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Artagora era madido di sudore.
Sembrava in preda ad un delirio tanto si accalorava nelle parole. Ma quando ebbe nella propria la mano di Tara, delicata e fragile come l'ala di un passero, ridivenne calmo.
"Anche io ho bisogno di te, e non solo in questo frangente; non ho che te. Non ho più famiglia, probabilmente non ho più patria....puoi davvero contare su di me."
Ma la sentì distante, come se un suono all'esterno la avesse portata lontano, o come se non volesse più udire parole di quel tipo.
Allora decise di dire qualcosa di che potesse stemperare quel momento, per permettere all'annimo di Tara di reindossare vesti più consone al cammino in che si apprestavano a riprendere.
"....A far l'amore con te oltretutto farei ben magra figura oggi, conciato come sono...."
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[SIZE=2]Allora decise di dire qualcosa di che potesse stemperare quel momento, per permettere all'animo di Tara di reindossare vesti più consone al cammino che si apprestavano a riprendere.[/SIZE]
[SIZE=2]"... A far l'amore con te oltretutto farei ben magra figura oggi, conciato come sono ..."[/SIZE]
[SIZE=2]Un breve silenzio cadde tra di loro mentre entrambi riflettevano.[/SIZE]
[SIZE=2]“Non è vero, Artagora," sussurrò. "Tu difendi il mio onore, da uomo gentile. E io ti onoro per questo. Non vergognarti di essere come sei adesso per aver deciso di amare Venie e di seguirla, e di seguire me. E tutte le volte che l’hai aiutata, rischiando persino la tua vita, in cambio di un suo sorriso. Lei ti voleva bene, a modo suo. Se c'è qualcuno che deve provar vergogna ... Non pensare che io non apprezzi … “ Fece una pausa, poi disse a disagio: “Devo mostrarti la mia riconoscenza in un modo che valga qualcosa, sai.”[/SIZE]
[SIZE=2]Quando Artagora aprì la bocca per protestare, ancora più a disagio, Tara sollevò una mano per fermarlo.[/SIZE]
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[SIZE=2]“So che non hai bisogno di niente. So anche che c’è già così tanto fra noi dopo stanotte che nulla sarebbe sufficiente per manifestarti la mia gratitudine. Ma non ho niente da donarti.”[/SIZE]
[SIZE=2]Non si erano mossi. Improvvisamente non riuscivano a guardarsi in faccia. ‘Assassina’, pensò Tara. Quella era la definizione di ciò che era. Comprese una volta di più che era accaduto per davvero, tutto, tutto, e che da molto tempo non aveva più un onore da difendere; ora, però, aveva almeno una speranza. “Nielval”, disse imbarazzata, goffamente. “Mia madre mi chiamò così, di nascosto a tutti. Era un nostro segreto, e l’ho diviso con pochi.”[/SIZE]
[SIZE=2]E avendo donato quel segreto ad Artagora, fuggì via, dicendogli di tornare a letto. Quella notte, non riuscì a riprendere sonno.[/SIZE]
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[SIZE=2]“Non mi piace” mormorò l’uomo dinoccolato senza un orecchio, togliendosi il berretto e il largo fazzoletto dalla bocca. [/SIZE]
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[SIZE=2]“Orchi di Magurgoth. Ognuno di loro potrebbe ucciderci tutti. Che la buona sorte mi tocchi! Sei più stupida di una pietra, donna, e dovrei tagliarti la gola. Che facciamo se uno di loro si sveglia prima che lui arrivi?”[/SIZE]
[SIZE=2]“Dormiranno ancora per ore. E dopo il sole li brucerà”. Stavolta parlava un uomo grasso con la voce rauca e un ghigno sdentato. “Mio nonno mi ha insegnato a preparare quella roba che gli abbiamo buttato nella minestra. Dormiranno fino all’alba”. [/SIZE]
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[SIZE=2]“Lui verrà molto prima”, disse Abit. “Ma qualsiasi cosa fosse, tuo nonno ti ha mentito. Avrebbe dovuto strangolarti nella culla, e se non starai zitto, lo farò io.”[/SIZE]
[SIZE=2]Abit si mosse silenziosa verso Loras. Guardò interrogativamente l’uomo grasso, che annuì; per quello che poteva capire, comunque, Loras pareva morto nei suoi abiti zuppi di sangue, così lei iniziò a scuoterlo. Con sua sorpresa, lui aprì di scatto gli occhi.[/SIZE]
[SIZE=2]“Co …”[/SIZE]
[SIZE=2]Abit gli mise una mano sulla bocca in tempo per troncare a metà già la prima parola. “Sei stato ferito. Ti hanno colpito in testa e a una gamba” sussurrò. “Ci sono dieci Orchi dall’altro lato di questa parete, e altri fuori. Molti altri. Gli abbiamo dato qualcosa per farli dormire, ma non ha funzionato molto bene. Ti ricordi qualcosa?”[/SIZE]
[SIZE=2]Loras sentì di nuovo il sapore amaro, come di vino vecchio. Si sentiva debole, respirava a fatica. Scostò la mano della ragazza. “Mi ricordo la scala. Non riuscivo a salire”. La sua voce era bassa e cupa. Fece una smorfia e storse la bocca. “Nient’altro.”[/SIZE]
[SIZE=2]“Abbiamo dato qualcosa anche a te. Hai dormito un po’, ma questo è tutto; la tua gamba è messa male e dovremo portarti in spalla. Penso di aver visto più di cento Orchi là fuori, mentre ti portavamo qui. Sei ferito gravemente, forse stai morendo, ma non ti lasceremo qui. Mobek, non puoi fare nulla?”[/SIZE]
[SIZE=2]“Non ho le erbe giuste” borbottò con ferocia l’uomo grasso. “Che tu sia dannata, donna, non posso far niente senza! Creperemo qua dentro!”[/SIZE]
[SIZE=2]Di colpo la ragazza si alzò e afferrò l’uomo per la gola come se avesse intenzione di sollevarlo da terra e scuoterlo. Loras vide allora che era alta e molto forte; riconobbe nel suo volto alcuni dei tratti aggraziati e spigolosi di Niara, e da essi e dal nero vellutato dei capelli capì che era un Elfo. Ancora una volta gli Elfi; il profumo di Niara nel suo ricordo, gli Elfi e le loro donne nel suo destino. Perché?[/SIZE]
[SIZE=2]“Prima che io ti ammazzi, Mobek, smettila di urlare. Non vi ho portati fino qui per farvi morire! Avrei dovuto lasciarti a grattare le pentole a Tartaust! E te, Dennan, avrei dovuto chiuderti in un sacco con delle pietre e lasciare che tu affondassi nel fiume! Non vi lascerò morire! Mi sentite? Nessuno di voi”. Abit lasciò andare Mobek, s’inginocchiò e prese la testa di Loras fra le sue mani; un bagliore rosso come un fuoco apparve all’improvviso attorno a lei, e Loras spalancò occhi e bocca insieme. Mobek mise le mani sulla sua bocca appena in tempo per soffocare qualsiasi parola, ma appena il fuoco lo toccò, i vortici del Potere lo catturarono come un filo di paglia in un gorgo. Il freddo lo raggelò fino alle ossa, incontrando un calore ustionante che si propagava verso l’esterno come se volesse friggergli la carne; il mondo svanì in una sensazione di velocità, caduta, volo e vertigine.[/SIZE]
[SIZE=2]Quando alla fine cessò, lei respirava pesantemente e fissava Loras, che la fissava a sua volta da sopra le mani che ancora gli tenevano la testa. L’ultima traccia di dolore era sparita. Il mormorio proveniente dall’esterno non era aumentato; se Loras o lei avevano fatto rumore, gli Orchi non lo avevano notato.[/SIZE]
[SIZE=2]Abit stava carponi a testa bassa e tremava. “Padre mio” mormorò. “Farlo così … è stato come togliermi la pelle. Oh.” La ragazza osservò Loras, e tolse le mani. “Come ti senti?”[/SIZE]
[SIZE=2]“Stanco”, mormorò lui. “E affamato. C’erano degli uomini con degli archi … dove sono gli altri?”[/SIZE]
[SIZE=2]L’aquila desidera una valle, ed un luogo sul quale poter riposare le sue ali per un attimo[/SIZE]
[SIZE=2]La foglia desidera un fiume che la porti per altre cento leghe[/SIZE]
[SIZE=2]Il fiume desidera l’oceano nel quale annegherà il suo cuore[/SIZE]
[SIZE=2]Il leone desidera l’agnello del quale morderà la carne[/SIZE]
[SIZE=2]Il campione un avversario che abbia la forza di vincere[/SIZE]
[SIZE=2]Il demone un compagno che accetti il suo braccio sulle spalle[/SIZE]
[SIZE=2]La vita desidera te[/SIZE]
Poema del Chennacatt
[SIZE=2]Per otto buie ore, escluse due brevi soste, continuarono la marcia. Il ricordo della sala con le statue dal volto in agonia, e dell’urlo e della morte di Miran, li perseguitava tutti, ed erano molto scossi, ma non incontrarono pericoli, non udirono nulla, e non videro altro che il pallido bagliore delle loro lanterne che scintillava tutt’attorno come un fuoco fatuo. Il corridoio che avevano scelto era sul sesto livello, e proseguiva diritto, decisamente verso l’alto. Non vi erano più ai due lati aperture su altri corridoi o gallerie, ed il terreno era piatto e solido, senza pozzi né fessure. Stavano evidentemente percorrendo quella che in passato era stata una via importante, ed avanzavano più velocemente. [/SIZE]
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[SIZE=2]Percorsero in quel modo circa tre miglia in linea retta verso est. Col salire della strada, Tara riprese leggermente animo, mentre Rumidal si faceva via via più scuro in volto. Avevano però camminato tanto che non potevano più proseguire senza riposo, e stavano tutti pensando ad un posto adatto per dormire, quando improvvisamente davanti a loro trovarono una grande porta, simile alle altre che avevano oltrepassato in quella che, dalle rune sulle architravi, avevano capito essere la 'Sala della Luna'. Vi era una forte corrente di aria più calda, e davanti Borgil vedeva filtrare luce. Si fermarono, radunandosi preoccupati.[/SIZE]
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[COLOR=darkslateblue]Borgil Gwindion[/SIZE][/COLOR]
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[SIZE=2]Borgil pareva contento. “Ho scelto la giusta via”, disse. “Ritengo che non siamo più lontani adesso dal fianco orientale della montagna. Ci troviamo molto in alto, e dinanzi a noi c’è un vasto salone; questa via è sicura”. Spalancò la porta, che si aprì sinistramente senza alcun rumore. Delle grandi ombre spiccarono il volo, e scorsero un ampio soffitto sulle loro teste, sostenuto da molte possenti colonne di pietra. Avanti a loro e da ambedue le parti si stendeva un immenso salone vuoto; le pareti nere, lucide e lisce come vetro, scintillavano e lampeggiavano alla luce del sole. Videro tre monumentali finestre, altre finestre più piccole, e cupi archi neri: uno dritto innanzi a loro ad oriente, gli altri sulle pareti laterali.[/SIZE]
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[SIZE=2]“La 'Sala della Guerra' ”, disse Tara.[/SIZE]
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[SIZE=2]“Si”, disse Borgil. [/SIZE][SIZE=2]“Vi sono grandi finestre in questo fianco della montagna, e dei passaggi che conducono fuori alla luce, ai livelli superiori, attraverso le torri. Credo che potremo raggiungerli, ma poiché siamo stanchi, sapremo qualcosa con certezza soltanto domani mattina. Vedremo l’alba, da questa sala. Ma nel frattempo è meglio non proseguire. Riposiamo, se possibile. Le cose sono andate bene sinora, e la maggior parte della via oscura giace alle nostre spalle. Ma non abbiamo ancora finito, e vi è ancora molta strada prima di giungere a quella che qui chiamavano ‘la finestra che si affaccia sul mondo’: il trono del Nazgul.”[/SIZE]
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[SIZE=2]Passarono la notte nel grande salone, accoccolati in un angolo per sfuggire alla corrente: il caldo era scomparso e pareva che un flusso continuo di aria gelida giungesse dalle finestre rivolte a oriente. Tutt’intorno a loro, sdraiati lì per terra, pesava l’oscurità, vuota e luminosa, anche se a volte scorgevano le stelle. Artagora si era seduto pensieroso accanto alla porta nel buio pesto; ma si voltava continuamente, colto dal terrore che qualche incognita cosa potesse assalirli dall’oscurità. Ardic non osava muoversi; finanche le immagini più selvagge suggeritegli dagli oscuri rumori che sentiva non erano che un lontano riflesso del terrore e dello sbigottimento realmente provato a Ny Chennacatt. Tara dormiva, e Borgil, appoggiato accanto a lei, pareva anch’egli addormentato.[/SIZE]
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[SIZE=2]Ma Borgil era sveglio, benché coricato immobile e silenzioso, stremato per le sue ferite. Era immerso nei suoi pensieri e cercava di rammentare ogni momento del suo precedente viaggio nella fortezza del Re Tempesta; rifletteva inoltre ansiosamente per trovare la via da scegliere: una semplice svolta sbagliata poteva ora avere conseguenze disastrose. Senza la guida di Nirien non aveva certezza dei livelli più alti, e il suo abbandono gli pesava sul cuore, assieme a un altro sentimento: ‘Mi devi portare là, Borgil. Fosse l’ultima cosa che fai, mi devi portare là. Lo sai. Mi dispiace’.[/SIZE]
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[SIZE=2]Dopo un’ora si alzò, avvicinandosi ad Artagora. “Mettiti in un angolo, e dormi”, disse con tono amichevole. “Senti il bisogno di dormire, suppongo. Io non ne ho bisogno; posso montare la guardia”. Artagora annuì, e si spostò andando a rannicchiarsi vicino a Tara.[/SIZE]
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[SIZE=2]Studiare la via stando fra le rocce, dalle ombre, la faceva sentire più sicura, ma non era più incoraggiante. Le mura della Cittadella, in quel punto, non erano ampie come quelle che aveva visto in altri posti, a Tul Harar o a Ostelor, non più larghe di un passo, sostenute da grossi contrafforti di pietra, ora ammantati dall’oscurità. Chiaramente un passo era uno spazio più che sufficiente per camminare, se non fosse stato per il precipizio da entrambi i lati che era di diverse braccia. Un volo nell’oscurità verso rocce acuminate e dure. Ma alcune di quelle rocce poggiavano proprio contro le mura; ‘posso arrivare in cima con una certa facilità e correre dritta verso le maledette finestre! ‘, si disse Abit.[/SIZE]
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[SIZE=2]Era vero, ma non per questo era facile. I fianchi della montagna erano a precipizio. Osservò nuovamente l’alta fortezza e si ripeté che sarebbe riuscita ad arrampicarsi. ‘Certo che ci riuscirò. E’ identica alle pareti ripide delle scogliere di Vaisala’, pensò. C’erano circa cento passi in salita prima di giungere a uno spalto merlato. Probabilmente più in basso c’erano delle feritoie per gli arcieri, ma non riusciva a vederle bene nella notte e comunque non poteva passarci attraverso. ‘Un centinaio di maledetti passi’, si disse. ‘Forse centoventi. Padre mio, non ci proverebbe neanche il re degli Elfi’. [/SIZE]
[SIZE=2]Ma era la sola via d’accesso che aveva trovato. Ogni cancello che aveva visto sembrava ben chiuso e sembrava abbastanza forte da arrestare chiunque, per non parlare della dozzina circa di orchi che erano di guardia quasi a ogni entrata, con gli elmi e i pettorali di metallo e le rozze spade appese ai cinturoni.[/SIZE]
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[SIZE=2]Si sporse per scrutare verso le mura, cercando di scegliere il punto da dove arrampicarsi.[/SIZE]
[FONT=Calibri][SIZE=3][FONT=Verdana][SIZE=2][Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
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[SIZE=2]Il cestino cadde sulla sabbia e, mentre il suo contenuto si rovesciava, gli haradani uscirono di corsa dalla gola alle sue spalle, seguiti da una figura alta, dal cranio rasato. Indossava un lungo abito dai colori brillanti, e uno strano bagliore lo circondava. [/SIZE]
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[FONT=Verdana][SIZE=2][COLOR=darkslateblue]Halbira[/SIZE][/FONT][/COLOR][/SIZE]
[SIZE=2]Halbira, gli occhi sgranati per la paura, si mosse furiosamente, cercando di fuggire; uno degli haradani la colpì sulla bocca, così forte da farla cadere a sedere con un grugnito, poi le piovvero colpi addosso da tutte le direzioni, pugni e bastonate. Si stava ancora sforzando di rimettersi in piedi, ma i colpi non si fermavano, i pugni e le bastonate la colpivano sulla schiena e allo stomaco, sulla testa e sui fianchi, sulle spalle, sul seno, le gambe, di nuovo in testa. Gemendo, cadde su un fianco e si raccolse su sé stessa, tentando di proteggersi. ‘Oh, Dei, ci ho provato. Elbereth! Ci ho provato! Non griderò. Che siate maledetti, potete picchiarmi a morte, ma io non griderò!’ , pensava.[/SIZE]
[SIZE=2]I colpi cessarono, ma Halbira non riusciva a smettere di tremare. L’uomo alto si accovacciò al suo fianco, con le braccia attorno alle ginocchia, seta che frusciava contro la seta. Halbira vide l’Occhio tatuato sulla sua fronte; gli occhi neri erano duri, e adesso non aveva più l’espressione divertita. [/SIZE]
[SIZE=2]“Forse sei troppo stupida per capire quando sei sconfitta, veggente. Hai combattuto selvaggiamente per proteggerli, e ci saresti riuscita, saresti riuscita a nasconderli al Maestro, se non vi foste fermati a Jadaf Shed. Dovete tutti imparare a sottomettervi. E imparerete”. [/SIZE]
[SIZE=2]Adesso il divertimento era tornato negli occhi dell’uomo, il torvo divertimento di un bambino cattivo che strappa le ali alle mosche.[/SIZE]
[SIZE=2]“Non abbiamo bisogno anche di questa” disse Dennan, in piedi accanto a Mobek. “Le spaccherò il cuore”. Gli occhi di Halbira uscirono quasi dalle orbite. [/SIZE]
[SIZE=2]“No”, disse Hol. “Uccidete sempre con troppa facilità, e solo il Maestro può servirsi dei morti”. Sorrise alla donna, e la lasciò agli altri uomini.[/SIZE]
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[SIZE=2]Tund Hol[/SIZE]
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Artagora era esausto. Prostrato dalla fatica si era lavato di dosso il sangue degli orchi ma non riusciva a togliersi dalla testa i volti dei compagni rimasti indietro.
Erano rimasti in quattro.
E certo non stavano riposando in una locanda con la testa su di un guanciale. Erano ancora nella fortezza, dentro la sala della guerra degli antichi generali del Chennecat.
In ogni caso lui stesso si era portato dietro l'idea di dover affrontare la morte praticamente ad ogni passo che avesse mosso dalla battaglia di Alsarias in poi. Ma il pensiero che anche tutti gli amici morti o persi avessero avuto nel cuore la stessa consapevolezza non serviva a sollevarlo.
Poi guardò Tara.
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Era rilassata. Il suo compito non la divorava più, e ora poteva affrontare qualunque altra cosa con tranquillità. Certo non era allegra e anche lei aveva negli occhi le morti dei compagni di viaggio. Ma nonostante tutto la tensione che la percorreva da un'eternità sembrava essere scomparsa. Artagora si ricordò di quando la aveva spinta via del corpo ferito di Borgil, colta dalla disperazione. La aveva sentita leggera come un passero ed era rimasto profondamente colpito di come due spalle così esili e delicate avessero deciso di poggiarsi sulle spalle il peso di una simile impresa, di tale responsabilità.
Ora era seduta accanto a lui nella penombra e Artagora non capiva se stesse sonnecchiando o se fosse sveglia, ma le parlò ugualmente, sussurrando, così non la avrebbe svegliata nel caso dormisse.
"Quando a Jadaf Shed hai detto di non avere nulla da donarmi per dimostrare la tua gratitudine....avevi torto. Mi hai fatto dono di una cosa preziosissima."
Sospirò.
"Ti confesso che quando ti ho reicontrata ero divorato da sentimenti contrastanti e il mio cuore era offuscato dal dolore e dalla battaglia. Ma successivamente ho capito.
Ho capito quanto pesasse il fardello che ti portavi sulle spalle, la quantità di sotterfugi e segreti che hai dovuto mantenere, le scelte dolorose che hai dovuto fare per mantenere la tua parola.
Ti chiedo scusa se ho dubitato della tua lealtà dopo Alsarias, sbagliavo.
Non avrei potuto avere migliore compagna di viaggio lungo questo cammino, e mi addolora vedere quel lampo di amarezza che ti attraversa il viso quando pensi al giudizio che hai di te stessa.
Mi addolora perchè sei coraggiosa e leale, perchè questi sono tempi in cui la fermezza della tua parola è un raro tesoro, e perchè se le circostanze lo permettessero il tuo animo gentile potrebbe mostrarsi al mondo nella sua luce.
Mi addolora perchè ti rende meno bella. Perchè tu sei bella."
Rimase per un istante in silenzio.
"Quando tutto questo sarà finito, se lo vorrai. ti porterò ad Athor, magari d'estate. Ti farò vedere il bel mare della mia terra e se vorrai potrai bagnartici. Poi ti farò mangiare le buone cose del mio paese......le arance....sapessi como sono buone le arance di Athor...e poi ti verserei una coppa di un buon vino. I tralci di vite da noi sono bassi e gonfi di sole e da essi otteniamo un vino che fa girare dolcemente la testa.
E nella luce del tramonto mi godrei lo spettacolo di vederti con vestito degno di te, e del tuo sorriso."
[SIZE=2]Tara si mosse lentamente nella sala, camminando fra le grandi colonne di granito rosso e seguendo le tracce che Artagora e Rumidal le avevano indicato. La Finestra Orientale era di fronte a loro, più avanti, oltre il trono nelle stanze del Re Tempesta; la meta era vicina. Il silenzio riempiva le ombre. [/SIZE]
[SIZE=2]Si erano fermati di fronte all'ingresso, colti da improvviso timore; le stanze del Re Tempesta. Le stanze del Nazgul. La consapevolezza di ciò che significava, il ricordo della morte improvvisa e terribile di Borgil, la perdita degli altri loro compagni. Tutto pesava sui loro cuori.[/SIZE]
[SIZE=2]“E’ passato poco tempo”, disse Tara, china su quelle tracce di passi leggeri. “Qualcuno è venuto qui.”[/SIZE]
[SIZE=2]“Arakhon?” chiese Iman. Tara agitò appena una mano. “Non lo so”, rispose. “Chissà di chi, di che cosa …”[/SIZE]
[SIZE=2]“Sono le mie.”[/SIZE]
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[SIZE=2]Si voltarono di scatto verso quella voce. La donna alta con i lunghi capelli neri che uscì dall’ombra fra le colonne, puntando l’arco teso contro di loro, gli era familiare. Artagora ricordava perfettamente la sera in cui, in Same, lei l’aveva minacciato; Tara pensava di sapere chi fosse. Rumidal non la conosceva, ma l’aveva vista nei suoi sogni. Iman e Ardic erano attoniti.[/SIZE]
[SIZE=2]“Siete arrivati troppo presto. Non voglio uccidervi, non voglio la vostra morte. Datemi la Pietra di Luna. Altrimenti soffrirete, e sarà peggiore di qualsiasi altra cosa abbiate subito”, disse Abit.[/SIZE]
[SIZE=2]Ardic si fece avanti. “Chi sei?”, chiese. [/SIZE]
[SIZE=2]All’improvviso Tara si mosse veloce dietro a lui, e poi fu tutto così rapido che non riuscirono quasi a rendersi conto di ciò che stava accadendo. Tara spinse Ardic in avanti, contro Abit, e corse verso il trono; la donna scagliò la freccia, Tara cadde a terra con un urlo, vento e pioggia, lo stomaco contratto dalla paura, la lama di fuoco nero nelle mani di Abit e Tara che urlava: “Prendila! Prendila! Dietro al trono, Artagora, mettila dietro al trono!”[/SIZE]
[SIZE=2]Artagora corse dentro alle stanze di Akhorahil mentre tutto attorno a lui sembrava scorrere lentamente e mentre gli altri cadevano a terra e si ritraevano di fronte alla maestosità della sala; avvertiva il potere di quel luogo. ‘Più veloce, più veloce’ pensò, e Abit era dietro a lui, una vera maestra di spada, talmente veloce da non poter essere umana, e Artagora sapeva di non avere realmente alcuna possibilità. Più di una volta aveva pensato che fosse giunto il momento di abbracciare la morte, ed eccolo di nuovo - solo che questo era veramente quel momento, e Artagora, mentre appoggiava la gemma che Tara aveva portato con sé per tutto il viaggio, segretamente, si chiese come sarebbe stato, e se avrebbe provato dolore mentre Abit lo colpiva alle spalle. [/SIZE]
[SIZE=2]Come per rispondergli, un fuoco bianco come quello che una volta aveva visto creare in un tempio in Ardor scaturì dalla Pietra di Luna, uscendo dalle ombre fra le colonne e il trono, inondando la sala di Akhorahil, puntando dritta verso i loro petti.[/SIZE]
[SIZE=2]Artagora sentì che la giubba riarse quando venne appena sfiorata da quella luce, sentì l’odore della lana bruciata. Davanti a lui, il globo di fuoco ghiacciato, di luce liquida, colpì le immense colonne di granito rosso e avvolse Abit; nel punto d’impatto, la pietra cessò di esistere e la luce incandescente attraversò altre colonne, distruggendo all’istante anche queste. La Testa del Drago e tutta la fortezza tuonavano mentre le colonne scomparivano e tutto si disintegrava in nuvole di polvere, spruzzando una pioggia di frammenti di pietra. Ciò che cadeva nella luce, però, cessava semplicemente di esistere, così gli parse. [/SIZE]
[SIZE=2]Abit, urlando, con un ringhio di rabbia lo scaraventò via, cercando di afferrare la gemma e di strapparla dal punto in cui Artagora l’aveva appoggiata, proprio al centro della Finestra Orientale, dove i raggi di luna arrivavano più forti. [/SIZE]
[SIZE=2]Artagora non esitò. Con il polso, roteò d’istinto la lancia; e fu l’istinto più di ogni altra cosa che salvò la sua vita e quella dei suoi compagni. La punta della lancia tagliò le carni di Abit e spezzò il suo braccio; il sangue schizzò alto e la spada nera volò via, e lei vacillò, indietreggiando, ansimando. Fiamme bianche guizzavano dal pavimento sotto ai loro piedi, sgorgavano dalle pareti, dal soffitto, getti furiosi di luce; la realtà vacillava. Artagora, e Tara e Rumidal rannicchiati a terra all’ingresso della sala, potevano sentirla che si dipanava, sentivano loro stessi dipanarsi. Venivano spinti fuori da lì, in un altro luogo nel quale non esisteva nulla. [/SIZE]
[SIZE=2]Artagora la colpiva ma Abit si difendeva, ora, mentre perdeva molto sangue; la luce che li avvolgeva, attorno a lei, era più scura, e i suoi occhi avevano cambiato colore ed erano neri come la morte. Guardava Artagora furiosa, con una rabbia ardente come i suoi occhi. “Ti ho già offerto due volte la possibilità di servirmi da vivo, hathoriano”. Il sangue e la saliva le colavano dalla bocca mentre parlava, e ogni parola ruggiva come una fornace, una fornace che Rumidal sentiva rimbombare nella sua mente. “Per due volte hai rifiutato, e ora mi hai ferito. Ora servirai il Signore della Tomba da morto. Muori, Artagora. Muori, schifoso essere umano. E’ giunto il momento di morire! Mi prendo la tua anima!”[/SIZE]
[SIZE=2]Quando Abit si allungò un ultima volta per colpirlo, esponendosi, Artagora si chinò e poi scattò di nuovo in piedi, affondando disperatamente l’asta della lancia. Non sapeva se sarebbe riuscito a vivere, ma era certo che continuare a combattere fosse la sua unica possibilità. L’asta raggiunse il corpo di Abit, colpendola al fianco; una ferita non grave, ma ci fu come uno strappo, una lacerazione nell’espressione del suo volto, qualcosa si liberò e sembrò tirar via una parte di lei. Abit gemette, e crollò come un sacco vuoto.[/SIZE]
[SIZE=2]Artagora guardò solo per un attimo il corpo della donna disteso ai suoi piedi; il dolore che stava iniziando a provare e la stanchezza erano quasi benvenuti, qualcosa a cui appigliarsi in mezzo a quella luce, un ricordo della vita e della realtà alla quale voleva tornare. Chiuse convulsamente la mano sulla lancia, rimase sospeso per un istante che durò secoli, vacillando, in bilico, prossimo a essere spazzato via come sabbia davanti a un’improvvisa alluvione. [/SIZE]
[SIZE=2]Ritrovò l’equilibrio con infinita lentezza. Si voltò, protendendosi verso Tara. “Andiamo, presto! Usciamo da qui. Sei abbastanza forte?”[/SIZE]
[SIZE=2]Tara sembrava stordita, con gli occhi aperti solo in parte. Fece una smorfia, stringendo con il pugno l’asta nera della freccia di Abit. L’aveva spezzata, ma spuntava dal suo fianco, strappandole un gemito a ogni movimento. “Si. E’ avvelenata. Mi ha ferita, ma non è successo nient’altro”. Si alzò, appoggiandosi ad Artagora, e lo seguì nella sua corsa verso il centro della fortezza, a sua volta seguita da Rumidal, che sembrava perso, lontano, come intento ad ascoltare voci che solo lui poteva udire. [/SIZE]
[SIZE=2]Ardic era scomparso. Il corridoio che partiva dalla sala del trono era fiancheggiato da porte che si aprivano su grandi stanze, un tempo illuminate da stupende lampade di ferro battuto come quelle della sala che avevano appena lasciato. [/SIZE]
[SIZE=2]A non più di venti passi da loro scorsero Iman, seduta a terra in modo curiosamente rigido, con la testa rivolta all’indietro; Tara si chiese che cosa le fosse successo, ma non si fermò, e non rallentò la sua corsa. Artagora si protese verso una doppia porta senza maniglie, con un piccolo motivo lavorato nel metallo, e la spinse; all’interno trovò una nuova sala pentagonale, e accanto alle scale che scendevano in Naria, il cuore del vulcano, videro un secondo trono nero che sembrava galleggiare a mezz’aria sull’abisso. [/SIZE]
[SIZE=2]Ardic stava inginocchiato davanti al trono, lo sguardo fisso nel vuoto; con un grido, Artagora, mentre sentiva di nuovo il calore della luce alle sue spalle scaldargli la carne, si mise un braccio davanti agli occhi e corse contro di lui spingendolo giù dalle scale. Era certo che se si fosse fermato, o fosse tornato indietro, sarebbe morto prima ancora di voltarsi. Ardic rotolò e cadde lungo la rampa fino a quando non si trovò prono sul pavimento di marmo, e di colpo sveglio; con uno sforzo, si alzò, e mentre una torma di Orchetti urlanti attaccava Artagora di fronte, vide Abit, ancora viva e ancora pronta ad ucciderli, scagliarsi da dietro.[/SIZE]
[SIZE=2]“Non verrò sconfitta!” gridò Abit. I suoi occhi erano di nuovo fuoco nero; il grido echeggiò fra le colonne. “Non posso essere sconfitta!”[/SIZE]
[SIZE=2]Parte dell’oscurità che l’avvolgeva si proiettò verso di loro, formando una sfera così nera che sembrò assorbire anche la luce della Pietra di Luna; ma Artagora affondò ancora la sua asta, e Abit gridò, iniziando a indietreggiare. “Ti ho uccisa!”, gridò Artagora. Abit gemette nella sua agonia, e il suo viso impazzì. “Sciocco!” ululò. “Il Signore delle Tenebre non può essere sconfitto!”. Nei suoi occhi divampò un improvviso trionfo; e fu la fine, le sue gambe si piegarono mentre cadeva sotto i colpi di Artagora e di Tara, e cadde in avanti mentre gli Orchetti fuggivano. [/SIZE]
[SIZE=2]E all’improvviso Ardic, Tara e Artagora e tutti gli altri furono in un'altra fortezza, circondati da colonne ancora intere. Tara era appoggiata contro la base di una delle scalinate di granito rosso, la freccia nel fianco, e Rumidal e Artagora erano accanto a lei. L’ombra che li aveva circondati tutti stava svanendo, e la luce bianca illuminava ogni cosa e si rifletteva nel vulcano, fino all'Abisso. [/SIZE]
[SIZE=2]“Ci siamo riusciti”, disse Tara. “Abbiamo vinto la battaglia. La Soglia è chiusa”.[/SIZE]
[SIZE=2]Ai piedi di Ardic giaceva il corpo di una donna, sdraiato scompostamente sulla schiena; una donna estremamente attraente e giovane, che vagamente gli ricordava Niara, e che Artagora, mentre la stava combattendo, aveva chiamato Anysa. [/SIZE][SIZE=2]Ardic liberò la lama del pugnale che portava al fianco, e l’affondò nel suo petto.[/SIZE]
[SIZE=2]E poi fu silenzio nel cuore della fortezza.[/SIZE]
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Barone di Passo Fiamma Nera Tenner Ardic
Era cosi che da qualche mese la gente lo chiamava, Barone.
Un titolo che gli stava stretto non tanto per le responsabilità che ne derivavano, ma per il fatto che Ardic aveva umili origini e divenire prima cavaliere e poi addirittura un barone, lo aveva un po’ turbato.
Non riusciva ad abituarsi al titolo; vero sì, che ora la gente, non l’avrebbe più deriso vedendolo precipitarsi fuori dalla casa fumante con il volto ricoperto di fuliggine a causa dell’ennesimo fallito esperimento d’alchimia ed ogni volta, che veniva pronunciata la formula nobiliare per esteso, tratteneva una risata beffarda sotto la folta barba.
Aveva lasciato Passo Fiamma Nera su richiesta di Lady Tara e non tanto per la promessa di ricchezze, ma per la sua stessa sete di conoscenza; sapeva che il posto dove sarebbero andati era ricco tanto di sapere oramai disperso quanto di pericoli ed il Male sarebbe sempre stato in agguato e pronto a tentarlo con qualunque mezzo.
Il viaggio fu arduo e pieno di pericoli, perse i compagni vecchi e nuovi, cercò invano di salvarli da ferite mortali, da orribili trappole, da abominevoli immonde creature. Lady Tara non si era mai fidata completamente degli uomini che li accompagnavano, perfino alcuni degli elfi avevano voltato le spalle senza spiegazioni.
Ardic, il Barone, guardando il vessillo degli Eshe e del passo Fiammanera, ricordava il coraggio di quel soldato che li aveva accompagnati fino a là.
Eran giunti alla meta.
La fortezza del re Tempesta.
Il soldato non aveva retto agli orrori che la fortezza celava. S’era accasciato a terra silenziosamente ed il suo cuore aveva smesso di battere.
Avevano messo la pietra di luna nel posto più malvagio della terra di mezzo, per sconfiggere il male, per sigillare il pozzo, per distruggere quegli orribili esseri che infestavano la roccaforte.
S’erano accampati nella stanza della guerra due piani sotto alla stanza del trono dell’Oscuro. Un posto indifendibile dato i suoi cinque ingressi, ma almeno avevano trovato acqua e luce, non restava loro che aspettare per uno, due o forse addirittura tre mesi l’arrivo di Arakorn. Ardic ignorava quanto lunga sarebbe stata l’attesa. Il cibo scarseggiava già e presto avrebbero dovuto cercarlo, rubarlo a chi ora infestava quella che un tempo era una città fortificata.
La stanza scelta a rifugio era spoglia: quattro giacigli fatti con quel poco che erano riusciti a portarsi dietro e i due vessilli pendevano nell’ombra sulla parete.
Un rifugio in mezzo alle fiere.
Non poteva esserci posto più pericoloso, ma tornare indietro ora era impossibile dopo la perdita di Borgil, nessuno di loro conosceva la via del ritorno ed erano incapaci di evitare tutte le insidie che li aspettavano in agguato nella fortezza.
L’ unica speranza era proprio l’arrivo di Arakorn.
Con il suo esercito.
[SIZE=2]Cercò di far finta che le pareti e il pavimento non vacillassero, e si fermò per appoggiarsi contro il muro e riprendere fiato. Con le mani si schermò gli occhi dalla brillante luce della candela. Le vertigini lo percorrevano a ondate. Il veleno del juthjuth; andava e veniva, come la febbre della malaria. Quando riaprì gli occhi, la sua visione era avvolta in nebbie color arcobaleno. Li serrò con forza, appoggiò la candela e li schiacciò con i palmi delle mani.[/SIZE]
[SIZE=2]Sentì un passo leggero che scendeva le scale verso di lui. Si fermò due gradini più in alto. “Stai bene?” chiese Tara con voce incerta.[/SIZE]
[SIZE=2]“Ho preso un po’ troppo freddo, là dentro” mentì Artagora. Certamente puzzava per il sudore della febbre. “Fra un attimo starò bene”.[/SIZE]
[SIZE=2]“Lascia che ti aiuti a salire. Inciampare sarebbe pericoloso, la scala è sbrecciata e termina molto in fondo”. Nella voce ora c’era disapprovazione. Artagora scosse la testa, ma lei ignorò il gesto, proprio come avrebbe fatto lui al suo posto. Sentì la sua mano forte afferrarlo con fermezza all’altezza dell’omero, mentre l’altro braccio gli circondava la vita. “Cominciamo a salire le scale”, l’incoraggiò. Si appoggiò contro di lei, contro il suo calore, anche se non voleva, e raggiunse incespicando il successivo pianerottolo.[/SIZE]
[SIZE=2]“Grazie” borbottò, pensando che adesso avrebbe dovuto lasciarla, e invece aveva preso a tenerla più stretta.[/SIZE]
[SIZE=2]“Sei sicuro di poter camminare? La febbre ti è tornata. Ardic è con Rumidal, stanno cercando da mangiare, e se ti succede qualcosa siamo da soli.”[/SIZE]
[SIZE=2]‘Da soli’. Artagora riuscì ad annuire. “Accompagnami alla sala della finestra. Se non ti dispiace. Farà un poco più caldo; possiamo stare assieme per un momento”.[/SIZE]
[SIZE=2]Tara rimase in silenzio più a lungo di un istante. “Ardic ritornerà solo verso l’imbrunire”. Scagliò le parole in maniera fredda. Artagora non sollevò neanche la testa. “Sì”, rispose con altrettanta freddezza. Lei si avvicinò ancora. Gli afferrò i capelli, sollevandogli bruscamente il capo per guardarlo in faccia. “Io …” Artagora alzò di scatto gli occhi. [/SIZE]
[SIZE=2]“Io ti amo”, disse Tara. [/SIZE][SIZE=2]Il sollievo lo sommerse come un’onda. Il suo cuore sobbalzò. La prese tra le braccia e la baciò.[/SIZE]
[SIZE=2]O almeno, ci provò. Tara lo allontanò con il braccio rigido, dicendo seccamente: “Non posso. Ho fatto una promessa … una promessa che manterrò per sempre. Non mi lascerò baciare da … da un uomo che amo.”[/SIZE]
[SIZE=2]Artagora barcollò. L’ondata di emozioni gli aveva fatto più che mai girare la testa. Tara l’aiutò a riprendere l’equilibrio. Un gesto istintivo che aveva imparato prendendosi cura di altri. “Tara … Nielval. Non capisco Non vuoi … hai fatto … una promessa?” Il dolore e l’incredulità si mescolavano nella sua voce.[/SIZE]
[SIZE=2]“Non ho mentito” disse Tara in tono querulo, confuso da un groppo nella voce. [/SIZE]
[SIZE=2]Artagora avrebbe voluto riuscire a incontrare il suo sguardo. [/SIZE]
[SIZE=2]“E’ solo che non ti ho detto … è troppo complicato. Artagora, sono così felice di averti incontrato, di averti conosciuto. Sono solo … così felice di aver avuto questa possibilità. Credevo che sarei morta prima di … sono una figlia bastarda, Artagora. Nel profondo dell’anima. Io non ti ho mai detto che sono promessa a un altro. Semplicemente, se tu non fossi quello che sei, io … che il cielo ti maledica, Artagora, perché mi costringi ad ammetterlo!” [/SIZE]
[SIZE=2]Le sue parole volavano come pietre; aveva le guance arrossate. [/SIZE]
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[SIZE=2]“Credo di volere che tu mi sposi, credo che vorrei un futuro con te. Ma devo sposare Arakhon. Ho promesso ... per Ar-Venie, Artagora. Per lei.”[/SIZE]
[SIZE=2]Per un momento Artagora rimase, senza parole, ad ascoltare uno strano suono, cercando di comprendere cosa fosse. Poi capì. Lei stava piangendo, in piccoli singulti. Si raddrizzò e l’afferrò, stringendola forte.[/SIZE]
Artagora tenne stretta a sè Tara a lungo. Aspettò pazientemente che smettesse di singhiozzare un tempo che gli parve interminabile; poi, quando Tara giacque spossata dal pianto con la testa poggiata sul suo petto, parlò.
"Nielval, mia piccola, forte Nielval, non dire che sei una figlia bastarda, non maledirmi e perdonami se puoi."
Tara strinse la veste lacera sul petto di Artagora con le dita, ma rimase con la faccia nascosta sul suo petto, tanto stretta a lui da poter sentire il suo cuore battere veloce.
" Si, perdonami."
Le carezzò il capo delicatamente e parlò con voce seria e dolce insieme.
"Perdonami di essermi innamorato di te, di averti recato dolorericordandoti ancora una volta quanto sia incrollabile la tua parola, quanto essa sia ferrea, come una catena che hai coraggiosamente deciso di indossare e vestire con dignità."
Artagora sospirò profondamente.
"Questo viaggio è stato come una vita intera e forse più… alla fine l’unica cosa che mi importa e poterti proteggere dal dolore, essere l’artefice della tua felicità. E se questo vuol dire restarti accanto, un po’ in disparte, che sia. Sarò sempre al tuo fianco e non ti obbligherò a sciogliere il tuo giuramento. Terrò i miei sogni nel cuore, in quel luogo segreto dove immagino le cose che vorrei condividere con te, ma non li lascerò sfiorire…
Li coltiverò finché potrò finalmente offrirteli.
Perché mi piace pensare che un futuro c’è….si, se siamo arrivati sin qui un ritiro c’è, ne sono certo.”
Rimase in silenzio per un istante.
“Comunque non vedo altro futuro che accanto a te, non vedo altro luogo che quello dove possa almeno scorgerti…..”
Guardò il misto di squallore e passata grandezza di quelle stanze poi strinse a sé Tara ancora più forte.
“Hai il mio cuore, mi avrai sempre accanto a te, fino a che lo vorrai. E se non lo vorrai più me ne andrò. “
“Mi accontenterò del tuo ricordo, quello non me lo toglierà mai nessuno.”
Poggiò delicatamente le labbra sul capo di Tara.
"E quando vorrai....se lo vorrai...mi racconterai che scopo ha una promessa che ti vincola per tutta una vita ....cosa voglia dire in tutto questo disegno."
[SIZE=2]C’era una traccia netta, il segno di un corpo che era rimasto disteso sulla schiena, e lo scheletro giaceva là, nello stesso posto dov’era caduto. Ricordava il volto pallido e gli occhi chiusi, la mano stretta attorno all’elsa del pugnale che le sporgeva dal petto; la lama sembrava essersi fusa a partire dalla punta, il petto si era alzato e abbassato troppo lentamente, con un ritmo irregolare, ancora un paio di volte, e poi era rimasto fermo.[/SIZE]
[SIZE=2]Ardic trasse un sospiro profondo per calmarsi. Al posto di una donna giovane e bella, solo quei resti. La morte non era pietosa con nessuno. Non c’era, però, nessun odore malsano. E non era mai stato testimone di una morte del genere; la carne si era consumata così rapidamente da lasciar nude le ossa nel giro di pochi giorni. E, a giudicare dal colore, le ossa si sarebbero consumate anch’esse con la stessa rapidità, forse nello spazio di un anno, o meno, addirittura. [/SIZE]
[SIZE=2]Andò più vicino, a vedere che cosa poteva fare. La prima cosa era liberarsi di tutte le sue cose; potevano far del male, a lui stesso, o a Tara e Artagora. Le aprì la mano, e trasalì quando vide che l’elsa era come fusa nelle ossa del palmo. La liberò con il coltello e la lanciò di lato con una smorfia. [/SIZE]
[SIZE=2]‘Quale demone possedeva la sua anima?’, pensò. Aprì la giubba che portava, e alzò la camicia. Emise un fischio sommesso fra i denti. Quello che l’aveva scosso, oltre al pensiero della profanazione del corpo, era stata la sensazione provata al contatto con le ossa. Era come se ci fosse del ghiaccio, dentro di esse; faceva sembrare calda l’aria.[/SIZE]
[SIZE=2]~[/SIZE]
[SIZE=2]Rumidal aveva già avviato dei fuochi, uno a ogni estremità della sala che era diventata la loro casa, e si stava scaldando le mani davanti a uno di essi; un mantello inzuppato era disteso sul pavimento piastrellato. Tara aveva trovato alcune candele, lasciate da chissà quale oscuro esploratore, che ora erano accese e attaccate su uno dei tavoli di pietra pregiata con la loro stessa cera. Il vuoto e il silenzio, a parte l’occasionale rombo del tuono, si aggiungevano alle ombre tremolanti, conferendo al posto un aspetto ancor più cavernoso. [/SIZE]
[SIZE=2]Artagora rientrò dalla vedetta; gettò sul tavolo il suo mantello e la giubba, entrambi bagnati, e si unì a Tara, stringendole la mano. [/SIZE]
[SIZE=2]“Se continua così, il freddo ci vincerà prima della fame”, disse lei. “Sono passati tre giorni da quando abbiamo trovato qualcosa da metter sotto i denti, comunque”. Rabbrividì e si passò una mano fra i capelli, e Artagora si chiese cosa avesse visto Tara nel corso della sua vita per poter essere così forte; da più di una settimana non mangiavano altro che i funghi trovati da Ardic, e il freddo portato da quella prima tempesta autunnale era stato terribile. Ora stava andando un po’ meglio.[/SIZE]
[SIZE=2]“Cinque settimane”, continuò. “Siamo qui da cinque settimane Ce ne vorranno almeno altrettante prima che Arakhon possa giungere a Tartaust. Con questa pioggia, le strade saranno inondate. Ci sono villaggi a decine lungo il fiume, potrebbe essersi fermato in uno qualsiasi di questi per aspettare il passaggio della piena”. ‘Per venire da me’, disse poi a sé stessa. ‘Ti prego, fa che stia ancora cercando di venire da me. Non è questo il modo di morire’.[/SIZE]
[SIZE=2]“Se mai verrà qui”, disse Rumidal.[/SIZE]
[SIZE=2]“E se si trova in questa regione” aggiunse Ardic.[/SIZE]
[SIZE=2]“Lui verrà qui”, rispose Artagora con calma. Si inginocchiò, e aprì la bisaccia, estraendone delle vesti asciutte. “Nel frattempo abbiamo delle stanze dove stare al riparo, e legna da ardere.”[/SIZE]
[SIZE=2]“Non è questo il modo” disse piano Tara. “Quel che accade, accade. Eppure alcune cose possono essere importanti”.[/SIZE]
[SIZE=2]Artagora non la sentì; Rumidal non le prestò attenzione. Entrambi indaffarati ad alimentare i fuochi e ad asciugare le vesti, parevano assorti, presi dai loro pensieri. Solo Ardic sembrava più interessato a controllare la condizione dei suoi libri e appunti che a scaldarsi. Rumidal si girò per guardarlo. [/SIZE]
[SIZE=2]“E tu cosa hai intenzione di fare, Ardic? Che cos’hai scoperto? Non hai avuto tanti scrupoli prima di ammazzarla.”[/SIZE]
[SIZE=2]“Non dovresti parlare così”, disse Artagora seccamente.[/SIZE]
[SIZE=2]Ardic alzò le mani al cielo. Le parole di Rumidal, nei suoi confronti, erano state aspre più di una volta, in quelle settimane, ma ci aveva fatto l’abitudine. “Non ho trovato quasi niente. Scomparsa, quasi completamente. Sembra che il suo corpo sia stato messo nella calce, non c’è più un accidenti di niente. Non ho mai visto una cosa così”.[/SIZE]
[SIZE=2]Rumidal batté gli occhi, stupito. “Che cosa mi dici dei vestiti?” chiese.[/SIZE]
[SIZE=2]“Ciò che aveva addosso è rimasto. Ma …” Ardic poggiò le mani su uno dei tavoli, fissando le fiamme delle candele. Gli facevano pensare agli occhi di Anysa. “Non ho toccato niente. Volevo farlo, e portare tutto qui. Abbiamo bisogno dei vestiti, di tutto quello che si possa usare. Ma ho sentito … qualcosa”.[/SIZE]
[SIZE=2]Tara annuì. “L’avevo sospettato. I suoi occhi, il suo viso … erano così belli. Il suo spirito è lontano, ormai, Ardic. Lei era un elfo. Privato della vita il suo corpo non ha più motivo di esistere, si è consumato, e la sua anima è lontana. La loro morte non è eterna, così credono. Eäromä me l’ha raccontato. Quella ragazza è assieme a Borgil, adesso; e se un giorno Borgil e i suoi fratelli la perdoneranno, potrà stare assieme a loro, in Valinor, e forse tornare sulla Terra di Mezzo, a passeggiare nei giardini dei suoi avi.”[/SIZE]
[SIZE=2]La pioggia tamburellava sul davanzale della grande finestra, il tuono rombava sulla cima della montagna, e di tanto in tanto un fulmine lampeggiava. Rabbrividendo, Ardic si girò per evitare i loro sguardi, chiedendosi se dopo tutto era vero. Se, dopo tutto, quello che gli era sembrato di sentire, nella stanza in cui aveva lasciato i resti di quella ragazza, di quell’elfo, non fosse stato veramente un pianto d’angoscia, ma solo uno scherzo del vento.[/SIZE]
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Star di vedetta….cercare cibo e legna….proteggersi dai morsi del freddo…..riposare. I giorni di attesa erano scanditi da questi pochi, fondamentali rituali.
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“Eppure anche qui trovo momenti di felicità….” Aveva detto una volta Artagora a Tara.
”Quando sono solo con te….accanto al fuoco, o anche di vedetta….anche se siamo nell’ultimo posto dove chiunque vorrebbe stare io mi sentoo bene e mi dimentico di tutto il resto, senza neanche il dispiacere di non poter bloccare questi istanti. Perché ci sei solo tu.”
Poi l’espressione di Tara aveva iniziato a intristirsi e lui aveva cambiato discorso.
“Mi rendo conto che sai molto poco del mio passato.”
Disse indossando la sua migliore espressione da narratore.
Tara si rilassava e volte sorrideva nell’ascoltare i racconti dell’athoriano.
“Effettivamente sono sempre stato parco di dettagli sulla mia vita, forse perché in effetti le mie quaranta primavere non sono così interessanti….”
Tara tagliò corto con una punta di curiosità.
“Questo si vedrà, intanto racconta.”
Artagora prosegui dicendole di sé. Il suo tono era solo esteriormente da affabulatore che intrattiene con ricca anedottica, ma Tara ormai lo conosceva, e colse tutte lem singole sfumatore di amarezza, nostalgia e talvolta rabbia.
Le raccontò di una infanzia non troppo diversa da quella di tanti altri suoi conterranei cresciuti in una terra perennemente minacciata da vicini forti e aggressivi. Un paese il cui popolo, naturalmente portato alle scienze ed alle arti, si ritrovava costretto a studiare il mestiere delle armi e praticare una diplomazia che mantenesse un sottile e fragile equilibrio con i pericolosi vicini.
Era figlio di Rhea, una donna colta e raffinata ,anche se di origini non nobili, e di un ufficiale dell’esercito, Adrastus, spesso altrove e che quel poco che c’era creava in breve il desiderio che ripartisse subito. La madre, con la sua erudita sensibilità, aveva fatto nascere in Artagora un precoce interesse per le arti e le scienze. Il padre invece, con scarso successo, nel poco tempo in cui rimaneva a casa cercava di ist5riurlo al combattimento.
Ma il piccolo amava leggere e far di conto, non combattere. E Adrastus non mancava di sfogare la sua insoddisfazione sulla sua famiglia
Morì presto….vittima di una scaramuccia di confine e Artagora non lo pianse granché.
Rhea, rimasta sola poteva appena provvedere a sé stessa facendo l’istitutrice per le figlie delle famiglie più nobili, ma certo non aveva il denaro per l’istruzione del figlio.
Ma Athor è generosa con i suoi figli….specialmente quando questi accettano dieci anni di permanenza in un collegio militare che aveva come sbocco obbligato dieci anni di servizio nell' esercito.
Così Artagora ebbe un istruzione degna di un nobile. Filosofia, oratoria, ingegneria….e naturalmente lancia e scudo da oplita…..Ovviamente ebbe anche tutto il disprezzo dei figli dei nobili, che vedevano come un insulto che il privilegio di una istruzione superiore fosse accessibile anche ai meno abbienti.
Poco importava sapere che nei successivi dieci anni di servizio militare la sopravvivenza dei più poveri e sacrificabili figli di Athor era bassissima.
Era in questi dieci anni che Artagora aveva appreso l’arte della prudenza. Fu il fatto di essere uno dei pochi sopravvissuti verso il settimo anno di servizio a fruttargli delle promozioni… per particolari eroismi, ma solo il fatto di essere ancora vivo. Ufficialmente Athor non era mai in guerra, ma le bande di briganti che sconfinavano non si contavano e i confini erano perennemente minacciati dalla prepotenza dei vicini.
Era stato durante l’ultimo anno di servizio che aveva conosciuto il primo valdaclo della sua vita, un capitano, e ricordava l’incontro con piacere….un uomo spontaneo e spiritoso.
“Un po’ qua e un po’ là…”
Aveva risposto ad un suo imbarazzato attendente circa il come disporre l’accampamento.
Artagora lo aveva trovato subito simpatico.
Alla fine dei dieci anni di servizio militare Artagora aveva trentadue anni e poca voglia di proseguire la carriera militare.
Tornò a casa senza molte idee sul che fare della propria vita, anche perché la madre, che ne frattempo si era ammalata, aveva bisogno di cure continue. Le stette vicino per un anno intero, finchè Rhea morì serenamente nel sonno.
In breve sentì di non avere più alcun legame con quella terra e decise di partire, di andare al sud.
Le nobili famiglie delle città della costa apprezzavano gli istitutori della sua terra e questo gli poteva permettere di vivere dignitosamente altrove.
Atagora racconto di molti incontri divertenti e alcuni meno piacevoli, del tempo passato a Osthelor, della prigionia, di come ad un certo punto si fosse sentito molto più cittadino di Osthelor che di Athor, di come alla fine, quando venne nominato legato, si fosse sentito usato da un governo molto meno democratico di quello che voleva far credere.
Artagora era convinto che la differenza stava nella possibilità di partecipare alla vita politica della città concessa alle donne. Nella sua madrepatria era praticamente inesistente, ad Osthelor era molto diverso.
Se avesse fatto un discorso del genere in patria lo avrebbero preso per matto.
Eppure amava la sua terra. Spese molte parole a descriverla al suo meglio. La trovava di una aspra bellezza, tante isole come perle che ornavano la splendida costa, incastonate in un mare turchese. La bassa vegetazione e i frutteti...
“Un giorno ti ci porterò, comunque sia….comunque vada”
Artagpra aveva appena terminato il suo racconto ed era rimasto con lo sguardo fisso verso il piccolo focherello che ardeva in mezzo a tutti e quattro gli astanti. Senza cambiare espressione ravvivò le braci pigramente aiutandosi con una mezza freccia.
Poi, improvvisamente, alzò la testa sorridendo e facendo ruotare il suo sguardo per guardare uno a uno tutti i suoi compagni.
Poi, con aria complice, estrasse dall’interno delle proprie vesti una piccola fiaschetta ricoperta di un cuoio estremamente logoro.
“Questo è una cosa che conservavo per una occasione speciale.”
La stappò e ne inalò brevemente il contenuto con gli occhi chiusi.
“D’estate ad Athor beviamo questo liquore tagliato con l’acqua fresca per trovare refrigerio, mentre durante i freddi inverni lo sorseggiamo puro in piccoli bicchieri per trovare un po’ di calore…..e comunque porta tutto l’anno un pizzico di primavera nel cuore. Si chiama Uz’Ho.”
Guardò i volti illuminati dal fuoco.
“Ce ne è giusto un sorso a testa e non credo potrei trovare occasione migliore di questa.”
Passò il piccolo contenitore alla sua sinistra.
Ardic lo prese e lo levò con aria solenne.
“Agli amici caduti.”
Poi ne bevve un sorso e passò il liquore a Rumidal.
Questi ne annusò il contenuto.
”Anice…”
Poi brindò.
“Al destino di questa nostra terra.”
Bevve e a sua volta porse la fiaschetta a Tara.
A sua volta anche lei ne annusò brevemente il contenuto ma non disse nulla limitandosi a sorridere4 con gli occhi socchiusi.
Poi anche lei levò il suo brindisi.
“Ai giorni migliori che ci aspettano.”
Poi, dopo aver assaporato anche lei la sua parte, chiuse il cerchio porgendo ad Artagora il contenitore.
Questi lo prese, sorridendo del lampo di colore rosato che era apparso dopo aver bevuto sulle gote di Tara.
Alzò il braccio.
“Io brindo a noi, che siamo eroi. Poco importa se nessuno ci acclama per quel che abbiamo fatto. E nemmeno che non ci siano stati testimoni della nostra impresa.
Non cambia nulla il fatto che non ci siano persone ansiose di ascoltare la nostra storia, con la speranza di poterla raccontare ad altri in futuro. Noi sappiamo bene quel che abbiamo fatto. E il perché. Abbiamo ben chiare le scelte e i sacrifici che abbiamo affrontato. Sappiamo da dove veniamo e dove siamo alfine giunti.
Credetemi, compagni miei, siete eroi, e nulla ci toglierà questa consapevolezza, comunque sia, e comunque vada.”
Sorrise e poi prima di bere l’ultimo sorso rimasto disse.
“Eis igian”
Altre volte Tara lo aveva avuto come commensale ed in diverse circostanze, ma mai lo aveva sentito usare l’augurio tipico della sua terra natale.
Era una sera come tante e Tara, Ardic, Rumidal e Artagora sedevano di fronte ad un piccolo fuoco.
Durante quei brevi momenti di quiete cercavano tutti di fare un po’ di conversazione, nel tentativi di portare la propria mente altrove, forse nella speranza di fare sogni un po’ più tranquilli.
Ma quella sera, forse per il gran freddo, forse per sentimenti contrastanti che alcuni si portavano dentro, nessuno apriva bocca.
Artagora allora iniziò a parlare.
“Le mie trentotto primavere sono iniziate a Paniosis, un piccolo villaggio costiero poco lontano dalla capitale di Athor. Mio padre , Arthaniosis, era ufficiale della guardia cittadina; mia madre, Rhea, era una donna colta e istruita, che faceva l’istitutrice per le giovani delle famiglie più abbienti.
Ero un bambino introverso. Amavo la solitudine e osservare la natura attorno a me e dimostrai subito la riluttanza che avevo nei confronti della vita militare.
Mio padre c’era poco. Athor è sempre stata una nazione appetita dai regni vicini, forse meno raffinati ma più aggressivi. Tutto questo non si è mai tradotto in un conflitto, ma la tensione al confine era sempre tanta. Quindi mio padre era spesso via da casa.
La cosa a me non dispiaceva. Quando c’era, quel poco tempo che passava a casa, cercava di insegnarmi a combattere, ma si scontrava con la mia riluttanza e la mia natura timida. E non mancava mai di manifestare la sua insoddisfazione, a me per la mia incapacità e a mia madre per la femminuccia che stava crescendo in sua assenza. E non lo faceva a parole.
Arthaniosis morì in una scaramuccia al confine nord quando avevo dodici anni.
Nessuno a casa lo pianse molto.
Il governo di Athor è generoso con i suoi figli ma non con le figlie, e mia madre, rimasta vedova, ebbe presto delle difficoltà. Dopo il matrimonio non aveva più insegnato ad altri che a me, dovendo comunque badare alla casa, e nessuna famiglia oramai le avrebbe dato lavoro.
A tredici anni quindi decisi di entrare in accademia.
Il vantaggio era che avrei beneficiato di uno stipendio e di una ottima istruzione, ma significava anche che fino ai trent’anni avrei fatto come soldato qualunque cosa Athor mi avesse ordinato.
E così fu.
Imparai a combattere , ma anche l’ingegneria. Venni istruito alla vita militare, ma anche alla filosofia e all’oratoria.
Feci anche un po’ di carriera, ma ogni volta che mi avvicinavo al confine venivo rapito dal desiderio di sapere cosa ci fosse oltre, di viaggiare e imparare. Durante il mio trentaduesimo inverno mia madre morì, serenamente, e dopo averle dato una degna sepoltura, mi ritrovai libero, ma anche solo e incerto del futuro.
La vita militare non m‘interessava, ma le mie origini tutto sommato umili mi escludevano da altro tipo di vita.
Così mi misi in viaggio.”
Artagora racconto quindi dei suoi viaggi. Di incontri piacevoli e di altri meno divertenti.
Di come gli piacesse confrontarsi con altre culture, di come si fosse trovato alcune volte a scontrarsi con altri suoi simili.
Lo fece a modo suo; una cosa che aveva ben imparato era raccontare le storie e godette dei sorrisi e delle espressioni attente: per qualche momento aveva portato tutti, specialmente lei, un po’ fuori da quegli spazi lugubri, e questo gli dava gioia.
Il suo flusso di parole si fermò quando arrivò al suo arrivo ad Osthelor.
“Da qui in poi inizia la parte della mia vita più rischiosa, quella che ho condiviso con voi, ma sono sicuro anche la parte della mia vita più importante.”
Così dicendo guardò per un istante Tara, domandandosi cosa pensasse di quel racconto
Il fuoco stava iniziando a languire.
Artagpra aveva appena terminato il suo racconto ed era rimasto con lo sguardo fisso verso il piccolo focherello che ardeva in mezzo a tutti e quattro gli astanti. Senza cambiare espressione ravvivò le braci pigramente aiutandosi con una mezza freccia.
Poi, improvvisamente, alzò la testa sorridendo e facendo ruotare il suo sguardo per guardare uno a uno tutti i suoi compagni.
Poi, con aria complice, estrasse dall’interno delle proprie vesti una piccola fiaschetta ricoperta di un cuoio estremamente logoro.
“Questo è una cosa che conservavo per una occasione speciale.”
La stappò e ne inalò brevemente il contenuto con gli occhi chiusi.
“D’estate ad Athor beviamo questo liquore tagliato con l’acqua fresca per trovare refrigerio, mentre durante i freddi inverni lo sorseggiamo puro in piccoli bicchieri per trovare un po’ di calore…..e comunque porta tutto l’anno un pizzico di primavera nel cuore. Si chiama Uz’Ho.”
Guardò i volti illuminati dal fuoco.
“Ce ne è giusto un sorso a testa e non credo potrei trovare occasione migliore di questa.”
Passò il piccolo contenitore alla sua sinistra.
Ardic lo prese e lo levò con aria solenne.
“Agli amici caduti.”
Poi ne bevve un sorso e passò il liquore a Rumidal.
Questi ne annusò il contenuto.
”Anice…”
Poi brindò.
“Al destino di questa nostra terra.”
Bevve e a sua volta porse la fiaschetta a Tara.
A sua volta anche lei ne annusò brevemente il contenuto ma non disse nulla limitandosi a sorridere4 con gli occhi socchiusi.
Poi anche lei levò il suo brindisi.
“Ai giorni migliori che ci aspettano.”
Poi, dopo aver assaporato anche lei la sua parte, chiuse il cerchio porgendo ad Artagora il contenitore.
Questi lo prese, sorridendo del lampo di colore rosato che era apparso dopo aver bevuto sulle gote di Tara.
Alzò il braccio.
“Io brindo a noi, che siamo eroi. Poco importa se nessuno ci acclama per quel che abbiamo fatto. E nemmeno che non ci siano stati testimoni della nostra impresa.
Non cambia nulla il fatto che non ci siano persone ansiose di ascoltare la nostra storia, con la speranza di poterla raccontare ad altri in futuro. Noi sappiamo bene quel che abbiamo fatto. E il perché. Abbiamo ben chiare le scelte e i sacrifici che abbiamo affrontato. Sappiamo da dove veniamo e dove siamo alfine giunti.
Credetemi, compagni miei, siete eroi, e nulla ci toglierà questa consapevolezza, comunque sia, e comunque vada.”
Sorrise e poi prima di bere l’ultimo sorso rimasto disse.
“Eis igian”
Altre volte Tara lo aveva avuto come commensale ed in diverse circostanze, ma mai lo aveva sentito usare l’augurio tipico della sua terra natale.
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