Arakhon era seduto su uno sgabello malconcio nella dogana di Mindo Temal, a meno di mezz’ora di distanza dalla porta meridionale di Ostelar. Ascoltava le donne che cantavano al tramonto. Era nervoso, e non aveva cenato; Arvenië, sua sorella, stando all’ultima lettera che era arrivata all’ora di pranzo, stava ancora ondeggiando fra la vita e la morte distesa nel suo letto, come una zattera di giunchi alla foce del Mispir. Nulla si sapeva ancora di Ziminnath, l’uomo che l’aveva ridotta così. Si era volatilizzato. Avuta la notizia, Arakhon aveva preso immediatamente il mare e mandato all’aria tutti i suoi piani; si trovava ora, a causa dell’agitazione e della fame, in uno stato quasi di grazia. Tutto dimenticato: Cledda, Vaisala, la fortezza e gli avvenimenti di settimane prima. L’unico suo pensiero era Arvenië.
Nella dogana, i marinai e gli ufficiali erano pochi, e quei pochi, visto che il tutto era illuminato solo da un paio di candele, quasi non si vedevano in faccia e rimanevano intensamente impegnati a farsi gli affari loro. Gli altri che passavano per strada per la maggior parte erano donne di ritorno dal mercato, e siccome tutto era, quell'inverno, tranne che caldo, i loro mantelli facevano in modo che si confondessero con l’oscurità. Sostavano sulle porte a chiacchierare, e scambiavano qualche saluto con altre donne. ‘Molto bene’, aveva pensato Arakhon; quando Faidan fosse arrivata, scivolare via non visti sarebbe stato più semplice del previsto. Faidan, la montanara, era una delle segretarie di Arvenië, la più giovane: piccola, robusta, determinata. E fedele. Aveva iniziato a lavorare per la loro famiglia poco meno di un anno prima, quindi Arakhon non l’aveva mai incontrata di persona, ma la lettera di Tari, la governante di casa, l’aveva descritta molto bene, e lui pensava di essere abbastanza sicuro di essere in grado di non commettere scambi di persona. Faidan sarebbe arrivata subito dopo il canto della sera, assieme a uno dei marinai facenti funzione di inservienti della famiglia, portando sulla spalla destra un cesto di pesce per farsi riconoscere. L’ambasciatore Arakhon non era gradito a Ostelar, dov’era nato ma dove molte altre cose, oltre a quell’irrilevante particolare della nascita, erano poi accadute: rientrare ufficialmente a casa non gli era proibito, ma in questo momento poteva essere inopportuno, e di sicuro avrebbe compromesso l’efficacia delle indagini che si era ripromesso di fare. Nella lettera di Tari si diceva che Faidan l’avrebbero chiamato ‘signor Vedui’, e che la giovane, parlando, si sarebbe riferita al sole di primavera dei monti di Lammon, mentre per quanto riguardava il modo in cui Faidan stessa l’avrebbe riconosciuto Tari non era stata per niente chiara. Come al solito.
Un lembo della tenda di cuoio fu sollevato, e la porta si aprì, lasciando uscire parte del calore della stanza e facendo entrare due donne e uno spiffero di gelo. Una, piccolina, robusta nei muscoli e fiera, poteva assomigliare all’idea che Arakhon si era fatto di Faidan; l’altra era molto magra, troppo magra per i gusti dell’ambasciatore, eppure vestita nel modo giusto sarebbe potuta entrare ai balli della buona società e al fianco portava la spada corta coi serpenti marini degli Eshe. Anche se la guerra rimaneva prerogativa maschile, alle donne di Ostelar non era proibito portar la spada; era però insolito che lo facessero, e questo, oltre agli occhi taglienti della seconda venuta che contrastavano con l’espressione dolce di Faidan, diceva tutto, e più di ogni cosa aveva l’odore di Arvenië. La piccolina, appoggiata la cesta con il pesce che portava con sé, non si curò della presenza dei doganieri, né dello sguardo torvo dell’uomo enorme e sfregiato da una cicatrice che Arakhon era e che per lei rappresentava un’incognita; mentre l’altra si metteva vicino alla porta e scrutava fuori, la sua espressione si mutò in una di garbata cortesia. “Il signor Vedui, non è vero? Come sta, signore? Ci siamo conosciuti a Lammon, dove d’estate, in primavera, c’è sempre il sole, ma lei certamente non si ricorderà di me. Ho l’onore di conoscere sua sorella; l’ho vista, in effetti, poco prima di venire qui. Piace anche a voi il salmone di mare sotto sale, signore?”
Arakhon rispose prontamente: “Moltissimo, signora. Purché abbia poca spina”.
“Proprio così!” esclamò la giovane. “E nessuna di quelle senapi alla moda. Semplicità, ecco il punto. Mi chiamo Faidan”. La ragazza si avvicinò, e, abbassando la voce, disse di essere interamente al servizio della famiglia Eshe e di essere venuta per scortarlo in una casa sicura, dalla quale il giorno dopo avrebbe con più facilità potuto raggiungere Inziladun, la residenza dove si trovava Arvenië. “Per parte mia”, soggiunse, “ho un compito abbastanza ingrato: devo dirvi che la signora è ancora con noi, ma non è cosciente, e il medico non sa per quanto ancora potrà vivere. Le sue ferite sono molto gravi; alcune, permanenti”.
“È vero che Arvenië mi ha trattato molto male”, rispose Arakhon, “ma desidero ancora vederla. Penso a Inziladun ogni volta che posso. Arvenië è un tiranno ma persino i più grandi dei re dei Valdali erano tiranni; l’amo ancora, e non credo proprio ci farà il favore di andarsene tanto presto. È l’unica donna in questo mondo, e per far questo ho sempre pensato che sia in realtà una mezza dea, alla quale io senta di dovere delle scuse. Portatemi da lei il prima che potete: se Arvenië vi ha prese al suo servizio, non dubito che voi possiate avere palle più dure di quelle degli stivatori del Malezaro”. Faidan, da lungo tempo, probabilmente aveva cessato di scandalizzarsi di fronte al linguaggio tipico del porto e quindi si limitò a sorridere, dicendo: “È un punto di vista, certo”. “Ma in ogni caso”, aggiunse l’altra, che non si era ancora presentata ad Arakhon, “è chiaramente nostro dovere spezzare le gambe ai nemici della signora Arvenië, e per riuscire bene in questo dobbiamo fare in modo che suo fratello arrivi sano e salvo a casa. Questo non è il luogo adatto per una riunione generale o per discorrere di filosofia: vi sarei quindi grata di un vostro cenno di voler alzare il sedere da quello sgabello. Dobbiamo andare, e presto; l’aria che arriva dal mare non mi piace”.
Arakhon, senza parole, fece per ribattere, ma in quel momento l’orologio di Ostelar batté le ore e ricordò a tutti che il momento della chiusura delle porte della città era vicino. Faidan si rimise in fretta la cesta sulle spalle, mentre l’altra sollevava di nuovo la tenda e usciva. Con lo sguardo, tenendo questa volta il lembo sollevato, Arakhon con lo sguardo la seguì mentre attraversava a passo rapido la piazza e scompariva lungo la strada ormai semideserta. “Andiamo”, disse Faidan, “Nimarië ci aprirà la strada e farà in modo che nessuno possa darci disturbo fin che non avremo attraversato le porte. Per parte vostra, voi siete un venditore di barili di sardine: sono sette lire e venti pesi ciascuno, il che non è poco, ricordatevelo quando ve lo chiederanno i doganieri di città. In totale ne portate ventotto, tutti per la famiglia Eshe; sono su un carro che troveremo pronto poco prima di arrivare, è già stato tutto predisposto”.
“E dove li ho comprati?” chiese Arakhon.
“Non sapete che quelli più buoni arrivano proprio da Same? Dovreste. Proprio come i vestiti che portate addosso. Conosco a memoria gli ordini di pagamento delle merci e il vostro carico è stato pagato la settimana scorsa”.
“Capisco. Sono sicuro che abbiate ragione, si può fare”, rispose Arakhon sorridendo e tirandosi il cappuccio sopra la testa. Un terzo servitore degli Eshe, un ragazzo che gli venne introdotto come Dubrel, si era ora affiancato a loro e reggeva un lume. “Potreste lavorare per me. Siete molto brave”.
“Grazie”, disse Faidan, “nessuna somma potrebbe convincermi a darvi il mio aiuto”. Arakhon rimase interdetto. “Fino a quando non avrete ereditato, s’intende, se mai accadrà” continuò la giovane. “Fino a quel momento, la nostra lealtà andrà ad Arvenië”.
Come Faidan aveva predetto, oltrepassarono la dogana dopo qualche chiacchiera e nessuna difficoltà. All’arsenale avevano fatto davvero un bel lavoro: i barili e il carico erano autentici, e così i documenti di trasporto, il tutto corredato da una spiegazione del servitore Dubrel sul come mai Arakhon, ovvero il signor Vedui, venendo dalla lontana Parga non parlasse neanche una parola di adunaico. I doganieri di Ostelar sarebbero stati di norma più attenti e scrupolosi, e una scusa così banale non sarebbe bastata; il momento era stato però scelto in maniera perfetta, e complici il freddo, la voglia di andarsene a casa visto che le porte della città si stavano chiudendo nonché la notorietà dei commerci della famiglia Eshe con l’est, sempre puntuali e regolari nel versamento delle tasse, fecero sì che i due ometti con la berretta di lana floscia non degnassero neppure di uno sguardo Arakhon, invitandoli a passare rapidamente oltre. Faidan li aveva preceduti dentro le mura, salutandoli con un cenno e affidando Arakhon stesso a Dubrel e a Nimarië, magicamente ricomparsa: si sarebbero visti, così disse, a Inziladun. Per il momento la destinazione di Arakhon era un’abitazione sul fronte del porto, ancora un cambiamento rispetto a quanto lui si era aspettato, e tutti quei cambiamenti lo infastidivano. Durante l’ultima guerra, Valandor Hamina, ora signore di tutti i Valdali, era stato piuttosto duro con Ostelar: non soltanto si era portato via gran parte dei tesori delle ville, ora in parte restituiti per espressa volontà di Gondor, e aveva venduto i chiostri più belli adiacenti alle passeggiate sul mare a manigoldi e tagliagole, ma i suoi soldati avevano anche fracassato senza ragione tutte le vetrate con gli stemmi araldici delle famiglie mercantili, sostituite ora da assi di legno, e divelto dalle mura i marmi bianchi e le pietre decorative. In questo momento particolare della vita della città, c’era anche qualche vantaggio: trovare un alloggio dove nessuno ficcasse il naso era diventato più facile. Nimarië si era avviata con decisione sul lato interno delle mura del porto ma verso il basso, verso la costa, scegliendo i punti in cui dalle lanterne che illuminavano i camminamenti arrivava meno luce. Arrivarono a una fila di porte, che oltrepassarono l’una dopo l’altra facendo scomparire in Arakhon la speranza di potersi finalmente togliere gli stivali e scaldarsi i piedi davanti a un fuoco, e magari metter sotto i denti qualcosa. Improvvisamente, però, la donna si fermò, fece quattro passi indietro e, preso un batacchio, diede due colpi vigorosi su una delle porte appena passate, la soglia di un’abitazione assolutamente anonima. L’uomo che aprì era molto anziano, e portava delle ciabatte e addosso un mantello di velluto verde, completamente rovinato: la sua faccia aveva perduto qualsiasi distinzione, ed esprimeva solo scontentezza, eppure nonostante questo Arakhon non riuscì a trattenere un moto di sorpresa nel riconoscere il vecchio capitano. “Armenion?”, esclamò.
Il vecchio fissò Arakhon con una totale assenza di interesse, mentre Nimarië gli si avvicinava e scartabellando fra vari documenti che teneva nelle tasche della sua sopraveste estraeva un rotolo anch’esso chiuso dal nastro verde degli Eshe, sicuramente una lettera. Armenion, quello era davvero il nome del vecchio, allungò una mano per palparle il seno ma lei lo respinse e si mise a gridargli contro, buttandogli il rotolo in faccia e andandosene via. La preziosa lettera, o quello che era, prese la via col vento, inseguita da un disperato Dubrel che stava facendo di tutto per impedire che finisse oltre le mura e in mare, e per un po’ Arakhon e Armenion rimasero a guardarsi tutti e due in piedi. “Magnifico carattere”, disse poi il vecchio, “la donna calda si comporta così. Bene, accomodatevi dentro, Arakhon, e versatevi un bicchierino di grappa per voi e uno per me. I dottori non mi lasciano bere che acqua, capite: le occasioni come questa sono rare”. Si voltò poi verso l’interno, facendo cenno ad Arakhon di entrare e chiudendo la porta in faccia a Dubrel, che rimase fuori; Arakhon non osò intercedere in favore del giovane, e si accomodò su una delle due sedie a dondolo accanto al camino. Finalmente al caldo.
“Pensavo”, disse Arakhon dopo che i bicchieri vuotati furono diventati quattro e dopo che Dubrel, al quinto o sesto tentativo di bussare, se n’era definitivamente andato, “che foste morto, finito a picco con la vostra Tiobel alla battaglia del Mar Carminio. Vi vedo invece in salute”.
“La salute non esiste, da vecchi”, commentò Armenion. “A che servirebbe? Diciamo che mi muovo poco, da quando il mio ponte è diventato il pavimento di questa stamberga. Voi invece vi siete mosso parecchio, e devo dire la verità, anche a me fa piacere rivedervi, Arakhon. Non è mai troppo tardi”.
Arakhon aveva ormai perfettamente compreso la situazione. Il momento, per la sua famiglia, non doveva essere dei migliori, se Arvenië ricorreva ai pochi, vecchi amici fidati. E Armenion non era farina del sacco di Tari o di qualcun altro della servitù: Arvenië era ancora viva, e sulla lettera che il vecchio neppure aveva guardato c’era certamente il suo sigillo. “Dov’è Arvenië, Armenion?”
“A casa vostra”, rispose il vecchio. “Non posso dirvi di più. Potrete rientrare a Ostelar ufficialmente, e con tutte le scuse del caso, fra qualche giorno, non appena una certa faccenda con il giudice Muzabar sarà stata sistemata. Per il momento è meglio se state qui, mentre si sbrigano le carte. Nimarië è una brava ragazza, è molto fedele a vostra sorella: era già venuta da me ieri. Sapete, Arakhon, vado ogni tanto verso la punta, per comprare il burro che arriva da Same; ero là una quindicina di giorni fa e ho sentito il vostro nome, parlavano di voi. Sembra che siate diventato famoso e rispettato, e non abbiate ancora imparato a tenere le braghe addosso. Bravo. Bisogna fare l’uomo fin che si può, potrete fare il castrato da morto. Vorrei non aver perso tante occasioni in passato; quando vedo fiorellini come Nimarië mi viene da piangere”.
“Come ha fatto Arvenië a ottenere il perdono?” chiese Arakhon, ancora più stupito.
“Non si è trattato di lei”, rispose il vecchio capitano. “Anche se sa di tutto questo, Arvenië è ancora più di là, con i piedi nel laghetto delle ninfe, che di qua: mi dispiace, Arakhon, ma non la troverete in salute. È stata Paraphion, la vostra fidanzata, a ottenere il perdono per voi. Ormai possiamo dire moglie. Il giorno in cui hanno mezzo ammazzato vostra sorella si è precipitata nella sala del Consiglio e di fronte a Valandor si è messa a urlare e a dire che tenervi lontano era indegno e vergognoso. Una splendida donna, Paraphion. Suo padre, il giudice Fuindil, ha fatto il resto”.
“Oh, sì”, pensò Nimarië mentre saliva rapida la gradinata di marmo che l’avrebbe portata al vialetto d’ingresso di Inziladun, la casa della famiglia Eshe. “Oh, sì, è tutto perfettamente chiaro”. Le capitava, quando era nervosa, di parlare come se si stesse rivolgendo a Drano, suo fratello: era morto in mare diverso anni fa, quando lei ancora stava diventando grande, ma Nimarië lo ricordava bene, e le mancava sempre tanto. “Arakhon, così com’era, non serviva a nessuno”, disse al suo interlocutore immaginario. “Una volta mandato a Same, era fuori dalla portata del potere, e non poteva più prender parte a nessuno dei giochi di Ostelar. Non avrebbe più potuto prender parte a nessuna guerra, né parlare nell’interesse di Arvenië o per puro amore di giustizia. E Arvenië non poteva esporsi: da quando in qua il lupo osa farsi vedere debole per proteggere l’agnello? Di conseguenza, ci voleva qualcosa di eccezionale per riportarlo a casa, ed ecco che si è verificato”. Sbuffò. “Certo che nessuno avrebbe pensato che Arvenië potesse farsi accoltellare dal suo amante: una punizione divina, forse la morte… questo mondo non è un mondo per i buoni. No. Ed eccolo qua, è tornato. Lui non si ricorda di me, non mi ha riconosciuta. Ero ancora bambina, ma io… ecco, un discorso più o meno del genere. Ecco quello che gli farò”.
Non sapeva, però, se le sue parole avrebbero avuto effetto su Arakhon. Si sorprese nel rendersi conto di aver percorso buona pare della via accarezzando il pugnale con la mano, e si spaventò, ritraendola subito: odiava il sangue e la violenza. Mentre spingeva il cancelletto di ferro battuto, allontanò ogni emozione. “Sarò gentile”, pensò, cercando di rilassarsi e scacciando i ricordi tranne una specie di piacere animalesco che stava provando da quando l’aveva rivisto, nato dal pensiero di potergli finalmente dire del fatto suo. Quando tutto era successo, anni prima, e Arakhon l’aveva fatta donna, sua madre Alaniel l’aveva scongiurata di non dir nulla a nessuno e di comune accordo con suo padre l’avevano mandata via, a Puntarossa, una tenuta sul Mispir dove gli Eshe coltivavano mele e ortaggi in quantità sufficiente a riempire ogni autunno un piccolo magazzino dal quale rifornivano poi Ostelar. Eshe Far, la madre di Arakhon, aveva generosamente ricompensato il silenzio donando ai suoi una casetta e una partecipazione ai profitti della tenuta. Figli per fortuna non ce n'erano stati. E da quel momento l’avevano messa a lavorare, e aveva avuto sempre troppo da fare per poter pensare alla sua casa di Ostelar e ad Arakhon. E poi era diventata grande, e quando era tornata a Ostelar, Eshe Far era già morta e sepolta e Arakhon se n’era già andato; Arvenië, quella strana ragazza nata coi capelli grigi che aveva avuto la sfortuna di avere Arakhon come fratello, e che sapeva tutto di quello che lui le aveva fatto, l’aveva presa in simpatia e le aveva chiesto di studiare la calligrafia e l’adunaico commerciale delle Colonie per poter curare la segreteria della casa. E adesso, Arakhon era tornato. E non l’aveva neppure riconosciuta!
Si fece strada nella luce sempre più scarsa del crepuscolo; qui non c’erano pelosi marinai seminudi, doganieri idioti o soldati di Valandor vestiti di nero e rosso. La Via Nobiliare che portava alle Case Alte, in mezzo alle quali stava Inziladun, era sempre deserta. La burrasca stava arrivando con lentezza: la pioggia batteva però già forte, e il cielo della notte era tutto coperto. Ormai era sulla terrazza di Inziladun, quasi alla porta di casa; dall’alto della terrazza, si scorgeva il mare, e Nimarië vide una iole arrancare verso il molo più grande, proveniente da una nave ormeggiata poco più in là. Si sfilò la grande chiave che teneva appesa al collo con una catenella, e la fece girare nella toppa del portone, spingendolo, entrando e richiudendo con grande sollievo; buttò subito via lo scialle ormai zuppo e gli stivali, dirigendosi a piedi scalzi in cucina. Eshe Far aveva chiamato degli ingegneri dal Dar per disegnare la sua casa e sotto il pavimento scorreva l’acqua, proveniente da una caldaia che i servitori spegnevano solo d’estate; il tepore che il cotto irradiava era magnifico, confortevole più di qualsiasi altra cosa al mondo. Si accarezzò i capelli bagnati, pregustando il piacere della vasca che l’attendeva.
“Le cose sono andate un po’ storte, vero?”
Nimarië sobbalzò. Sentire la voce di Tari alle sue spalle non la sorprese più di tanto, non la spaventò: più di ogni altra cosa era stanca, però, e non avrebbe avuto voglia di far rapporto proprio ora. “Non mi dire”, sbuffò, voltandosi. Tari era la segretaria speciale di Arvenië: andava e veniva a suo piacimento, e la sua parola, a Inziladun, come importanza contava quanto quella della padrona; oltre a Tari e Nimarië stessa la casa degli Eshe ospitava in quel momento solo un paio di vecchi servitori, una governante, una servetta, un gatto e uno strano filosofo di nome Artagora, che Arvenië trovava divertente. Faidan viveva invece nella parte bassa di Ostelar, e Dubrel al porto. Era stata Tari a congegnare il rientro di Arakhon; nonostante fosse di fatto la seconda persona più importante della famiglia, però, Nimarië l’aveva sempre trattata da pari, e si sarebbe potuto dire che questo avesse favorito la nascita di una specie d’amicizia. “Non mi ha neppure riconosciuta”.
Tari sorrise. “Non me ne meraviglio. Sei cambiata, Nimarië; lui, neanche tanto, ed è via da diverso tempo. Se ti aspettavi si ricordasse di te…”
“No, no, niente affatto”, rispose Nimarië, mentendo. “Ma cosa facciamo, adesso? Abbiamo seguito le tue istruzioni ed è al sicuro, a casa di Armenion: Faidan si occuperà delle sue altre necessità domani mattina. Nessuno sa ancora che è tornato a Ostelar. Ma, voglio dire: non può rimanere là per sempre, lui è Arakhon e quindi se riuscirà a starsene tranquillo mezza giornata sarà già un successo. Vorrà vedere Arvenië. E a parte la faccenda del come presentare pubblicamente il suo ritorno, se Arvenië dovesse morire lui sarebbe capace di tirar su una tempesta tale da farci colare tutte a picco. Che facciamo, che facciamo?”
“Sua Maestà ha qualche idea?” chiese Tari, sarcastica.
“No, naturalmente. Mi hai chiesto di accoglierlo per evitargli rischi e… no, di idee non ne ho neanche una. E sono abbastanza agitata. In casa non abbiamo neanche un uomo che possa difenderci: solo quattro vecchietti, uno scemo e un ragazzino. Se Arvenië dovesse morire… dovremmo chiedere protezione al Consiglio!”
“Inutile, in questa situazione” rispose Tari. “Ma sono contenta che tu sia qui, e mi fa anche piacere che tu sia ancora innamorata di Arakhon. Perché ho un piano”.
“Eh?” Nimarië restò a guardarla impalata, a bocca aperta. “Non sono innamorata di Arakhon. Che piano? Posso chiedere di che cosa si tratta? Mi hai innervosita ancora di più”.
“Vai a dormire, e domani mattina torna nelle vicinanze della casa di Armenion. Non potrò muovermi da qui, perché Arvenië avrà bisogno delle sue medicazioni e il chirurgo verrà presto. Ma tu vestiti da sguattera…”
“Grazie”, disse Nimarië. “Ne sentivo il bisogno”.
“… e, appena Arakhon esce”, proseguì Tari senza curarsi dell’espressione della giovane, “fai in modo di avvicinarti a lui, fatti riconoscere. Il tempo dovrebbe migliorare, dopo l’alba, e allora le onde si calmeranno e la gente scenderà verso i mercati. Porta Arakhon sul fronte del porto, e andate alla locanda con l’albero incoronato, quella dove vanno di solito i soldati della Guardia Bassa. Lì troverai Tanadas: ti ricordi di lui?”
“Il barbone? Il sergente che accompagna spesso Arvenië? Sì, certamente. Che gli devo dire?”
“Ci penserà lui. Ha quaranta uomini dalla sua parte, decisamente dei duri. Ed è fedele ad Arvenië”.
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