integralisti, la sacerdotessa è riuscita a scorgere la minaccia di un cataclisma unicamente attraverso il punto di vista delle scritture, e ha perseverato nel fatto che uno dei capitoli o dei versetti stava per realizzarsi, puntando ciecamente tutto sulle prove della profezia, cioè unendo i puntini in pratica, con i paraocchi del teorico del complotto o di mia nonna sulla Settimana Enigmistica.

Ma profezie e magia sono affari viscidi in GoT, sia concreti che fallibili, sia veri che apocrifi. In questo senso si tratta di miti, e tutte le storie di miti possono essere vere in un senso o in un altro – ciò che ci dicono sul nostro futuro non dipende da ciò che indicano letteralmente quanto dal significato che la nostra interpretazione attribuisce loro. Certo, Melisandre poteva effettivamente riportare in vita persone morte e partorire ombre assassine, ma le visioni che ha scorto tra le fiamme non erano ineluttabili. Come sentenziò una volta Tyrion nei romanzi: “Le profezie sono come un mulo addestrato a metà, sembra che possa tornarti utile, ma quando inizi a fidarti, ti prende a calci in testa.”

Dopotutto Stannis non era Azor Ahai, e la serie è proseguita incurante del fatto che uccidere il Re della Notte con una pugnalata avrebbe reso Arya Stark o la Principessa che venne promessa o soltanto una ragazza tosta con un super pugnale nella mano giusta. Certo, è possibile riavvolgere il nastro della leggenda e filtrare i legami diretti tra Arya e i versi che parlano di fumo, sale e stelle che sanguinano – di certo, assumere che l’acciaio di Valyria sia forgiato dal fuoco di un drago, come scritto in alcune cronache; è in quel senso che Arya brandisce una lama di fuoco. Ma se possiamo chiudere un occhio (e l’altro a metà) per far sì che tutte le tessere combacino, significa davvero che le profezie si sono avverate o, invece, siamo stati noi a riannodare i fili con arbitraria sapienza, così da decodificare gli elementi della storia che volevamo ci fosse raccontata? E importa davvero se Azor Ahai sia Jon o Arya oppure se non sia tutto solo nella nostra testa? Il Re della Notte è morto in ogni caso, a prescindere, la fede nel Dio Rosso non risulta, né di più né di meno, essersi affermata come verità ultima. Questa è l’essenza dei miti: sono storie che raccontiamo sia di noi stessi che del mondo in cui viviamo, attraverso allegorie da interpretare; e tornano utili solo nella misura in cui ci portano dove abbiamo bisogno di andare, sempre che ci servano per andare in un punto agognato o prestabilito (viceversa perdono la loro funzione).

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Avrei dato una mano (l’altra di Jamie) affinché Arya avesse nella serie più spazi e risvolti possibile; di come si è presa la scena di questo episodio, no, non sono soddisfatto. Il calo di qualità della sceneggiatura, rispetto al materiale ottenuto dai romanzi, è evidente. A prescindere che la dinamica sia piaciuta o meno ai fan di lunga data, l’uccisione del Re della Notte da parte di Arya è per GoT un ritorno a una forma pura di sottotesto. La serie ha fatto le sue ossa tessendo la promessa di raccontarci un certo tipo di storia, una di quelle saghe di genere fantasy che di solito narrano le gesta di eroi predestinati, di inevitabili profezie e di vittorie già scritte nei glifi. Invece, GoT ci ha presentato una narrazione più disordinata e complessa, che abbiamo amato con tutta l’anima perché non è mai stata percepita scontata o prevedibile. Dare per scontato che sia Jon Snow (sì, vabbè…) l’eroe della battaglia e mettere poi nelle mani di Arya il colpo definitivo è la cifra che ha reso da tempo il Trono di Spade lo spettacolo che ha sedotto il mondo del cinema (l’asticella è troppo alta, vogliamo chiamarla davvero solo serie tivvù?), obbligandoci a riconsiderare non solo la figura dell’eroe in una storia di qualunque genere []

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