Solo lo scricchiolio della ghiaia fine che aveva sparso a terra l’avvertì per tempo. Si alzò dalla coperta stesa vicina al fuoco, girò su se stessa, con i coltelli che le spuntavano dalle maniche per poi lasciare le sue mani, tutto in un unico movimento. La prima lama penetrò nella gola di un uomo paffuto e quasi calvo che aveva un pugnale in mano; incespicò all’indietro, con il sangue che gli gorgogliava fra le dita strette sull’impugnatura, mentre cercava di gridare.
La rotazione del braccio malfermo, però, deviò la traiettoria della seconda lama; il coltello si conficcò nella spalla di un uomo molto muscoloso con delle cicatrici sul volto, che stava uscendo dall’altro cespuglio. La spada del soldato cadde da una mano che all’improvviso non rispondeva più ai suoi comandi, e l’uomo si mosse pesante verso il bosco.
Prima che riuscisse a fare un secondo passo, Tara fece comparire un altro coltello e gli squarciò la parte posteriore della gamba. Il grosso uomo gridò e inciampò, e la minuta donna afferrò una manciata di capelli untuosi, sbattendogli la faccia su una pietra di fianco al sentiero; l’uomo gridò di nuovo quando il suo naso si ruppe e l’impugnatura del coltello che gli sporgeva dalla spalla urtò contro il terreno.
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Tara puntò la lama che aveva in mano a un millimetro dall’occhio scuro del bestione. Le cicatrici che aveva sul viso gli conferivano un aspetto da duro, ma fissò la punta del coltello senza neanche battere le palpebre, e non mosse un muscolo. L’uomo grassoccio, che giaceva per metà nella macchia, scalciò un’ultima volta, poi restò immobile.
“Prima che ti uccida”, iniziò Tara, “dimmi: perché?” La sua voce era tranquilla, stordita; lei stessa si sentiva stordita.
“Ti abbiamo vista combattere contro di noi” rispose subito l’uomo. Aveva l’accento di Hathor, come anche gli indumenti, ma erano un tantino troppo fini, troppo nuovi; aveva soldi da spendere. “Credevamo che tu fossi una spia, capisci?”
“Una spia? Si, hai ragione, in fondo. Chi mai vorrebbe uccidermi per aver combattuto contro Ostelor?”
L’uomo esitò. Tara avvicinò ulteriormente la lama. Se il tipo avesse battuto le palpebre, le ciglia avrebbero accarezzato la punta del coltello. “Chi?”
“Artagora” fu la risposta rauca. “Siamo della guardia di Artagora. Non ti avremmo ucciso. Creone vuole informazioni. Noi dovevamo solo prenderti e scoprire cosa sai.”
“Bugiardo! Avevate già i pugnali in mano, e conosco il vostro modo di combattere. Non ne sarei mai uscita viva.”
“Te lo giuro, ti abbiamo seguita per tutto il giorno. Ti abbiamo riconosciuta, eri sul campo di Alsarias, con gli Elfi. Creone è generoso, ci può essere dell’oro per te in questa faccenda. Una bella, grossa corona d’oro per quello che sai. Forse due.”
L’uomo provò a tirare via la testa dal coltello nelle mani di Tara, e lei lo spinse ancora più forte contro la pietra. “Chi è Creone?” Ma lei lo sapeva. Che la Luce l’aiutasse, lo sapeva.
“Creone. Della casata Girgioti. Alto. Anziano. Un filosofo, un maestro di diplomazia. Sa che hai tradito Ar-Venie. Vuole che tu gli dica quello che sai. Le corone potrebbero essere cinque.”
“Idiota” sibilò Tara. Venie è morta per questo?, si chiese. Oh, Luce, Venie è morta. Aveva voglia di urlare. “Dov’è Artagora?” Morta. Con le mosche che le ronzano attorno come api su una rosa da miele. “Dov’è Artagora?”
“Non lo so”, rispose l’hathoriano. Tara serrò la presa sui capelli dell’uomo.
“Aspetta! Aspetta! Puoi guadagnare più di cinque corone, o anche dieci. Cento, più probabilmente. Artagora è sparito, l’hanno portato via per metterlo in salvo verso il mare quando gli opliti hanno ceduto, poi è venuta la nebbia e nessuno l’ha più visto. Gli spiriti del bosco! L’hanno ucciso, di sicuro. Potrei aggiungerci una o due corone io personalmente. Con quello che sai sugli Elfi, e con me che conosco chi è interessato, potremmo riempirci le tasche entrambi.”
“Hai commesso un grave errore in tutto questo”, disse Tara.
“Errore?” La mano sana dell’uomo cominciò a scivolare verso la cintura. Senza dubbio aveva un altro pugnale nascosto lì. Tara lo ignorò.
“Non avresti mai dovuto dire che ho tradito Ar-Venie.”
La mano dell’uomo scattò verso la cintura, poi ebbe un unico spasmo convulso quando Tara affondò il coltello.
[size=2]Liberamente tratto da "La Grande Caccia" di Robert Jordan[/size]
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“Tirali giù” ordinò Creone con voce stanca. “Tirali giù e accertati che gli abitanti del villaggio sappiano che non ci saranno altre uccisioni”. ‘A meno che qualche pazzo non decida di essere coraggioso perché la sua donna lo sta guardando, costringendomi a una punizione esemplare’ , si disse. Avanzò verso le case, scrutando ancora una volta i prigionieri, mentre Alamanis si affrettava a cercare forconi e coltelli. Creone aveva ben altro a cui pensare che non all’eccesso di zelo e di rabbia degli opliti dopo la sconfitta; avrebbe voluto poter smettere di pensare alla sconfitta in generale.
“Non oppongono molta resistenza, arconte,” disse Marceto, “né questi di Urland né quel che resta dei gondoriani. Cercano di mordere come topi stretti in un angolo, ma scappano non appena uno morde in risposta.”
“Vediamo come ce la caveremo noi sulla strada verso casa, Marceto, nelle paludi, prima di giudicare questi uomini, d’accordo?”
I prigionieri avevano in volto un’espressione di sconfitta fin da prima che i suoi uomini arrivassero. “Manda Spiros a prendere uno di Gondor per me.” Il volto di Spiros era sufficiente ad ammorbidire quasi chiunque. “Uno che sembri abbastanza intelligente da raccontarmi quello che ha visto senza abbellimenti, ma giovane a sufficienza da non essere già difficile da gestire. Chiedi a Spiros di non essere toppo gentile, d’accordo? Fate credere al tipo che intendo fargli capitare cose peggiori di quelle che si è mai sognato, a meno che lui non mi convinca del contrario”.
Passò la lancia a uno degli opliti e si avviò verso la casa del capo del villaggio.
L’uomo era lì, incredibilmente, un uomo ossequioso, sudato, con la camicia sporca che gli stava tanto tesa sulla pancia che il ricamo a spirali rosse sembrava pronto a saltar via. Creone congedò l’uomo con un gesto della mano; quasi non vide la donna e i bambini accalcati nel vano della porta, fino a quando il grasso villico non li condusse via con sé.
Creone si sedette a un tavolo. Senza Artagora e senza Aidea, perduti nella battaglia, sapeva troppo poco di quelle terre e riguardo ai Valdacli del nord, gli avversari. Le richieste che aveva fatto agli abitanti dei villaggi avevano riscontrato solo silenzio. Creone non aveva simpatia per il popolo dei Valdacli, e il sentimento era ricambiato con gli interessi. Tutto quello che sapeva sui movimenti dei soldati di Valandor lo aveva sentito da uomini come quelli che stavano là fuori. Una plebaglia sprezzata e sconfitta che parlava, sudando e con gli occhi sgranati, di spiriti Elfi che entravano in battaglia cavalcando tanto dei mostri quanto dei cavalli, individui che combattevano con dei mostri al loro fianco, e che avevano delle donne con sé per aprire il suolo sotto i piedi dei nemici e per farli stritolare dagli alberi.
Un rumore di stivali lo spinse a indossare un ghigno da lupo, ma Marceto non era accompagnato da Spiros. L’oplita al suo fianco, schiena tesa e l’elmo sotto un braccio, era Rodes, che Creone si aspettava fosse a centinaia di leghe da lì. Sopra l’armatura, il giovane indossava un mantello di foggia Umbareana, bordato di blu, non il manto rosso di Artagora.
“Spiros sta parlando a un ragazzo, arconte” disse Marceto. “Rodes è appena arrivato a cavallo con un messaggio.”
Creone fece cenno a Rodes di iniziare.
Il giovane non si distese. “Con i complimenti di Athanasios” cominciò a dire guardando dritto avanti a sé “che guida la mano di Hathor in …”
“Non ho bisogno dei complimenti del filosofo Athanasios” ringhiò Creone, e vide l’espressione sbigottita del ragazzo. Rodes era ancora troppo giovane. In ogni caso, anche Spiros sembrava a disagio. “Adesso mi darai il suo messaggio, vero? Non parola per parola, a meno che io non te lo chieda. Dimmi solo che cosa vuole.”
Il messaggero, che si era preparato a recitare la sua parte, deglutì prima di cominciare. “Arconte, Athanasios… dice che ti stai spostando troppo a nord e troppo vicino a Valandor Hamina. Dice che gli uomini di Gondor nella piana di Maldor devono essere sradicati e tu devi – chiedo scusa, arconte – devi tornare indietro subito e marciare verso il cuore della pianura. Dice che Ostelor può essere salvata e che tu puoi raccogliere le forze necessarie mandando staffette al Passo Fiammanera”. Rimase rigido, in attesa.
Creone lo studiò. Il fango delle paludi imbrattava anche il viso di Rodes, oltre agli stivali e al mantello. “Vai a mangiare qualcosa” gli disse. “Ci dovrebbe essere dell’acqua per lavarsi in una di quelle case, se vuoi. Torna da me prima dell’alba. Avrò dei messaggi da farti consegnare”. Con un gesto della mano, lo invitò a uscire.
“Il filosofo potrebbe avere ragione, arconte” azzardò Marceto una volta che Rodes se ne fu andato. “Ci sono molti villaggi sparsi per la pianura, e i soldati di Gondor …”
Creone sbatté le mani sul tavolo e lui s’interruppe. “Quali soldati di Gondor? Non ho visto nulla in nessuno dei villaggi che Athanasios ci ha ordinato di prendere, nulla tranne contadini e artigiani preoccupati che noi bruciassimo i loro mezzi di sostentamento, e alcune vecchie che badavano ai malati”. La faccia di Marceto era completamente priva d’espressione; era sempre stato più propenso di Creone a vedere uomini di Gondor ovunque. “E i bambini, Marceto? Anche i bambini qui diventano nemici?”
“Le colpe dei padri si tramandano fino alla quinta generazione” citò Marceto. Però sembrava a disagio. Neanche lui aveva mai ucciso un bambino.
“Ti è mai venuto in mente, Marceto, di chiederti perché Athanasios ha tolto di mezzo le nostre armi e ha privato dei loro mantelli gli uomini comandati direttamente dalla capitale? I suoi stessi opliti hanno smesso di indossare il rosso. Non ti suggerisce niente?”
“Avrà le sue ragioni, arconte” rispose piano Marceto. “I filosofi hanno sempre le loro ragioni, anche quando non le spiegano.”
Creone si ricordò che Marceto era un buon soldato.
“Gli opliti che si trovano a nord indossano i mantelli di Ar-Venie, Marceto, e quelli a sud hanno mantelli umbareani. Non mi piace ciò che questa manovra suggerisce. Ci sono nemici qui, ma si trovano nelle corti dei principi, non nella piana. Quando Rodes andrà via, non lo farà da solo. I messaggi dovranno arrivare a tutti i nostri che so come raggiungere. Non andrò a Ostelor. Ho intenzione di guidarvi a casa, Marceto, e vedere che cosa stanno combinando i veri amici dell’Ombra.”
[size=2]Liberamente tratto da "La Grande Caccia" di Robert Jordan[/size]
La città di Brilthor sorgeva fra le due rive dell’omonimo fiume, ai piedi di Dol Beleg e dei passi, e all’imboccatura della Grande Carovaniera Ovest. Il Brilthor non era un gran fiume, e non lo era neppure la città; la prima volta che Loras e la compagnia che guidava la videro fu dalle colline a sud, sotto la luce del sole di mezzogiorno. Borgil e Nirien, gli elfi mandati con loro da Eäromä, gli sembravano ancora impegnati a fare la guardia su di lui e su Maité – ancora di più da quando avevano oltrepassato il ponte sul Siresham; erano diventati sempre più rigidi mano a mano che si dirigevano a est. Ma Maité e Niara non parevano turbate dalla cosa, quindi lui provava a fare lo stesso.
Studiò la città; niente di tale. Grandi barche e larghe chiatte riempivano il fiume, e c’erano alti granai sparsi lungo le rive e mulini, ma Brilthor sembrava disposta in una griglia precisa dietro le sue alte mura grigie. Queste stesse mura formavano due quadrati perfetti, fiancheggiando il fiume su entrambe le rive. Secondo uno schema altrettanto preciso, le torri si elevavano all’interno delle mura, rispetto alle quali erano piuttosto alte, eppure anche dalla collina Loras poteva vedere che ognuna terminava con la punta merlata. Una fortezza dei Valdacli, fatta costruire da Imrazor Terzo.
Al di fuori della cinta muraria, circondandola da riva a riva, c’era un labirinto di stradine, che s’incrociavano a tutti gli angoli possibili ed erano brulicanti di gente. Il Passaggio Anteriore, Loras sapeva che la porta del lato occidentale si chiamava così, glielo aveva detto Tara; una volta c’era stato solo un villaggio mercantile davanti a ogni porta della città, ma durante gli anni si erano uniti per diventare un unico miscuglio di strade e vicoli che si snodavano in ogni direzione. Gli elfi erano nervosi; l’idea di attraversare una città aveva già sollevato molte discussioni, e per ora Tara aveva acconsentito a lasciare Maité, Nirien e Niara in un vicino boschetto, con Ardic, mentre assieme a Loras e agli altri cercava informazioni. Eppure, non c’era altra via, a meno di non abbandonare la strada e valicare i primi passi avventurandosi per i sentieri di montagna: avevano bisogno di riposo, di provviste e di una guida. Per quanto Tara e Borgil avessero già percorso la Carovaniera tornando dall’Harad, l’avevano fatto nella direzione contraria, seguendo un percorso diverso; Tara ricordava quanto fosse insidioso e non aveva intenzione di rischiare inutilmente i loro cavalli e le loro vite. E senza cavalli, solo gli elfi sarebbero giunti a Ny Chennacatt in tempo.
Lentamente, Indur e Borgil si aprirono un varco in mezzo alla folla, gridando e spingendo avanti i cavalli come se volessero travolgere chiunque non si facesse da parte abbastanza in fretta. La gente si scansava senza lanciare ai forestieri più di uno sguardo, nemmeno all'elfo, come se fossero tutti abituati alla scena.
Gli abiti della gente del Passaggio Anteriore erano logori, ma quasi tutti molto colorati, e un rumoroso ribollire di vita animava quel posto. La maggior parte delle costruzioni sembrava di legno, anche le più alte; parecchie erano realizzate in maniera rudimentale, e Loras rimase a bocca aperta quando vide alcuni edifici che avevano quattro piani e anche più; ondeggiavano leggermente, anche se la gente che entrava e usciva sembrava non farci caso. I mercanti pubblicizzavano le loro merci, e i negozianti chiamavano la gente per mostrare i beni sistemati sui banconi davanti alle loro botteghe. Tra la folla vagavano contadini, arrotini, armaioli, mercenari, uomini e donne che offrivano dozzine di cose differenti e qualsiasi merce in vendita. La musica giungeva confusa da più di una locanda.
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“Bifolchi” borbottò Indur, lo sguardo disgustato fisso davanti a sé. “Guardali, corrotti dai modi degli stranieri. Sono Valdacli; non dovrebbero essere così. Non dovrebbero essere qui.”
“E dove?” chiese Tara. Indur la fissò, spronando leggermente il cavallo per evitare un ostacolo. “Alla guerra”, rispose lui, freddo. “A combattere per i loro signori.”
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“Tutto questo è successo proprio a causa della guerra, Indur”. Si guardò attorno per assicurarsi che nessuno fosse abbastanza vicino da poter sentire. “Questi uomini non sono soldati. Molti dei contadini hanno paura di tornare nelle loro terre, nella piana di Maldor o nel Miredor, e sono venuti tutti qui, o nei dintorni. Per questo il fiume è pieno di chiatte per il grano che, per ordine di Ardamin, vanno e vengono da tutta la regione. Non c’è raccolto che provenga dalle fattorie dell’ovest quest’anno, perché lì non ci sono più contadini. Meglio però non parlarne a questa gente, Indur. A loro piace pensare che la guerra non sia mai stata dichiarata, o quanto meno che i Valdacli l’abbiano vinta.”
Giunti all’architrave quadrato della porta della città, Tara si fermò e smontò da cavallo accanto a un tozzo edificio in pietra appena dentro le mura. Aveva delle feritoie per gli arcieri al posto delle finestre e una pesante porta con bande di ferro. “Loras”, disse dopo aver avvolto le redini a un palo di legno, “vai ad annunciare al corpo di guardia che viaggiatori di … Arpel, il sire Indur e il suo seguito, desiderano attraversare la città e proseguire lungo la Carovaniera.”
La Brilthor vera e propria era in netto contrasto con il trambusto caotico del Passaggio Anteriore. Ampie strade lastricate, larghe come a Ostelor. Cortili sufficientemente spaziosi da far sembrare che ci fossero più persone di quante ce n’erano in realtà. I carri procedevano lenti. La gente, in abiti scuri, si muoveva in silenzio, e non si vedevano colori vivaci. Gli edifici erano tutti di pietra, e le decorazioni erano composte da linee dritte e angoli netti. Non c’erano mercanti per le strade, e anche le botteghe sembravano più tranquille, con insegne piccole e nessuna mercanzia in mostra all’esterno.
Adesso Indur poteva vedere meglio le grandi torri. Erano circondate da molte travi. “La Rocca Invincibile di Brilthor” mormorò Tara con tristezza. “Be’, una volta poteva meritarsi questo nome. Quando le armate del Drago presero la città, più o meno cent’anni fa, le torri furono bruciate, vi si aprirono delle crepe. Gli Easterling avrebbero potuto sciamare nella pianura, i Valdacli erano disuniti. Eppure, il Drago non venne a ovest.”
Loras uscì dall’edificio trascinandosi dietro un ufficiale e uno scribacchino che portava un libro con la copertina di legno e l’occorrente per scrivere. L’ufficiale era un Adena, dalla fronte rasata; Loras lo presentò come Asan Sandair, poi annunciò ad alta voce: “Il signore Indur di Arpel, e altri suoi uomini e servitori, con Tara di Ostelor”.
Tara strinse gli occhi, senza dire niente. Lo scribacchino aprì il suo libro tenendolo bilanciato sulle braccia e Sandair scrisse i nomi con una grafia arrotondata.
“Dovrete uscire dall’altra porta entro tre giorni, prima del buio” disse Sandair, lasciando che lo scribacchino asciugasse l’inchiostro con la sabbia, “e dovete pagare un mezzo d’argento per ciascuno, e dirmi il nome della locanda dove prenderete alloggio.”
Artagora era pensieroso.
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Fissava il debole fuoco del bivacco e la luce delle fiamme faceva risaltare la sua fronte aggrottata. Troppe cose erano successe e troppo in fretta e, come al solito, si sentiva come una foglia portata dal vento.
Aveva pensato più volte di uccidere Tara prima che questa si ripresentasse, e quando era riapparsa dallo sfacelo di Alsaris aveva una storia convincente e plausibile da raccontare, una storia che tranquillizzava la pulsione di Artagora verso tutto quello che poteva dare un senso all’insensato.
Come sempre.
A volte desiderava abbandonarsi ad un istinto violento ma la sua coscienza lo bloccava, lo riconsegnava ad un’idea di un cosmo regolato da leggi comprensibili e non da emozioni violente.
Come sempre.
“Maledetto me e tutta la mia filosofia...”Li in mezzo a quella variopinta compagnia si sentiva poco tranquillo. Gli elfi erano un popolo che sentiva sempre più lontano dalle sorti di questo mondo e di questo tempo e Loras, per quanto fidato, sembrava troppo legato a quelle due inquietanti presenze a cui si era prestato come guida. Tutti gli altri poi, sembravano poco consapevoli di quello che accadeva. Rimaneva Indur, solido…di una parola sola….si, di lui si poteva fidare.
E poi c’era Tara. Sapeva molto ma diceva il giusto, quello che riteneva il giusto…..Ma d’altra parte questo era lo stile di casa Eshè. Ma se lo aveva accettato da Ar Veniè perché non lo accettava anche da lei? Forse perchè di Ar Vnié voleva fidarsi….non poteva far altro che fidarsi.
Aver fatto partire Aidea e i due opliti, per quanto Tara avesse detto che per questo viaggio più si era meglio era, lo faceva stare più tranquillo. Non gli era mai piaciuto prendere decisioni per altri. Soprattutto quando significava andare in bocca al destino.
Sfiorò con le dita il sacchetto di cuoio cerato che portava al collo, dove proteggeva il salvacondotto di Ar Veniè, era incredibile che l’unico ricordo che gli rimaneva di lei fosse un documento ufficiale, ma forse era coerente con lei., dato che aveva deciso di caricare sulle sue spalle il pesante fardello del destino della sua città.
Prese un ramoscello sottile e ne affilò la punta con un coltello. Poi, se la passo fra le labbra e subito dopo, ancora inumidito, lo passò nella cenere.
Poi si strappò un piccolo lembo dell’orlo già malridotto della sua veste e scrisse alcune parole nella sua lingua natale.
Lo tenne per un attimo stretto in pugno e poi lo buttò nel fuoco.
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Hamac
Al piano superiore, Hamac terminò di esaminare i letti. Solo alcuni avevano ancora il materasso, e quelli rimasti erano così mal ridotti da fargli pensare che forse sarebbe stato più comodo, per gli ospiti, dormire per terra. Alla fine cominciò a preparare un letto il cui materasso era solo affossato nel centro. Non c’era altro nella stanza, se non una sedia di legno e un tavolo con una gamba traballante.
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Aidea
Nella sala comune, accanto al fuoco, protetta da un telo, Aidea si tolse gli abiti bagnati, indossando una camicia e delle brache asciutte che Nìn le aveva portato. Con ironia, pensò che la sola cosa che avrebbe potuto usare per coprirsi, mentre cavalcavano sulla strada per la locanda, era il vestito ricamato che aveva portato da Parga per incontrare Ar-Venie; eppure l’aveva lasciato chiuso al sicuro nella bisaccia. La pioggia tamburellava sul tetto, il tuono rombava sulle loro teste, e di tanto in tanto un fulmine lampeggiava alle finestre. Polydamas aveva preferito rimanere con i cavalli, nelle stalle; Soterios stava nell’angolo, assorto e altrettanto infreddolito. Rabbrividendo, Aidea raccolse gli abiti e li stese ad asciugare accanto al camino, poi piegò il telo e lo preparò per Nìn. Oltre a loro, nella locanda c’era un solo viaggiatore; erano arrivati assieme. E il locandiere e la figlia non erano parsi felici della sua presenza. ‘Forse’, pensò Aidea, ‘ho fatto uno sbaglio’.
Hamac si girò al rumore, e vide Oric in piedi vicino alla porta. La stanza in quel punto sembrava più scura, come se il vecchio fosse ai margini di una nuvola di fumo oleoso.
“Il momento si avvicina, Hamac. Ma tu sei legato a un giuramento; sei su un cammino che non potrai cambiare. Obbedirai anche stavolta?”Hamac diede un’occhiata alla porta, ma non fece alcuna mossa, si limitò a mettersi seduto su un lato del letto. A che cosa serviva discutere?
“Io non obbedisco più a nessuno, assassino di donne. Perché sei tornato?” disse rauco.
Oric rise. “Tu mi onori. E sminuisci te stesso. Ti conosco fin troppo bene. Abbiamo combattuto assieme mille volte. Mille volte. Ti conosco fino alla tua miserabile anima, Hamac”. Oric rise di nuovo; Hamac si mise una mano davanti al viso.
“Che cosa vuoi? Non ti servirò. Non farò nulla di quello che desideri. Kiryazis tornerà presto, Oric.”
“E morirà, Hamac! Così come gli altri, tanto stupidi da accompagnarmi qui. Sciocco, a cosa ti è servito scappare, nasconderti? Non ci sarà mai pace per te, non ci sarà perdono per quello che hai fatto! Hai lasciato scappare l’Elfo, ma non importa, la ritroverò. Ho pazienza. Hai cavalcato alla testa dei tuoi, sul passo, non ti sei tirato indietro; adesso che hai provato di nuovo la battaglia, Hamac, cosa sceglierai? Una morte lenta, una fine da contadino? O di nuovo la battaglia … e il potere?”
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Oric
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Nirien scivolò rapida lungo il fianco scosceso della riva, accostandosi al torrente, e iniziò ad attraversarlo. Si sarebbe messa a correre, se la via fosse stata meno accidentata. Non smise di tremare neppure quando fu fuori dall’acqua; era vicina, e la sensazione di pericolo l’invadeva ogni momento di più.
“Finalmente sei venuta.”
Nirien si girò di scatto. Le parole in Archaric, la voce … per un istante credette che fossero servi dell’Ombra. Ma i due elfi che sbucarono dagli alberi, col viso nascosto dal cappuccio, erano Maité e Niara.
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“Perché fate questo?” L’atteggiamento di Nirien, mano sul pugnale che portava alla cintura, era prudente.
“Perché tradisci il tuo sangue, Maité? Dov’è Elendil? Se cercate …”
“Non cerco niente. Non m’interessa nulla di ciò che tu o il tuo misero re possiate possedere. Ciò che seguivo è già con me”. Con la mano, Maité indicò Niara; Nirien arretrò d’un passo e sgranò gli occhi. “Una dei Primi Nati. Ora è tutto così chiaro. Elendil e lei, ecco perché … “. Nirien si eresse in tutta la sua statura, e all’improvviso parve alta quanto una montagna. La voce risuonò come un rintocco di campana.
“Chi sei, Maité?”
Maité gettò indietro il cappuccio. Lasciò scivolare lo sguardo verso Niara; lei abbassò l’arco, e si sedette per terra, sotto un albero. “Io sono Elenwé Tesarath” disse Maité, “e lei è Rilien Feanwe. Da tempo ha smesso di parlare, e non ricorda più i giorni felici. Ma ora è con me.”
“La Luce mi protegga”, disse Nirien con voce tremante. “Ardor è caduta, e i suoi Signori non sono più.”
“E’ caduta, sì.” Maité sorrise: i suoi denti bianchissimi parevano zanne. “Ma alcune di noi sono libere. Abbiamo camminato nel mondo, in cerca di speranza; ci hanno chiamate, e abbiamo sentito. Eravamo troppo vicine a questo mondo di Uomini, nella nostra ricerca, e forse di tutta Tesarath io sola sono rimasta; presto però Feanwe ricorderà e ci darà nuova vita e le cose che abbiamo perduto saranno di nuovo nostre. Stavolta non ci sarà nessun Signore Oscuro a combatterci. Nessun Valdaclo mosso dall'Ombra. Ora abbiamo una nuova regina e non ci serve altro.”
L’aria attorno a Nirien prese a tremare, e a brillare leggermente. Niara saettò in piedi, l’arco teso e la freccia incoccata, con un movimento troppo rapido perché Niara riuscisse a seguirlo. Eppure la giovane selvaggia esitò, con lo sguardo che guizzava su Nirien, su Maité; l’esitazione durò solo un istante, ma quando Niara puntò l’arco verso l’incantatrice di Valagalen, Nirien sollevò la mano. Fu solo un gesto sprezzante, uno schiocco delle sue dita, ma Niara volò all’indietro, come colpita da una mano gigantesca. Con un tonfo sordo urtò l’albero con la schiena e rimase sospesa a mezz’aria per un istante, prima di cadere in un basso cespuglio, con l’arco abbandonato vicino alla mano protesa.
“No!” gridò Maité.
“Ferma!” ordinò Nirien. “Io non ti farò del male …”
Ma prima che potesse finire la frase, Maité protese fulminea la mano verso di lei. “La Luce dei Valar t’incenerisca!” gridò, evocando quella stessa luce e vibrando un colpo diretto al viso di Nirien, che l’investì provocandole un livido nella carne pallida. Nirien fu scossa da convulsioni, come se fosse stata sfiorata da un fulmine. Lasciò cadere dalle dita inerti il pugnale, mentre con il potere che aveva evocato Maité la sollevava a mezz’aria prima di lasciarla cadere pesantemente sulle pietre.
“Avevo quasi dimenticato questa sensazione” disse Maité; il suo viso era una maschera d’ilarità e di furia. “Non dovevi colpire Feanwe. Se imparerai a umiliarti come si deve, forse ti lascerò vivere.”
Nirien si sollevò sulle braccia; fissava il bosco come se non l’avesse udita, boccheggiando. Poi inspirò con forza, guardò Maité con indifferenza … e sorrise.
Maité sentì l’aria muoversi intorno a lei come per lo schiocco di una frusta gigantesca; una muraglia di rovi l’avvolse stracciandole la veste e straziandole le carni, e gridò. Nirien si tirò rapidamente in piedi. Forse non poteva sconfiggere Maité e Niara, ma neppure per un istante avrebbe dato l’impressione di prostrarsi davanti a loro. “Non vincerai mai, Elfo Scuro! Questo non è posto per te. Qui non farai del male a nessuna creatura vivente. T’insegnerò a rispettare il popolo di Eäromä.”
Maité le scoccò un’occhiata carica di dolore ma sprezzante. I rovi avvamparono e si trasformarono in cenere, che turbinò attorno a lei. Il vento sospirò tra i rami di quercia; Maité sollevò la testa e l’odio le ardeva negli occhi scuri.
“Sparisci, Nirien! Quelli della tua razza sono soltanto dei selvaggi. Vivi con loro la vita che ti rimane e ritieniti fortunata perché di voi non ci accorgiamo nemmeno!”
La terra rombò e una pianticella di quercia si aprì la strada verso Maité. Radici si protesero e s’ingrossarono, conficcandosi nel terreno e risollevandosi; Maité si spostò rapida, protendendo le mani, e dovunque quelle mani toccavano scaturivano fiamme, tralci avvizzivano, foglie cadevano, mentre un fumo denso scaturiva dalle piante incenerite dal fuoco, eppure l’attacco di Nirien non si fermava.
“Basta!” gridò Maité. “E’ già passato il momento di porre fine a questa storia!” Alzò la mano e il terreno si aprì sotto i piedi di Nirien. Fiamme ruggirono dal baratro, alimentate da un vento che soffiava da ogni direzione, e risucchiarono nel fuoco un turbine di foglie che parve solidificarsi in una gelatina gialla striata di rosso, composta di puro calore. Nel centro c’era Nirien, sostenuta solo dall’aria. L’incantatrice parve sorpresa, ma poi sorrise ancora e avanzò d’un passo. “Si, Elfo Scuro” replicò con voce fredda come il ghiaccio del profondo inverno. “E’ già passato!”
Le radici delle querce saettarono verso Maité; prima di colpirla, si mutarono in polvere, ma altre sorsero dal terreno e gli alberi stessi presero a muoversi verso di lei. Le fiamme circondarono ancora Nirien e il suo mantello aveva preso fuoco in vari punti; ma camminava lentamente, verso il bordo del baratro ardente, come se avesse a disposizione tutto il tempo del mondo.
Davanti a lei, Maité cominciò a urlare.
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[SIZE=2]L’intero bagaglio che portava rovinò assieme a lei nella caduta, l’acqua dell’otre le si rovesciò addosso e qualcosa la colpì in testa. Poi Tara urtò nel buio la radice di un albero con il fondoschiena, poi un’altra e un’altra ancora, graffiandosi le mani e le gambe nel tentativo di fermarsi, fino a quando, rotolando senza controllo, non sbatté forte contro un albero intero, rimanendo senza fiato. [/SIZE]
[SIZE=2]Si rimise in piedi con fatica; il braccio ferito le doleva, e aveva preso un colpo al fianco. Gli orchetti strillavano spaventati a causa dei rumori improvvisi, della confusione e degli avversari inattesi, ma non smettevano di agitare i loro coltellacci con i puntali e le spade dalle lame ricurve come falci. Sentì Artagora che la chiamava; era vicino a lei, e cercò di risalire il pendio, imprecando e maledicendo sé stessa per essere scivolata in quel modo. [/SIZE]
[SIZE=2]All’improvviso Tara vide Indur che usciva con fare sicuro dal folto della macchia, a metà strada da lei nella conca, e tutti gli altri pensieri l’abbandonarono. Indur si lanciava contro gli orchetti, portandosi verso quello più vicino a lui senza timore, per affrontarlo ed abbatterlo. La luce era poca, ma Tara intuiva l’orrore e il disgusto sul volto del giovane guerriero mentre colpiva la prima di quelle creature dell’Ombra; gli Orchetti erano pochi, solo tre, e Loras era vicino a lui, pronto ad aiutarlo, eppure Tara d’improvviso ebbe paura.[/SIZE]
[SIZE=2]“Nasconditi!” gli gridò Tara. “Torna indietro e nasconditi!” Il crescente fragore del combattimento e altre grida ingoiarono le sue parole. Gli corse incontro. “Nascondetevi, Loras, Indur! Per amor del cielo, nascondetevi!”[/SIZE]
[SIZE=2]Un secondo Orchetto si avventò contro Indur. Una cotta di maglia nera con gli spuntoni, a pezzi e assolutamente inefficace, lo copriva dalle spalle fino alle ginocchia, e si muoveva su delle specie di zampe con artigli mentre menava fendenti con una crudele spada curva e uncinata. Puzzavano anche a quella distanza, di sudore, sporcizia e sangue. Indur si accovacciò per schivare il fendente; l’essere lo superò di poco e sferrò un colpo all’indietro, in modo quasi casuale, e Indur si accasciò.[/SIZE]
[SIZE=2]“No!” gridò Tara. “Indur, no!” I sassi le schizzavano da sotto le scarpe, mentre correva; lei non sentiva più il dolore. “Induuurr!”[/SIZE]
[SIZE=2]Loras resisteva mentre uno degli Orchetti, col muso caprino, lo colpiva con un’ascia chiodata, impugnandola con entrambe le mani; l’altro era ancora sopra Indur. ‘Loras è coraggioso’, pensò; Tara sapeva che doveva essere spaventato a morte, ma l’urgenza superava la paura. La sola cosa che importava era raggiungere Indur; Tara non sapeva dove l’avevano colpito, se stava morendo o se era solo ferito. Corse ancora, incespicando, di nuovo giù per il pendio.[/SIZE]
[SIZE=2]“Siete stati avventati!” gridò, lanciando contro gli Elfi una manciata di terra e foglie. Borgil e Nirien la guardarono, senza capire, senza sapere che cosa dire. “Avete fallito! Avreste dovuto fare qualcosa, fare qualcosa …” [/SIZE]
[SIZE=2]“Calmati, Tara”. Artagora era lì, in piedi, due passi più in alto rispetto a lei. E la fissava con una tale espressione sul volto che Tara poteva a malapena sostenere il suo sguardo. Poco distante, Ardic assisteva i feriti.[/SIZE]
[SIZE=2]“Non mi compatire!” ringhiò lei. “Indur non doveva morire così! Non … così“.[/SIZE]
[SIZE=2]Gli occhi le si riempirono di lacrime, e si gettò a sedere vicino al corpo dell'amico. I graffi le bruciavano, poteva sentire la sensazione umida del sangue. “Avrei dovuto aiutarlo … salvarlo”, disse. ‘Avrei dovuto fare qualcosa per lui … qualcosa!’ si disse. Ma con Indur che la fissava con il suo sguardo senza più luce, anche pensare era uno sforzo.[/SIZE]
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Artagora era esausto.
Avevano sepolto i morti e curato i feriti. Poi si erano messi in cammino alle prime luci dell'alba e avevano marciato quel poco che bastava èer raggiungere un riparo sicuro dove riposare senza timore di ulteriori attacchi. Una volta arrangiato un bivacco avevano mangiato una piccola cosa ed erano crollati esausti. E tutto questo era avvenuto in un pesante silenzio.
Avevano segnato la posizione dove erano state sepolte le povere spoglie di Indur, nella speranza , alla fine di questo viaggio. di poter recuperare le sue spoglie terrene e dare loro una sepoltura degna del suo lignaggio.
Tara, dopo gli improperi nei confronti degli inconsapevoli elfi era stata silenziosa e tesa. Durante il cammino Artagora aveva più volte posato il suo sguardo su di lei, scoprendo la maggior parte delle volte il bel volto solcato dalle lacrime.
"Forse sono stato troppo duro...." Aveva pensato, per poi realizzare che in quel momento non era certo il caso di lasciarsi andare alla rabbia e ai rimorsi, bisognava lasciare il punto dove avevano avuto lo scontro con gli orchi e farlo in fretta. senza nervosismo.
Lui invece aveva aspettato di essere seduto davanti a un pallido fuoco per piangere l'amico scomparso, silenziosamente e senza emettere alcun fiato.
Quello che provava Tara ora lo capiva.....Ancora una volta vedeva le persone che aveva considerato famiglia svanire....una dopo l'altra. Ora gli rimanevano solo Tara e Arakhon, e sentiva ancora una volta il suo mondo farsi sempre più piccolo.
Guardò Tara e per la prima volta le vide addosso a curvarle le spalle un pesante fardello fatto di un lungo periodo di rischi e fatiche, di inganni e sotterfugi….Un fardello che si era portata dietro per tutto quel tempo e tutte quelle leghe percorse in nome della fedeltà alla famiglia Eshè anzi, della appartenenza alla famiglia Eshè.
Improvvisamente provava una grande compassione per lei.
Si alzò per andare a sedersi accanto a lei.
Tara era immobile e non reagì in alcun modo alla suapresenza.
Le poso delizatamente una mano sulla spalla
“La famiglia non è perduta….presto ritroveremo Arakhon e, se me lo concedete, avete la mia amicizia.”
Imàn ed i suoi compagni ascoltavano attentamente, ma nessun suono giungeva più dal sentiero alle loro spalle: “Si direbbe che lo scontro sia terminato” disse Mansour… “Già, ma chi avrà vinto?” proseguì Husaìn… All’improvviso, portato dal vento, un lamento giunse alle loro orecchie: una voce di donna che urlava parole che loro, a quella distanza, non riuscivano a comprendere ma, ad ascoltare bene, la voce esprimeva rabbia, non paura.
“Andiamo a vedere, forse avranno bisogno di aiuto.” Disse Imàn, mettendo il suo cavallo al passo e sganciando la sua lama dal fodero. Mansour stava per obiettare, ma si morse la lingua: aveva capito che la ragazza sentiva la responsabilità di aver involontariamente attirato la banda di orchetti addosso a dei viaggiatori impreaparati a riceverli.
Motjaba, che solo la fortuna aveva salvato da un’imboscata di un orchetto, ancora spaventato, balbettò: “E’… proprio… necessario?” Gli risposeMansour: “Non temere amico! Se quelle immonde creature avessero vinto, sentiremmo ora ben più distintamente il loro orrendo gracchiare!” Motjaba strinse i denti, si raddrizzò sulla sella ed annuì.
Husaìn spronò il proprio cavallo davanti ad Imàn ed i quattro, le armi in pugno, ripercorsero al contrario il sentiero, seguendo sempre la voce di donna la quale, adesso, ogni tanto era rotta da singhiozzi di pianto, finchè avvistarono la luce di alcune torce e le carcasse di alcuni orchetti sulla strada, trafitti ciascuno da due o tre frecce. Imàn trasalì: aveva già visto quel particolare tipo di frecce!
Mansour reagì all’improvviso gemito della ragazza, gesticolando per raccomandarle il silenzio poi, rinfoderando la sua arma, si rivolse verso un anfratto nel quale il suo sguardo attento aveva percepito un movimento ed esclamò: “Ehi, laggiù! Serve aiuto?”
[SIZE=2]A Tul Harar, nel Grande Harad, estate dell'anno 75[/SIZE]
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[SIZE=2]Si trovava, come di consueto, in un lungo corridoio. 'Come di consueto'. Questa volta, però, non aveva cercato il sogno; l’ultimo pensiero prima che il sogno giungesse era stato che, se qualcosa avesse potuto impedirgli di dormire profondamente e fare sogni pericolosi, sarebbe stato quel materasso. [/SIZE]
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[SIZE=2]Non aveva cercato il sogno, e proprio per questo aveva paura. Gli alti soffitti e le pareti di pietra rilucevano a causa dell’umidità ed erano segnati da strane ombre. Ombre che si snodavano in strisce contorte, terminando all’improvviso come iniziavano, troppo scure per la luce che c’era fra di loro.[/SIZE]
[SIZE=2]“No” disse, quindi più forte: “No! Questo è il sogno. Devo svegliarmi. Svegliarmi!”[/SIZE]
[SIZE=2]Il corridoio non cambiò.[/SIZE]
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[SIZE=2]Pericolo. [/SIZE]
[SIZE=2]Era il pensiero di un altro sognatore, debole e distante.[/SIZE]
[SIZE=2]“Mi sveglierò. Ora!” Con quel pensiero sferrò un pugno alla parete. Si fece male, ma non si svegliò. Gli sembrò che una delle ombre sinuose si fosse spostata a causa del colpo.[/SIZE]
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[SIZE=2]Ciryaher. Ciryaher. Ciryaher.[/SIZE]
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[SIZE=2]“Chi mi cerca?” chiese Ciryaher meravigliato. Era sicuro di conoscere la fonte dalla quale provenivano quei pensieri. Il rubino. Ar-Venie, che invidiava le aquile. “Ar-Venie è morta!”[/SIZE]
[SIZE=2]Ciryaher.[/SIZE]
[SIZE=2]Scappa![/SIZE]
[SIZE=2]Ciryaher.[/SIZE]
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[SIZE=2]“Chi c’è?” Ciryaher si lanciò in una corsa traballante, con una mano a tener stretta una chiave d'argento e l’altra a reggere la spada affinché non gli battesse sulla gamba. Non aveva idea di dove stava correndo, o perché, ma la sensazione di urgenza che aveva percepito non poteva essere ignorata. ‘Ar-Venie è morta’, pensò. ‘E’ morta! Hanno preso il rubino’ . Scappò.[/SIZE]
[SIZE=2]Altri corridoi incrociavano quello che stava percorrendo, a strane angolazioni, a volte in discesa, a volte in salita. Nessuno sembrava diverso da quello in cui lui correva. Pareti di roccia umida senza porte, e strisce di oscurità.[/SIZE]
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[SIZE=2]Quando giunse a uno dei tanti incroci, Ciryaher slittò fino a fermarsi. C’era un uomo in piedi, che lo guardava con fare incerto e indossava abiti dalla strana fattura. Anzi, non un uomo: un Elfo. Uno dei Luminosi, forse. Alto e fiero. La giubba era svasata sui fianchi, e il bordo delle brache si allargava sugli stivali. [/SIZE]
[SIZE=2]“Chi sei?”, chiese Ciryaher. Poi, di colpo, capì. Le strisce d’ombra attorno a loro si contorsero. “Tradimento!” urlò, e fuggì di nuovo, mentre lo sconosciuto Elfo svaniva, mentre la sua immagine scattava verso l’alto, verso il nulla, divorata da fiamme furibonde. Tutto sembrò accadere nello stesso tempo. Una striscia d’ombra si staccò in parte dal soffitto e discese rapida verso di lui, sfiorandogli di poco la testa, e Ciryaher vide gli occhi fiammeggianti di Athair, le ombre gli danzavano attorno. [/SIZE]
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[SIZE=2]Scappò, inseguito da grida di morte. Le strisce d’ombra furono percorse da una serie di increspature, e tennero il passo con lui.[/SIZE]
[SIZE=2]“Che tu sia folgorato, cambia!” urlò Ciryaher, mentre Athair lo raggiungeva. “Lo sapevo che eri tu! Lo so che sei solo un sogno! Maledetti tutti gli Elfi e la loro magia! Cambia! Nel nome di Elbereth, cambia!”[/SIZE]
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[SIZE=2]Arazzi colorati pendevano sulle pareti fra alti candelieri dorati, con dozzine di candele che illuminavano il pavimento di mattonelle bianche e un soffitto dipinto di nuvole vaporose e uccelli insoliti e stupendi. Nulla si muoveva tranne le guizzanti fiammelle delle candele in tutto il corridoio, fin dove Ciryaher riusciva a vedere, o sotto gli archi appuntiti di pietra bianca che di tanto in tanto interrompevano le pareti. Era vestito per la corte a festa, con una lunga piuma sul cappello, i suoi strumenti e il suo mantello dalle pezze colorate. ‘Questo è più di quanto possa sopportare’, pensò.[/SIZE]
[SIZE=2]Pericolo. Il messaggio era più debole di prima. E, se possibile, ancor più urgente.[/SIZE]
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[SIZE=2]Impugnando il liuto, il bardo s’incamminò circospetto lungo il corridoio, borbottando fra sé. "Svegliati, svegliati, Ciryaher. Sai che si tratta di un sogno, cambialo o svegliati. Svegliati, che tu sia folgorato". [/SIZE]
[SIZE=2]Il corridoio rimase solido come tutti quelli che aveva percorso nella sua vita. [/SIZE]
[SIZE=2]Aveva sete. Mentre comprendeva, alla fine, ciò che aveva provato Arakhon nel suo sogno della città dalle mille guglie, giunse di fianco al primo arco. Si apriva su una grande stanza, in apparenza priva di finestre, ma arredata e decorata come quella di un palazzo, con i mobili tutti intagliati, dorati e intarsiati d’avorio. Al centro della sala c’era una donna, che osservava corrucciata un manoscritto lacero aperto su un tavolo e un piccolo specchio. [/SIZE]
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[SIZE=2]Una donna bellissima, con i capelli e gli occhi neri, vestita di bianco e argento. Un altro Elfo. Nello specchio, Ciryaher colse piccole figure in movimento, e per un attimo gli parve che una delle figure somigliasse ad Artagora. [/SIZE]
[SIZE=2]Mentre lui si rendeva conto di non conoscerla, la donna alzò la testa e lo guardò. Sgranò gli occhi, sorpresa e arrabbiata. “Chi sei? Cosa ci fai qui? Come hai fatto … Rovinerai cose che non puoi nemmeno immaginare!”[/SIZE]
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[SIZE=2]A un tratto lo spazio sembrò appiattirsi, come se Ciryaher stesse guardando il dipinto di una stanza. L’immagine piatta parve girarsi di lato, trasformandosi in una linea verticale, rilucente nel mezzo del buio. Lampeggiò bianca e scomparve, lasciando solo oscurità, più nera del nero.[/SIZE]
[SIZE=2]Direttamente davanti alle scarpe di Ciryaher, le mattonelle finivano all’improvviso. Mentre lui guardava, i bordi bianchi si dissolvevano come sabbia portata via dall’acqua. Fece velocemente un passo indietro.[/SIZE]
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[SIZE=2]Ciryaher si voltò e un grosso lupo era lì, nero e pieno di cicatrici. Il lupo balzò alla sua gola con i denti snudati. [/SIZE][SIZE=2]Con un urlo strozzato, Ciryaher si mise a sedere sul letto, portandosi le mani alla gola per trattenere il sangue.[/SIZE]
[SIZE=2]La sua voce la prese di nuovo e la trattenne come un cappio.[/SIZE]
[SIZE=2]“Volevo parlarti da sola. A quanto pare sei sempre negli appartamenti di Ar-Venie, o in compagnia.”[/SIZE]
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[SIZE=2]Le ci volle uno sforzo per girarsi verso di lui, ma era sicura che la sua espressione fosse calma, quando lo guardò. [/SIZE]
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[SIZE=2]“Sto cercando Arakhon”. Non avrebbe ammesso che lo stava evitando. “Ci siamo detti tutto quello che dovevamo, tu e io. Mi sono umiliata e coperta di vergogna – cosa che non farò di nuovo – e ti ho chiesto di andartene.”[/SIZE]
[SIZE=2]“Io non ho mai … “. Beraid fece un respiro profondo. “Ti ho detto che non ho nulla da offrirti come dono di nozze, se non altre umiliazioni. E abiti da vedova. Un regalo che nessun uomo dovrebbe fare a una donna. Nessun uomo che possa definirsi tale.”[/SIZE]
[SIZE=2]“Capisco” rispose lei con freddezza. “In ogni caso un nobile signore non fa regali a una serva della casa dov’è ospite. E questa serva non li accetterebbe. Hai visto Arakhon? Ho bisogno di parlargli. Doveva incontrarsi con Eshe Far. Sai che cosa voleva da lui?”[/SIZE]
[SIZE=2]Gli occhi del Dunadan sfavillarono come ghiaccio azzurro al sole. Lei irrigidì le gambe per trattenersi dall’arretrare, e lo guardò dritto negli occhi.[/SIZE]
[SIZE=2]“Che la peste si prenda Eshe Far ed Arakhon” imprecò Beraid, premendole qualcosa nel palmo di una mano. “Ti farò un regalo e tu lo accetterai, anche se dovrò incatenartelo intorno al collo.”[/SIZE]
[SIZE=2]Nielval distolse gli occhi da quelli di Beraid. Aveva lo sguardo come quello di un falco dagli occhi azzurri, quando era arrabbiato. [/SIZE]
[SIZE=2]In mano, lei si ritrovò un anello con sigillo, d’oro massiccio e consumato dagli anni, abbastanza largo per entrambi i suoi pollici messi insieme. Su di esso era incisa con molta cura una gru che volava sopra una lancia e una corona. [/SIZE]
[SIZE=2]Nielval restò senza fiato. Dimenticandosi dello sguardo del Dunadan, alzò la testa. “Non posso accettarlo, Beraid.”[/SIZE]
[SIZE=2]Lui scosse le spalle con noncuranza. “Non vale niente. E’ vecchio e inutile, ormai. Ma alcuni lo riconosceranno. Mandamelo, o mandami un messaggio con il suo sigillo, e io verrò da te, senza ritardi e senza fallire. Lo giuro.”[/SIZE]
[SIZE=2]“Non posso … non voglio un regalo da te, Beraid . Tieni, riprenditelo.”[/SIZE]
[SIZE=2]Si svegliò. [/SIZE]
[SIZE=2]Era tutto vivo nella sua mente, tutto davanti ai suoi occhi, come quel giorno. Lui aveva respinto il suo tentativo di restituirgli l’anello. La mano di lui aveva racchiuso le sue, gentile ma ferma come una roccia. “Allora prendilo per il mio bene, per farmi un favore. O gettalo via, se ti procura dispiacere. Non mi appartiene più. Adesso devo andare, Nielval Mashiara”. Le aveva carezzato una guancia con un dito; si era ritratta di scatto.[/SIZE]
[SIZE=2]Beraid era morto. Dopo mille e mille notti, dopo mille e mille volte quel sogno, poteva ancora sentire dove lui l’aveva toccata. Mashiara. Significava amata diletta, col cuore e con l’anima, ma anche perduto amore. Impossibile da riconquistare.[/SIZE]
[SIZE=2]Beraid era morto. Arto era morto. Ar-Venie era morta. Arakhon … A Tara si annebbiò la vista. Non sarebbe tornata a casa; mai più. ‘Se piango ora, giuro che mi ammazzo’ , si disse. ‘Risparmierò loro molta fatica, se mi ammazzo’. Stringendo forte l’anello nel petto, si girò sul suo giaciglio e sobbalzò nel trovarsi faccia a faccia con Ardic. [/SIZE]
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[COLOR=navy]Ardic[/COLOR][/SIZE]
[SIZE=2]“Da quanto tempo sei qui?” gli chiese.[/SIZE]
[SIZE=2]“Non tanto”, rispose Ardic con calma. “Partiremo presto. Dovresti andare a preparare i tuoi bagagli. Ma volevo parlarti.”[/SIZE]
[SIZE=2]Abit si mise a sedere dopo un sonno tormentato, annaspando, facendo cadere il mantello che aveva usato come coperta. Le doleva il fianco, la testa le pulsava. Il fuoco si era spento e rimanevano solo i carboni con qualche fiammella tremolante, ma era ancora sufficiente per far muovere le ombre.[/SIZE]
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[SIZE=2]Rabbrividendo, raccolse da terra una pietra e fece per spingerla tra i tizzoni. Non c’erano alberi in quel deserto, ma aveva comunque portato abbastanza legna e abbastanza acqua, e viaggiava sulla pista. Prima che la pietra toccasse i carboni, Abit si fermò. Stavano arrivando dei cammelli, dieci o dodici, a passo lento. ‘Devo essere prudente. Non posso fare un altro errore’, si disse.[/SIZE]
[SIZE=2]I cammelli si diressero verso il fuoco morente, divennero visibili alla debole luce, e si fermarono. Le ombre oscuravano i cavalieri, ma a quanto pare erano tutti uomini dai lineamenti duri, con indosso un elmo rotondo coperto da un turbante e dei lunghi giustacuore di cuoio ricoperti di dischi di metallo. Tra di loro c’era un uomo con i capelli grigi e un’espressione risoluta. L’abito scuro che indossava era di semplice lana, ma di ottima qualità, adornato da una spilla d’argento a forma di leone. Un mercante, così le sembrò; aveva già visto uomini come lui fra quelli che andavano a comperare la pietra e la lana a Tartaust e oltre i Due Fiumi. Un mercante con le sue guardie. Ma era estate; nessun mercante attraversava il deserto. Il villaggio e la sorgente dovevano essere vicini. Finalmente.[/SIZE]
[SIZE=2]‘Devo essere prudente’, pensò mentre si alzava. ‘Non devo commettere errori.’[/SIZE]
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[SIZE=2]“Hai scelto un buon punto per accamparti, donna,” esordì l’uomo. “L’ho usato spesso anch’io, lungo il tragitto. Qui vicino c’è una piccola sorgente. Immagino che tu non abbia obiezioni a dividerlo con me”. Le guardie stavano già smontando dai cammelli, aggiustandosi le vesti e sistemando i loro bagagli.[/SIZE]
[SIZE=2]“Nessuna obiezione” rispose Abit. ‘Prudenza’, pensò. Fece due passi verso di lui, quindi balzò in aria, ruotando su sé stessa, e la lama dall’elsa nera, con riflessi di fuoco, si materializzò nelle sue mani per decapitare l’uomo prima ancora che la sorpresa si dipingesse sul suo volto. ‘Lui era il più pericoloso’, pensò Abit.[/SIZE]
[SIZE=2]Atterrò mentre la testa dell’uomo rotolava giù dalla groppa del cammello. I soldati gridarono e afferrarono le spade, urlando ancora di più quando si resero conto che la lama di Abit bruciava. Lei danzò fra quegli uomini assumendo le posizioni che le avevano insegnato, e sapeva che avrebbe potuto ucciderli tutti con una lama di semplice acciaio, ma l’arma che impugnava faceva parte di lei. L’ultimo uomo cadde a terra.[/SIZE]
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[SIZE=2]Rinfoderò la spada, e si voltò a esaminare i cammelli. Erano scappati quasi tutti, ma alcuni non erano andati molto lontano, e il grosso cammello dell’uomo stava fermo roteando gli occhi, e si lamentava agitato. Il corpo decapitato dell’uomo, steso a terra, aveva mantenuto la presa sui finimenti, e costringeva l’animale a tenere la testa bassa.[/SIZE]
[SIZE=2]Abit lo liberò, fermandosi solo per raccogliere le sue cose prima di montargli in groppa. ‘Devo essere prudente’, si ripeté mentre guardava i cadaveri. ‘Non devo commettere errori’. Il Potere ancora la colmava, più dolce del miele, più disgustoso della carne putrida. Uno dei corpi era in ginocchio, col viso nel terreno. In ginocchio al suo cospetto.[/SIZE]
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[SIZE=2]“Se siete servi del Maestro” lo apostrofò “è così che dovreste salutarmi, no?” [/SIZE]
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[SIZE=2]Rilassarsi era difficile, ma lo fece. ‘Come farò a tenere lontana la pazzia?’, si chiese. Abbaiò una risata amara. ‘O è già troppo tardi?’, aggiunse tra sé.[/SIZE]
[SIZE=2]Aggrottando le sopracciglia, osservò la fila di cadaveri. Uno di loro era poco più che un bambino.[/SIZE]
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[SIZE=2]“Hai scelto la compagnia sbagliata” , gli disse Abit.[/SIZE]
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[SIZE=2]Fece voltare il cammello, e lo diresse a sudovest, veloce, nel buio della notte. Il viaggio per Chennacatt era ancora lungo, ma intendeva arrivarci prendendo la via più diretta, anche se questo significava continuare fino a quando il cammello si sarebbe sfiancato a morte e poi continuare a piedi per poterne rubare un altro. ‘Porrò fine a tutto questo’, si disse. Alle beffe. Alle lusinghe. ‘Porrò fine a tutto!’[/SIZE]
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[SIZE=2]Ny Chennacatt.[/SIZE]
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[SIZE=2]La stavano chiamando.[/SIZE]
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"Mia Signora, se è vero che la conoscenza è potere, è altresì vero che il potere è portatore di sventura!"
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Così Ardik incominciò il suo monologo dopo aver chiesto a Lady Tara di seguirlo lontano da orecchie indiscrete.
"Mia Signora, so che le mie parole ora giungeranno come un ulteriore fardello dopo ciò che ha già passato, ma data la situazione vorrei che lei sapesse cosa questo umile servitore della famiglia Eshe prova.
E' vero che non sono molti gli anni che servo gli Eshe e Lady Ar-Venie mi affidò il compito di accompagnare Imrazor nel suo ultimo viaggio.
Quando Lady Ar-Venie ordinò di tenere Passo Fiammanera ubbidii e combattei. Il passo non cadde.
Purtroppo ora ad Ostelor rimane solo un ricordo di quel nome, Lady Ar-Venie è morta sul campo di battaglia come si addice ai più grandi condottieri, e suo fratello Arakhôn è molto lontano dalle nostre terre e sicuramente non sa ancora della fine prematura della nostra reggente, anche Indur ci ha lasciati, e di tutto ciò che mi...
Anche il mio "maestro" ha servito questa famiglia in maniera degna, a dir suo, anche se so della fine di Antha-Faris e di altre cose per le quali, a dire il vero, sento il peso dei suoi atti pesarmi sulla coscienza.
Ciò che mi legava a casa, ad Ostelor, più nulla mi è rimasto, pertanto voglio offrire a lei mia Signora i miei umili servigi, unica testimone della grandezza della famiglia Eshe. Se ora sono qua, a seguirla in questo periglioso viaggio, non è per la ricompensa promessa, ma per il mio senso di dovere che provo verso colei che così tanto, con fiducia, mi ha dato.
Cosi ora eseguirò qualunque ordine lei mi vorrà dare.
La diffidenza che aleggia in questo mal assortito gruppo è gia alta, lo so ... io sono solo un villico qualunque di cui voi, Lady, prima di un mese fa, non conoscevate nemmeno l'esistenza pertanto, se fossi in voi neppure io mi fiderei dello sconosciuto quale sono, ma il problema nostro è proprio questa diffidenza.
Diffidenza che abbiamo verso gli elfi che tengono i loro segreti ben stretti, diffidenza in questi nostri nuovi compagni di viaggio guidati da una donna che dice di essere alla ricerca di Arakhôn, voi Lady Tara, che vi accompagnate a quelli che ho combattuto, diffidenza nei confronti della nostra guida dal fare nobile, di cui sappiamo solamente che si diletta nella cartomanzia e che sospetto che anche lei abbia qualche tipo di interesse nel trovare Arakhôn.
Ritengo che il Maestro Artagora sia l'unico di cui lei si possa attualmente fidare, ma come dicevo la conoscenza è potere, il che vuol anche dire che, se sappiamo a cosa andiamo incontro, il fato ci potrà cogliere meno impreparati.
Spero di poterle dimostrare presto la mia lealtà dettata non da un ordine od un obbligo ma da una scelta e che ciò possa convincerla a darmi la sua fiducia. Lei è tutto ciò che Ostelor rappresenta per me, pertanto in lei depongo la mia cieca obbedienza in nome degli Eshe."
Pronunciando il nome della famiglia, con il massimo del rispetto che poteva esternare, Ardik si inginocchiò davanti a Tara, le baciò la mano e senza attendere nessuna risposta o segno di assenso si diresse verso uno dei palafreni. Frugò un po’ in una delle bisacce da cui estrasse una sacca più piccola, un pestello ed un mortaio di ceramica. Dalla sacca tirò fuori delle bacche maleodoranti e appartatosi di nuovo dall'accampamento, per non nauseare tutti, cominciò a sfregarle nel mortaio lentamente per poterle trasformare in una poltiglia oleosa.
Il lavoro sarebbe stato lungo ed accompagnò i suoi movimenti con una cantilena:
"È vero senza menzogna, certo e verissimo. Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso per fare i miracoli della cosa una. E poiché tutte le cose sono e provengono da una, per la mediazione di una, così tutte le cose sono nate da questa cosa unica mediante adattamento. Il Sole è suo padre, la Luna è sua madre, il Vento l'ha portata nel suo grembo, la Terra è la sua nutrice. Il padre di tutto, il fine di tutto il mondo è qui. La sua forza o potenza è intera se essa è convertita in terra. Separerai la Terra dal Fuoco, il sottile dallo spesso dolcemente e con grande industria. Sale dalla Terra al Cielo e nuovamente discende in Terra e riceve la forza delle cose superiori e inferiori. Con questo mezzo avrai la gloria di tutto il mondo e per mezzo di ciò l'oscurità fuggirà da te. È la forza forte di ogni forza: perché vincerà ogni cosa sottile e penetrerà ogni cosa solida. Così è stato creato il mondo. Da ciò saranno e deriveranno meravigliosi adattamenti, il cui metodo è qui.
È perciò che sono stato chiamato Hadores Kehahh, avendo le tre parti della filosofia di tutto il mondo.
Ciò che ho detto dell'operazione del Sole è compiuto e terminato."
Cit.: La Tavola di Smeraldo di Hermes Trismegistus
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[FONT=Calibri][SIZE=3][/SIZE][/FONT]
[SIZE=2]Trovò la carne intatta. Deglutì sollevato, ma il momento successivo sentì sotto le dita una zona umida. [/SIZE]
[SIZE=2]Quasi cadendo per la fretta, scese subito dal letto, inciampò nel suo baule e prese la brocca, rovesciando l’acqua ovunque mentre riempiva il catino. L’acqua divenne rosa quando lui si lavò la faccia. Rosa per via del sangue. Ma sangue di chi?[/SIZE]
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[SIZE=2]Altri punti scuri macchiavano la sua giubba e le brache. Si strappò di dosso gli indumenti e li lanciò nell’angolo più lontano della stanza. Li avrebbe lasciati lì. Potevano anche bruciarli.[/SIZE]
[SIZE=2]Rabbrividendo, con addosso solo la camicia, si sedette a terra e si appoggiò al letto. Il rubino era là, accanto alla lampada. [/SIZE]
[SIZE=2]‘Questo è più che abbastanza’, si disse. I suoi pensieri erano tutti pervasi di amarezza, di preoccupazione e di paura. E di curiosità. ‘Che cosa è successo, a Ostelor? Che sta succedendo?’ . [/SIZE][SIZE=2]E di determinazione. [/SIZE][SIZE=2]‘Non cederò! Non lo farò’. [/SIZE]
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[SIZE=2]“Mi stanno dando la caccia” ringhiò Ciryaher. “Cacciatemi quanto volete. Non sono una preda facile. Non più!”[/SIZE]
[SIZE=2]Era ancora scosso dai brividi quando sopraggiunse il sonno vero. [/SIZE]
[SIZE=2]L’aria era tranquilla, e la conca molto oscura, nella profondità della terra, e la luna alta e pallida. “Che cosa vuoi cercare, e che cosa vedrai?”, domandò Joiya piena di meraviglia.[/SIZE]
[SIZE=2]“Molte cose comando all’essenza di Eä di rivelare”, rispose Fuinur, l’Elfo, “e alcuni dei miei Cerchi possono mostrare le cose che desidero vedere.”[/SIZE]
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[SIZE=2]“Ma i Cerchi possono spontaneamente mostrare delle immagini, che sono spesso più strane e utili di quello che noi stessi desideriamo vedere”, disse il Maestro. “E fuorvianti, talvolta. Esse sono cose che furono, e cose che sono, e cose che ancora devono essere. Ma quali fra queste egli stia vedendo, Fuinur non può sapere; questa è magia degli Elfi, eppure nemmeno il più saggio di loro sapeva. Questo è ciò che la tua gente chiamerebbe magia, suppongo.”[/SIZE]
[SIZE=2]Con un gesso rosso, Fuinur riempì la pietra di simboli, e poi soffiò, sollevando una gran polvere, che si trasformò improvvisamente in un fumo che non consentiva quasi di vedere; e quando tutto fu nuovamente calmo, disse: “Questa è la strada che Elendil percorrerà”. [/SIZE]
[SIZE=2]A bocca aperta, Joiya vide che il fumo si diradava, e oltre scorse una terra al lume di stelle. Delle montagne giganteggiavano cupe contro un pallido cielo. Una lunga strada dalle sfumature gialle e grigie serpeggiava a perdita d’occhio. Alcune figure distanti percorrevano lente la strada, a cavallo; Joiya le vedeva da distante, come se fosse molto più in alto di loro, e da una strana prospettiva. Si sentì confusa.[/SIZE]
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Joiya
[SIZE=2]“Se l’Elfo non può essere sicuro di ciò che vedrà, Maestro”, chiese Joiya, tremando sia per il timore che per la curiosità, “come può esserci utile questa visione?”[/SIZE]
[SIZE=2]“Non ci dispiacerà comunque intravedere quel che accade sulla strada per il Chennacatt”, rispose il Maestro, “ora che ne abbiamo lo strumento. Una fortuna insperata, davvero. Tornano a ovest; chissà mai per quale motivo.”[/SIZE]
[SIZE=2]La visione cambiò. Joiya intravide, piccola ma assai vivida, una immagine di una donna vestita di bianco, una donna alta, dai capelli neri come la notte e gli occhi chiari come il grigio di un mattino di neve, che correva veloce in una piana. La piana era cosparsa di pietre e pochi, inconsueti cespugli secchi rotolavano al vento. Era qualcosa che lei non aveva mai visto, ma che riconobbe immediatamente: il deserto oltre la terra dei Due Fiumi.[/SIZE]
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[SIZE=2]“Ha percorso molta strada”, disse Fuinur. [/SIZE]
[SIZE=2]“Non abbastanza”, disse il Maestro. “La stagione avanza; il suo passo è veloce, ma non giungerà in tempo. Dobbiamo dargliene di più”, disse ancora, a bassa voce.[/SIZE]
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[SIZE=2]“Non posso aiutarla. Non ho modo di colpirli da così lontano”, rispose l’Elfo. “Prima di poterci riuscire, dovrei diventare molto più forte, ed allenare la mia volontà al comando e alla dominazione degli elementi di quella terra. E’ troppo distante.”[/SIZE]
[SIZE=2]“Non tentare!” disse il Maestro. “Ne saresti distrutto. Non ti ho forse detto che i miei strumenti attribuiscono un potere proporzionato a chi li usa? Non sei in grado di raggiungerli; e se arriveranno a Ny Chennacatt, una volta passate le mura le difese di Akhorahil oscureranno la nostra vista.”[/SIZE]
[SIZE=2]Il fumo si diradò ancora, e innanzi agli occhi di Joiya un mare nero si gonfiò infuriato, e si levò una grande tempesta. Vide spiccare contro il sole, che sorgeva rosso come sangue in una selva di nubi, il nero contorno di un’imponente nave che fuggiva all’Est, una nave dove rematori dalla pelle scura cantavano lodi al loro giovane capitano. Poi un ampio fiume attraverso una popolosa città e contadini che lavoravano con i piedi nell’acqua; poi una strana fortezza in cima a una montagna; quindi di nuovo una nave dalle vele nere; ma ora era venuta la sera, e sull’increspatura delle onde il sole scintillava, e una bandiera con l’emblema di un albero bianco brillava alla luce. Si levò come un fuoco di fumo e di battaglia, ed il sole tornò a tuffarsi in un rosso incandescente che sbiadì lasciando dietro di sé una grigia nebbia. Joiya sospirò, apprestandosi a lasciare l’Elfo e il Maestro e a risalire le scale.[/SIZE]
[SIZE=2]Ma il maestro prese dell’argilla dal piccolo tavolo, e la modellò in foggia d’uomo. “Tuttavia anche così, Joiya, le cose semplici sono spesso le più efficaci. Hai inteso il mio pensiero più chiaramente di molti che vengono considerati saggi. Poiché siamo in grado di seguire alcune delle Vie precluse ad altri, dimmi, Joiya, perché non utilizzarle?”[/SIZE]
[SIZE=2]Il Maestro gettò il piccolo uomo d’argilla oltre il fumo, e disse: “Vai, amico mio. A te concedo di disporre di quel tempo di cui abbiamo bisogno. Trovali, e fa in modo che il loro cammino diventi lungo, e lento il loro passo.”[/SIZE]
[SIZE=2]Tutto divenne d’improvviso completamente buio, come se un abisso si fosse aperto attorno a loro e stessero guardando nel vuoto. Un vuoto che, a spirale, si protraeva in avanti. Joiya si sentì trascinare leggermente in avanti; nel nero baratro, la figurina d’argilla roteò lentamente, facendosi via via sempre più piccola.[/SIZE]
[SIZE=2]~[/SIZE]
[SIZE=2]“Dovremo salire ancora di molto, Chattak?”[/SIZE]
[SIZE=2]L’haradano annuì.[/SIZE]
[SIZE=2]“In tal caso cercherò di seguire il tuo consiglio”. Altri si stavano avvicinando ai fuochi, e i mormorii delle conversazioni lo seguirono su per il pendio.[/SIZE]
[SIZE=2]Aveva un riparo suo, una piccola costruzione di pali alta appena di consentirgli di stare in piedi. Le fessure erano riempite di fango essiccato. Un letto rozzo, rami di pino sotto una coperta, occupava quasi la metà dello spazio. Chiunque aveva accudito il suo cavallo si era anche curato di portare le sue cose dentro, al riparo.[/SIZE]
[SIZE=2]Si tolse la cintura e l’appese a un gancio, quindi si spogliò, rabbrividendo. Le notti in montagna erano fredde, anche d’estate, ma il freddo gli impediva di dormire troppo profondamente. Sapeva dove si trovava, conosceva i nomi degli uomini che erano con lui, sapeva dove stava andando e perché, sapeva che era tutto sbagliato – più di quello niente. Niente. Nient’altro se non il suo nome. [/SIZE]
[SIZE=2]E quando il sonno era profondo, giungevano dei sogni dei quali non si poteva liberare, e che non poteva raccontare.[/SIZE]
[SIZE=1]Liberamente tratto da "Il Signore degli Anelli", di J.R.R. Tolkien[/SIZE]
[FONT=Comic Sans MS]La nebbia si stava diradando, e Mansour scoprì di essersi allontanato dall’accampamento più di quanto avesse voluto, mentre cercava di scoprire chi dirigeva l’attacco contro di loro…[/FONT]
[FONT=Comic Sans MS]Ritornando indietro, incontrò Loras ed Artagora che ritornavano anche loro al campo e rapidamente li mise al corrente di quanto accaduto.[/FONT]
[FONT=Comic Sans MS]I tre corsero velocemente indietro e trovarono l’accampamento devastato: Ardic il cerusico era a terra, svenuto, lacero e pieno di lividi, vicino al suo cavallo. Dappertutto c’erano cadaveri di orchetti e, con sommo sgomento, Mansour riconobbe, in mezzo a quel carnaio, anche i poveri resti dei suoi compagni Husaìn e Motjaba e, mentre gli altri soccorrevano il curatore, Mansour provò una fitta allo stomaco quando un pensiero lo colse: “Dov’è Imàn?”[/FONT]
[FONT=Comic Sans MS]Disperatamente, iniziò a frugare fra i cadaveri, temendo che la giovane, che lui amava come una figlia, fosse caduta sotto i colpi di quelle immonde creature, ma non riuscì a trovarla…[/FONT]
[FONT=Comic Sans MS]Stava iniziando a temere che l’avessero portata via, quando il sole nascente, non più occultato dalla nebbia, fece brillare qualcosa poco lontano dall’accampamento. Mansour corse in quella direzione e vide che il luccichio era stato provocato dal riflesso della luce prioprio sulla spada di Imàn: la ragazza giaceva supina al suolo, poco distante, coperta di sangue. Mansour corse da lei, in preda all’angoscia e stava quasi per piangerne la morte, quando si accorse che la spadaccina respirava ancora, seppure a stento.[/FONT]
[FONT=Comic Sans MS]Diverse sensazioni travolsero l’attempato guerriero: paura per le condizioni critiche della ragazza, sollievo per averla trovata ancora viva ed orgoglio per il modo in cui la figlia del suo migliore amico aveva reagito al pericolo, soffocando la sua paura nei confronti di quelle ripugnanti creature, affrontandole a viso aperto senza arretrare di un passo e, alla fine, tenacemente tentando di bendare le sue ferite, per non morire dissanguata…[/FONT]
[FONT=Comic Sans MS]Un lieve tocco sulla sua spalla lo fece trasalire e Mansour si girò di scatto, temendo un nuovo pericolo, ma si trovò di fronte la donna chiamata Tara, gli occhi di lei mostravano compassione.[/FONT]
[FONT=Comic Sans MS]“Vieni…”[/FONT][FONT=Comic Sans MS] gli disse questa, con una evidente nota di stanchezza nella voce “… Cerchiamo di aiutarla prima che sia troppo tardi.”[/FONT]
[FONT=Comic Sans MS]Imàn camminava in fila con gli altri negli oscuri corrodoi di Ny Chennecat, sforzandosi di trattenere le lacrime…[/FONT]
[FONT=Comic Sans MS]Dopo Husaìn e Motjaba, ora anche Mansour era perduto. Secondo Tara era caduto sul bastione che si collegava al pozzo che avevano disceso per entrare nelle mura esterne della fortezza.[/FONT]
[FONT=Comic Sans MS]Certo, la spadaccina aveva pianto la morte degli altri suoi compagni e amici durante gli interminabili giorni della sua convalescenza, ma Mansour… era diverso! Lo conosceva da quando era bambina, dal terribile giorno in cui aveva riportato al villaggio il corpo di suo padre. Non viveva con la sua tribù ma, mentre cresceva, spesso le faceva visita, recando sempre qualche piccolo regalo e storie meravigliose di paesi lontani.[/FONT]
[FONT=Comic Sans MS]Fu lui ad insegnarle i primi tiri di scherma, tecnica che poi lei affinò, fino a diventare più brava di lui (e di tutti i giovani del suo villaggio) nell’uso della spada.[/FONT]
[FONT=Comic Sans MS]Ora, dopo tante storie vissute assieme, non ultima il pericoloso passaggio sui monti assieme alla donna chiamata Albira, per evitare il gruppo di Esterling che li stava cercando, in quel luogo oscuro e pericoloso, Imàn sentiva la mancanza dell’amico e protettore, che sapeva temperarne l’irruenza con le sue parole sagge, che sapeva consolarla quando era triste, che l’aveva raccolta morente dal campo di battaglia e, dopo le prime cure, aveva affrontato da solo il pericolo delle bande erranti di orchetti per riportarla alla stazione di posta dove si era ripresa dalle sue ferite.[/FONT]
[FONT=Comic Sans MS]Certo, Mansour non era suo padre, però…[/FONT]
[FONT=Comic Sans MS]Imàn ed i suoi compagni si erano rapidamente allontanati dal pozzo, così nessuno udì il tonfo causato dallo spericolato arrivo di Mansour sul fondo dello stesso, nel quale si era disperatamente tuffato per sfuggire ai nemici, atterrando senza, miracolosamente, essersi rotto nulla.[/FONT]
[FONT=Comic Sans MS]Mansour, ripresosi dallo stordimento della caduta, ringraziò Ladnoca per essere ancora vivo, accese la sua lanterna e si avviò lungo il corridoio, cercando i suoi compagni e pregando di non essere scoperto…[/FONT]
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Il pungiglione dello scorpione rosso era pericoloso e aceva effetti strani sulle sue vittime, effetti che Artagora temeva più di ogni altra cosa.
Altre volte avaeva pensato che forse era tipico di coloro che facevano dello studio e della razionalità un pilastro della propria esistenza avere paura di perdere la ragione e il controllo di sè.
E così era per lui
Giunse al paese accompagnato da Borgil, giusto in tempo per sentire la febbre che montava come una marea, un'onda che presto travolse la sua coscienza, lasciandogli come unico ricordo di quelle notti di delirio la paura e l'imbarazzo di rivelare nel suo straparlare i suoi pensieri più intimi.
I pochi che lo vegliavano e che capivano l'athoriano sentirono la sua voce assumere i toni di un babmbino spaventato, che chiedeva dove fosse il padre, e anche di perchè la volontà di quell' uomo perennemente assente lo volesse da subito in una scuola militare, lontano dalla madre.
Sentirono anche la sua indifferenza alla notizia della morte del padre, le conversazioni con la madre che gli insegnava i primi rudimenti della filosofia e della matematica. e il suo pianto per la morte della madre rubatagli prematuramente da una malattia.
Tutto questo emergeva disortinatamente, senza alcun ordine cronologico, penosamente grottesco come appare sempre il delirio di un folle.
Per tutti invece le conversazioni immaginarie con o riguardo Ar Veniè erano comprensibili, poichè emergevano in adunaico.
Artagora mescolò un po' di tutto, ricordi di vere conversazioni, probabilmente fatte di fronte a un te seduti nel giardino della casa degli Eshè, altre molto più fantasiose.
In alcune parlava di filosofia e piccole cose della vita, in altre dell'amore di Ar Veniè per Imrazor. Alcune volte manifestava la vergogna che provava nell'invidiare Imrazor, e in altre momenti si dichiarava a Veniè.....o forse provava con se stesso un discorso mai fatto.
E spesso malediva il destino, la guerra, la solitudine.
Artagora sragionò per due giorni, poi riemerse dalla nebbia del delirio, stanco e propstrato dalla febbre, con la certezza spaventata di aver detto qualcosa di sconveniente, in quanto aveva già assistito al delirio di altri che erano stati punti dallo scorpione rosso del deserto.
Ma non ne parlò con nessuno
Tranne un giorno in cui il caldo era più insopportabile che mai, quando Tara gli portò dell'acqua in una ciotola di legno.
Artagora bevve un sorso e poi la guardò:
"Spero di non aver detto cose che ti abbiano imbarazzato ."
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[SIZE=2]“Già tornata?” Artagora sollevò lo sguardo. Era accovacciato sulle coperte, madido di sudore, e sembrava intento a suddividere in gruppi di varie lunghezze un mucchietto di paglia. La febbre non era ancora passata. Fissò Tara con aperto sgomento che in un istante divenne rabbia brusca. “Perché non mi hai detto delle condizioni di Ar-Venie?”[/SIZE]
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[SIZE=2]Tara si voltò, incamminandosi verso la porta e il pozzo. Sarebbe andata a prendere dell’altra acqua per lui; l’acqua era poca, ma Artagora ne aveva bisogno. Ardic e Loras, i due incoscienti, erano messi quasi peggio, e Borgil in questa situazione non le era di nessuna utilità. Era sola, ad accudirli tutti quanti. [/SIZE]
[SIZE=2]Artagora considerò un’altra pagliuzza, e dopo un momento la depose sulla pila alla sua destra. “Ma io ho fatto tanto”, continuò. “Sono andato fin oltre la baia e ho parlato con Anikaran. Una domanda in cambio di un'altra: perché non lo sapevi già?”[/SIZE]
[SIZE=2]Quello la spinse a tornare sui suoi passi. Era cosciente in quello che diceva, o stava semplicemente delirando? Anikaran.[/SIZE]
[SIZE=2]“Ammetto di essere stata trascurata qualche volta nelle mie ricerche, Artagora. Ma …”[/SIZE]
[SIZE=2]“Nessuna delle mie parole avrebbe avuto lo stesso impatto delle tue. E non consideri neanche che cosa sarebbe successo se io non fossi stato lì ogni giorno, spazzando, spolverando, portando fuori i piatti, pettinandole i capelli …”[/SIZE]
[SIZE=2]Di nuovo le sue parole non avevano alcun senso. Tara fu presa dallo sconforto. Attraversò la stanza, sedette pesantemente sul baule che conteneva le loro cose. [/SIZE]
[SIZE=2]“Non sei l’Artagora che mi aspettavo” sbottò. “Mi spaventa che tu possa crollare così tanto, così in fretta. Ho bisogno di te. ”[/SIZE]
[SIZE=2]“Ti spaventa? Io sono terrorizzato. Almeno tu hai qualcosa da fare, un ideale. Qualcosa d’altro.” Artagora gettò un’altra pagliuzza sulla pila. [/SIZE]
[SIZE=2]“Io? Che cosa, Artagora? Ho giocato tutto, mi rimane solo un re in mano. Forse tu ne avrai un altro quando questo sarà stato giocato.”[/SIZE]
[SIZE=2]“Ce l’abbiamo tutti”, fece notare Artagora con cautela.[/SIZE]
[SIZE=2]“Alcuni più di altri”, disse Tara. [/SIZE][SIZE=2]Senza pensare, la sua mano si alzò per fissare meglio la spilla alla sua veste. Nel bosco, il giorno in cui era morto Indur, l’aveva quasi persa. L’aveva fatta riflettere su tutto quello che aveva simboleggiato in quegli anni. La protezione di Eshe Far, per una nipote bastarda di cui una famiglia più spietata si sarebbe sbarazzata in silenzio. E adesso che erano loro, la famiglia, ciò che rimaneva di essa, ad aver bisogno di protezione? Che cosa simboleggiava per lei adesso?[/SIZE]
[SIZE=2]“Allora, cosa facciamo?” chiese ancora Artagora.[/SIZE]
[SIZE=2]“Tu e io? Adesso? Non so”, rispose Tara. “Potremmo fare l’amore, ho voglia, e tu? Ti va? Tu sei solo un matto, stanotte, e io sono una bastarda.”[/SIZE]
[SIZE=2]Artagora annuì con riluttanza, e Tara non capì a che cosa, se al suo definirsi bastarda o all’idea di fare all’amore. [/SIZE]
[SIZE=2]“Vorrei che Arakhon fosse già qui. Vorrei sapere quanto arriverà. La sua assenza mi pesa addosso come un ombra”, disse. Guardò Artagora, chiedendosi quanto sapesse o intuisse del loro destino.[/SIZE]
[SIZE=2]“Ombra? L’ombra ritorna quando ritorna il sole, ho sentito dire. Qui è pieno sole e l’ombra arriverà presto”. Era fuori di senno. Il veleno dello juthjuth; raramente mortale, spesso portava alla pazzia. “Troppo tardi per noi, immagino” aggiunse più sommesso. “L’Ombra a Mezzogiorno. Mordor. Il Male. Troppo grandi per noi”.[/SIZE]
[SIZE=2]“Quindi siamo impotenti, secondo te?” chiese Tara.[/SIZE]
[SIZE=2]“Tu e io? Mai, mia cara Venie. Abbiamo troppo potere per agire qui; ecco tutto. In questo ambiente, quelli che non hanno potere sono sempre i più potenti. Forse hai ragione; dovremmo consultare loro. E adesso …” si alzò, e teatralmente si scrollò in tutte le giunture come una marionetta. Fece tintinnare un sonaglino che aveva trovato da qualche parte. Tara non poté fare a meno di sorridere. “La mia Ar-Venie sta per entrare nel periodo migliore della sua giornata. E io sarò là, per fare il poco che posso per lei”. Sbadigliò.[/SIZE]
[SIZE=2]Tara si alzò lentamente dal baule. “Buona notte, Artagora. Sei stanco. Vado a prenderti dell’acqua, te la lascerò qui accanto.”[/SIZE]
[SIZE=2]“Addio, Tara.”[/SIZE]
[SIZE=2]Si fermò di nuovo vicino alla porta, perplessa. “Vuoi davvero che me ne vada?”[/SIZE]
[SIZE=2]“Credo di aver obiettato in primo luogo che tu rimanessi. Ma ti sei dimenticata? Avevi offerto uno scambio. Un segreto per un segreto.”[/SIZE]
[SIZE=2]Non aveva dimenticato. Ma all’improvviso non era più sicura di voler giocare a quel gioco. [/SIZE]
[SIZE=2]“Mai giocare con le parole assieme a un filosofo matto. Che cosa vuoi sapere, Artagora?”[/SIZE]
[SIZE=2]“Da dove viene Tara, e perché?” chiese piano.[/SIZE]
[SIZE=2]“Ah”. Tara rimase immobile per un momento, poi domandò titubante: “Sei certo di volere la risposta? Non t’interessa piuttosto fare all’amore?”[/SIZE]
[SIZE=2]“Da dove viene Tara, e perché?” ripeté lui, lentamente.[/SIZE]
[SIZE=2]Per un istante Tara rimase senza parole. In quel momento Artagora la vide. La vide come non l’aveva vista per mesi, non come Tara, dalla lingua sciolta e il cuore di ferro, e dallo spirito tagliente come una conchiglia, ma come una persona piccola e sottile, così fragile, dalla carne pallida sotto la scorza lasciata dal sole e dalle ossa di uccellino, i capelli più corti e sottili di quelli di altre donne. La sua veste bordata di pizzo, lisa e stracciata dal viaggio, la sua cintura di corda intrecciata erano tutta l’armatura e la spada di cui disponeva alla fine in quella corte di intrighi e tradimenti nella quale era nata e cresciuta. E il suo mistero. Il mantello invisibile del suo mistero. Artagora desiderò per un istante che lei non avesse proposto lo scambio, all’inizio del gioco.[/SIZE]
[SIZE=2]Tara sospirò. Girò lo sguardo sulla stanza, e incontrò i suoi occhi. “Vola verso sud, Artagora. Vai di nuovo oltre i bordi delle Montagne Gialle, le più alte che qualsiasi uomo abbia mai visto. Vola verso sud, fino a Ostelor, e poi ancora a sud e a ovest attraverso boschi per i quali non hai un nome. Alla fine, arriverai a una lunga penisola, e sulla punta a muso di serpente troverai le quattro case dove è nata una figlia bastarda. Potresti persino incontrare ancora una madre che ricorda la sua bambina bianca come un verme, e come mi cullava contro il suo petto caldo, e cantava”. [/SIZE]
[SIZE=2]Gettò un’occhiata al viso di Artagora, rapito e assorto nell’ascolto, e rise brevemente. [/SIZE]
[SIZE=2]“Non riesci neppure a immaginartelo, vero? Non m’immagini così. Lascia che te lo renda ancora più difficile. I capelli di questa donna erano lunghi e biondi e ricci, e gli occhi verdi, e lei era alta. Il suo compagno? Uno robusto e bruno e sempre allegro, dalle labbra rosse e dagli occhi scuri, un contadino che odorava di terra e dell’aria aperta. E il padre della bambina? Un cugino, poiché tale era l’usanza di quella terra, e il cugino la possedeva, la terra e anche la madre. Un poeta e un cantastorie, dagli occhi blu. E, oh, quanto mi amavano e si compiacevano di me! Tutti e tre, e anche il villaggio. Mi amavano tanto.”[/SIZE]
[SIZE=2]La sua voce si fece più sommessa, e per un momento rimase in silenzio. Artagora sapeva con assoluta certezza che stava ascoltando ciò che nessun altro aveva mai sentito da lei. Ricordò il giorno in cui, spiando, si era avventurato nella sua stanza, nella casa di Ar-Venie, e la squisita bambola nella culla che vi aveva trovato. Adorata come Tara un tempo era stata adorata. Attese.[/SIZE]
[SIZE=2]“Quando fui … abbastanza grande, dissi addio a tutti loro. Partii per trovare il mio posto nella storia, e scegliere dove avrei incontrato il mio destino. Scelsi la casa dei cugini di Ostelor; il momento, forse, era stato stabilito dall’ora della mia nascita. Andai da Eshe Far e chiesi di entrare al loro servizio. Eravamo parenti. Raccolsi tutti i fili che il fato metteva nelle mie mani, e cominciai a tirarli, sperando di dimostrare ciò che valevo. Ma non tutti gli uomini e le donne sono destinati alla grandezza, Artagora. E io sono ciò che sono, ciò che vedi di fronte a te, e niente di più.”[/SIZE]
[SIZE=2]Artagora scosse la testa. “Ne sei sicura, Tara? A che serve una vita vissuta come se non facesse nessuna differenza per la grande vita del mondo? Non riesco a immaginare una cosa più triste. Perché una madre non dovrebbe dire a se stessa: se allevo bene questa bambina, se la amo e mi curo di lei, vivrà una vita che porterà gioia a chi le sta attorno, e così avrò cambiato il mondo? Perché il contadino che pianta un seme non dovrebbe dire al suo vicino: il seme che ho piantato oggi nutrirà qualcuno, ed è così che oggi cambio il mondo?”[/SIZE]
[SIZE=2]“Questa è filosofia, Artagora. E’ vita tua, non mia. Non ho mai avuto il tempo di studiare cose simili, per quanto mi piacesse starti ad ascoltare quando parlavi con Ar-Venie. Io vedo solo le mie mani; sono sporche di sangue, e non riesco a lavarle.”[/SIZE]
[SIZE=2]“No, Tara, questa è la vita. E nessuno ha tempo di non considerare tali cose. Ogni creatura al mondo dovrebbe pensarci, per ogni momento in cui il suo cuore batte. Altrimenti, che ragione c’è per vivere ogni giorno?”[/SIZE]
[SIZE=2]“Questo va al di là di me. E tu, stanotte, sei matto” dichiarò Tara a disagio. Non lo aveva mai visto così appassionato, non lo aveva mai sentito parlare così chiaramente.[/SIZE]
[SIZE=2]“No, Tara. Sono giunto a credere che questo non è al di là di noi. Va attraverso di noi”. [/SIZE]
[SIZE=2]Tese la mano, e strinse delicatamente la sua. Lei provò improvvisamente, ancora una volta, il gelo della premonizione. Qualsiasi altra cosa avesse da dirle, non voleva sentirla. Da qualche parte, in lontananza, si levò un fioco ululato. [/SIZE]
[SIZE=1]Adattamento di un brano tratto da "L'assassino di corte", di Robin Hobb[/SIZE]
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