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Samaduin [Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Sidiq
La Città Chiusa di Tul Harar era piccola, ma possedeva una locanda molto accogliente nella quale si serviva eccellente Kafe . Il ragazzo guidò Samaduin attraverso le strette vie deserte e addormentate fino al cortile interno del locale e chiamò gli stallieri con una vocetta acuta e autoritaria. Là i cavalli erano conosciuti e in effetti Yamina fu trattata con un rispetto che gli sarebbe parso bizzarro se non l'avesse cavalcata.
Entrarono in una stanza grande, dal soffitto alto, piacevolmente in penombra e con una fontana al centro; su tre lati correva una panca imbottita sotto le finestre senza imposte e munite di graticcio, ombreggiate dalle fronde verdi all'esterno; sulla panca, seduti a gambe incrociate, due o tre gruppetti di uomini intenti a fumare in silenzio il narghilè o a conversare a bassa voce. Il brusio cessò all'istante al loro ingresso, per riprendere subito dopo nello stesso tono sommesso. L'aria era deliziosamente fresca. "Il ragazzo va avvertire Mobarek che siete qui" , gli comunicò Sidiq. "Dice che è il solo a poterlo disturbare a quest'ora senza pericolo e dice anche che, essendo voi Valdacli, potete ordinare da mangiare e da bere, se volete."
Samaduin rispose con freddezza che preferiva aspettare. Non soltanto sarebbe stato scortese verso quei gentiluomini barbuti mangiare e bere quando essi non usavano farlo, ma Yafai avrebbe potuto arrabbiarsi con ragione se, entrando, avesse scoperto Gilkarun a trangugiare le pinte di sorbetto alle quali agognava. Rimasero perciò seduti ad ascoltare il gorgoglio dell'acqua nella fontana e, mentre la luce del giorno si attenuava, la frescura li avvolse.
Eccellentissimo Yafai Mobarek. I miei affari sono stati raggiunti, e nuove prospettive mi si offrono. Il futuro si fa interessante. Le chiedo di poter al mio ritorno, che sarà il più rapido possibile, di poter rivedere, incontrare la sua nobilissima figlia Niazi poiché il suo volto è stato la poesia in questo mio viaggio attraverso il deserto.
Sulle Montagne Gialle bande di Sudroni e Orchi si stanno organizzando. Presto si faranno pericolose. Le riferisco queste notizie per darle una prova della mia sincera amicizia. Con devozione
Arakhon Eshe di Ostelor
Mia cara Niazi,
Sono arrivato alla mia meta. Con cura ho conservato il tuo regalo ed ora sono in viaggio per Tul Isra. Desidero parlare ancora con te. Molte sono le cose che sono cambiate ed anche il mio cuore è cambiato. Con desiderio bramo una tua carezza. A presto mia cara
Tuo Arakhon Eshe di Ostelor
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Yafai
Yafai Mobarek, piccolo di statura e curato nell'aspetto, con i baffi e la barba quasi bianca, un fazzoletto rosso avvolto attorno al capo e una veste semplice, ripiegò le lettere e le pose in una custodia di legno laccato. Intorno al narghilè gorgogliante, in un angolo riservato e verde, il colloquio si era svolto nel modo franco e diretto che Samaduin aveva tanto desiderato. "Ora" , disse Gilkarun con grande foga, "non c'è tempo da perdere, dobbiamo mandare subito una scorta per Arakhon, verso Tul Isra. I vostri cavalieri possono arrivarci in pochi giorni!".
Yafai sorrise. "Voi giovani siete sempre impazienti di agire. Bene, rientrerò con voi verso il porto questa sera e darò ordini per la scorta. Assieme a Sidiq vi darò il mio Murad; è stupido, ma coraggioso, è ubbidiente e sa imporre l'ubbidienza ai suoi uomini con la forza. E credo che abbia qualche nozione del vostro adunaico; si sceglierà tre o quattro uomini che non abbiano paura degli spiriti e dei demoni notturni, se riuscirà a trovarli... il deserto è pieni di spiriti, sapete. Ma io sono vecchio e ho digiunato tutto il giorno; ho bisogno di prendere qualcosa. Non vi dispiacerà aspettare che il sole sia tramontato?"
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Arakhon
Era buio quando a cavallo uscirono dal cortile interno, il rumore degli zoccoli attutito dalla sabbia dei vicoli, un buio accentuato dalle lanterne che li accompagnarono fino alla porta della piccola cittadina; ma una volta sulla carovaniera, gli occhi ormai abituati all'oscurità, l'intero deserto apparve illuminato dalla dolce luce delle stelle. Gilestel era tramontata. Carnil troppo piccolo e troppo basso a oriente per brillare con un certo effetto e non c'era nessun altro pianeta; e tuttavia erano sufficienti le stelle fisse, sospese come lucerne nel cielo purissimo, a far distinguere ad Arakhon le forme generali e perfino il rosso dei capelli di Tuija che si muovevano mentre si voltava.
Khirdan stava ancora raccontando dell'assedio alla fortezza elfica di Ardinaak e ciò che diceva era di grande interesse; ma Arakhon avrebbe preferito che avesse rimandato il racconto a più tardi. In primo luogo cavalcavano lentamente, parlando; in secondo luogo Ciryaher stava fra loro due ed essendo un cavaliere nervoso, non abituato all'oscurità, rallentava ancora di più l'andatura, tormentando continuamente la bocca del cavallo; in terzo luogo Tuija era smaniosa di tornare sul luogo della prima imboscata per scoprire l'identità dell'arciere e, dato che Arakhon, contrario, era stato costretto a tratternerla con la forza, si era risentita e teneva il muso in maniera fastidiosa; e in quarto luogo stava morendo di fame, perché non avevano osato prolungare la sosta oltre il minimo necessario. Khalid, al suo modo frugale, aveva preso soltanto una ciotola di latte cagliato; ne aveva effettivamente offerto anche ad Arakhon, ma Suri aveva soggiunto che di certo a Barzam li aspettava il montone arrosto e che il capitano non doveva rovinarsi l'appetito. Arakhon aveva acconsentito prontamente, limitandosi a qualche sorso d'acqua; ma se ne stava pentendo amaramente.
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Suri [Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Tuija
All'andata, quel tratto di deserto era parso assolutamente sterile; in quel momento invece appariva, se non brulicante di vita, perlomeno abitato. Tre o quattro volte piccole creature nere erano sgattaiolate attraverso il sentiero, così vicino che Tuija si era sporta per vederle meglio, e una volta un qualcosa di molto simile a un grasso e lungo serpente aveva fatto fermare la cavalcatura di Ender così d'improvviso che per poco non era stato disarcionato. Poi, un branco di sciacalli aveva scatenato un baccano prodigioso non lontano dalla pista, ululando e abbaiando tanto da soffocare la voce di Khirdan e in una brevissima pausa si era udito il verso ancora più sgradevole di una iena, il cui ululato terminava in una lunga, folle risata tremolante, enormemente sonora nell'aria tiepida e immobile.
"Sono questi i vostri spiriti e demoni notturni?" s'informò Ender, rivolto a Nasir. "No, no, questi sono soltanto sciacalli e una iena", rispose Tuija, interrompendolo. "Ho notato una carcassa un poco di tempo fa e senza dubbio è su di essa che stanno litigando."
"Se volete i veri demoni bisogna salire sulle alture vicino a Tartaust. Per trovare i demoni bisogna andare là", disse Nasir con un mezzo sorriso. "Nella torre in rovina ne abita uno delle dimensioni di un ragazzo, più o meno: ha orecchie lunghe e appuntite e terribili occhi arancione... lo si vede spesso. E in una delle vecchie cisterne vivono i demoni divoratori di cadaveri", continuò sghignazzando.
"Vorrete usarmi la cortesia di smettere?", disse Ciryaher, con impazienza. "Non sono cose da dire, in questo momento..."
Erano adesso su un terreno apparentemente solido, sassoso in superficie e con una certa quantità di vegetazione bassa; sulla pista si procedeva di buon passo. Appena fuori, però, e bastava proprio poco, la vegetazione diventava di colpo più rada e si sprofondava nella sabbia, rendendo quasi impossibile procedere più che al passo con i cavalli. I cammelli si sarebbero mossi comunque con una certa rapidità, se ben condotti dai loro cavalieri; sarebbero rimasti però bene in vista alla luce delle stelle, e Abit confidava nell'inesperienza dei viaggiatori.
Si erano rimessi in marcia dopo una sosta breve. I cammelli dei nemici, animali relativamente abituati alla notte, dal passo lungo e rapido, avevano ben presto oltrepassato le ultime case fuori da Bir Tina, dirigendosi nuovamente a nord, con decisione. La scelta giusta. In lontananza, Abit vedeva oltre loro il pozzo di Bir Hafsa e gli edifici di Barzam. C'era qualcosa di familiare, nel volto della donna e del cavaliere che le stava accanto, stretto nel suo mantello.
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Era un arco grandioso, che superava in lunghezza la statura della maggior parte degli uomini e la cui larghezza, dalla parte del ventre, era pari a quella del polso di un arciere. Era fatto di legno di tasso, un albero che cresceva in terre molto distanti dal deserto. Era quasi sicura che fosse elfico, anche se non poteva averne la certezza, perché l'aveva trovato non ancora rifinito fra le cose della sua stanza, nella casa del suo padrone. Lei gli aveva dato forma, lasciandolo più spesso al centro, poi aveva esposto al vapore le estremità per curvarle nella direzione opposta a quella in cui l'arco si sarebbe piegato nel tenderlo. Aveva quindi dipinto l'arco di nero, servendosi di cera, olio e fuliggine, e inserito su ognuna delle due estremità del listello una nocca ricavata da un palco di cervo per agganciarvi la corda. L'arco era antico, il listello era già stato tagliato da mani esperte e delicate in modo tale che lungo il ventre dell'arco, cioè la parte che Abit aveva davanti a sé quando tendeva la corda, si trovasse l'anima del legno più densa, che veniva sempre più compressa via via che la freccia era tirata indietro, mentre sul dorso c'erano gli strati lignei più elastici, mantenuti giovani dalla vernice lucida che Abit aveva trovato già stesa, inalterata dagli anni.
E la corda, anch'essa era fatta di un crine di natura per lei misteriosa; spessa come canapa, ma morbida e profumata come capelli lavati con il sapone. Nell'attimo in cui la corda veniva rilasciata, al culmine dello sforzo dell'arciere, l'anima di quel legno si dilatava di colpo e gli strati esterni si distendevano, un'azione congiunta che faceva volare la freccia con forza dirompente. Il ventre dell'arco, nel punto in cui la mano sinistra stringeva il listello di tasso, era avvolto da strisce di tessuto, rese rigide mediante una colla ricavata da zoccoli equini, sulle quali era fissata una placca d'argento rappresentante una foglia.
Abit era all'oscuro di tutto quanto riguardasse quella foglia d'argento, ma conosceva il proprio arco e sapeva come fabbricare una freccia da un rametto di frassino o di betulla o di carpine, come applicare penne d'oca sullo stelo e come inserire le cuspidi d'acciaio datele da Zalarit, alcune delle quali avevano delle cavità per il veleno. Tutto ciò non aveva segreti per lei, eppure non aveva mai studiato la tecnica che permetteva a quella freccia di perforare scudi, cotte di maglia e carni. L'aveva appresa istintivamente, grazie a una lunga pratica iniziata sin dall'infanzia, ai continui esercizi che alla fine le facevano sanguinare le dita con cui teneva la corda, finché il gesto di tirare quella corda fin quasi all'altezza dell'orecchio non era diventato qualcosa di automatico, finché il torace e i muscoli delle braccia non le si erano irrobustiti nell'adolescenza, come capitava a tutti gli arcieri, e il seno non le si era modellato su quei muscoli. Non aveva bisogno di conoscere la tecnica del tiro con l'arco, perché questo era per lei un fatto come respirare, svegliarsi, combattere.
Abit aveva già scelto la sua freccia migliore. Era nuova, così nuova che la colla verdognola spalmata sul filo che teneva ferma la coda era ancora appiccicosa, ma aveva la canna leggermente rigonfia subito sotto la testa per restringersi poi verso le piume. Lunga quanto un terzo dell'arco, era una freccia che poteva colpire con forza, grazie a quel suo stelo di frassino straordinariamente diritto, e Abit non l'avrebbe sprecata, anche se prevedeva di tirarla molto lontana.
Si fermò e lo cercò con gli occhi. Lo vide davanti a sé, sulla destra, molto distante, ma in altre occasioni era riuscita a colpire bersagli ancora più lontani. Sarebbe stato un colpo ad una gittata superiore alle capacità di qualunque uomo, fosse egli dell'Harad o dell'Ovesturia, ma non impossibile, tanto possente era l'arco nero e tanto giovane, forte e precisa la mano di chi lo manovrava, ed acuti i suoi occhi. Così si volse da quella parte, si mise in posizione, poi, nel nome di suo padre, incoccò la freccia prescelta e tirò indietro, all'altezza dell'orecchio, l'impennaggio di piume bianche. Puntò al petto, piegò l'arco leggermente verso destra per compensare il vento e scoccò la freccia. Questa partì diritta, senza incurvarsi come avrebbe potuto fare un dardo mal calibrato, e Abit la seguì con gli occhi mentre saliva in aria e poi ricadeva.
“Ah, Radfeq! Sono contento che siate venuto presto. Vi prego, accomodatevi qui sul diwan, è rimasto un poco di kafe”
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Gli uomini dal capo fasciato di blu scaraventarono il grasso cavadenti nella stanzetta squallida dove Ba era rimasto ad aspettare dopo la partenza di Abit, sollevandolo per le braccia e i piedi e facendo in modo che sbattesse violentemente la pancia per terra e s’infilasse con la testa dritto dentro al grosso cesto di vimini, sfondandolo. Ba rimase in silenzio, guardando i tappeti sporchi e la finestra che dava sul vasto cortile aperto, e dopo un po’ disse: “Vi ho visto parlare con le guardie e con altri al mercato, e defilarvi con eleganza di fronte alle domande dei miei servi. Permettetemi di dirti quanto mi sia piaciuto il vostro comportamento, siete quasi riuscito a raggirarci. Posso offrirvi questo magnifico tabacco?”
“Siete molto gentile, signore” , lo ringraziò Radfeq, trascinandosi fuori dal cesto, stordito. Rosso per il trattamento subito, con il viso graffiato e pesto, Radfeq rimase in ginocchio di fronte a Ba, a capo chino. I due servi vestiti di blu erano rimasti a un passo da lui, pronti ad afferrarlo di nuovo, a un minimo cenno del loro padrone. Radfeq prese la pipa, e aspirò avidamente il fumo.
“Mi addolora enormemente” , riprese Ba, “vedere un uomo del vostro prestigio in una simile situazione. Lasciate che vi preghi, signore, per il vostro bene e per quello dei vostri compagni, di non ostinarvi.”
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Ba suonò un campanellino. Altri tre dei suoi servi entrarono nella stanza da una piccola porta alla sua destra; un uomo curvo, con la camicia strappata, le braccia legate dietro la schiena, fu condotto zoppicando fino accanto a loro: dove non era tumefatta e sanguinante, la faccia aveva un colorito giallastro. Radfeq lo ricordava, senza esser ricordato da lui: il marinaio straniero che viaggiava con Khalid e con la donna, Tuija. Quello che faceva il doppio gioco e lavorava per il bimbashi . Un mercenario, ma in quel momento stava fissando il suo carnefice con un’espressione sul viso che gli faceva molto onore.
Ba diede un comando, e i due uomini blu trafissero il prigioniero alle reni con i loro lunghi coltelli; la faccia esplose in un orrore scarlatto, il corpo sussultò con estrema violenza, poi si afflosciò, ancora sostenuto da loro. Inorridito e bianco in viso, Radfeq lasciò cadere la pipa e vomitò.
“...se vi ostinerete a negare” , stava dicendo Ba, “vi farò buttare dalla finestra. Se faceste qualche piccola ammissione, parlandoci di loro, dei loro discorsi, e ci deste qualche indicazione sulla direzione esatta che hanno preso ...”
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Per Samanduin
Samanduin, le voci sono vere. Continua i nostri affari ma diffida di tutti. Organizza uomini e difese. I tempi duri sono alle porte e dobbiamo prepararci. Sto arrivando.
Ogni settimana alla domenica recapita in casa di madama Niasi un regalo da parte mia. Niente di che ma modesto non riferire a nessuno ciò. Se non sei pratico in queste cose fatti consigliare. Non esagerare
Padron Arakhon Eshe
Per Yampe
Cara Yampe desidero rivederti al più presto. Questo deserto mi ha stancato e non vedo l'ora di sentire la brezza marina accanto a te
Con affetto Arakhon
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Samaduin
La tavoletta di terracotta che fungeva da vassoio, accanto alla bottiglia di cristallo del vino sul tavolino di ottone, dava un'idea molto accurata dell'opulenza della quale Jampe si era circondata. Aveva messo bene a frutto i soldi di Arakhon, e viveva in mezzo a ciò che le piaceva. Samaduin, disteso sull'alto letto a baldacchino, lasciò vagare lo sguardo dagli arazzi con le ninfe alle tartine con la salsa piccantissima. "Un contrasto orrendo." , pensò.
Si contemplò i piedi per un po', prima di tornare alla salsa e ai suoi probabili ingredienti, a parte il peperoncino rosso. "Come può essere ingannevole l'odore a volte" , mormorò, "può essere familiare eppure si è incapaci di riconoscerlo" . Di nuovo accostò il naso al vassoio, socchiudendo gli occhi mentre annusava, e istantaneamente, a contraddire le sue parole, l'aroma ebbe un nome: cantaridino, una sostanza ricavata da certi insetti, noti a tutti gli speziali di Ostelor e ai frequentatori di bordelli. Insetti color verde brillante, iridescenti, che emanavano un forte odore; la polvere era utilizzata come afrodisiaco: l'ingrediente più attivo dei filtri d'amore.
"La 'mosca verde' , dunque, povera cara?" disse e, dopo, un po', avendone soppesato le implicazioni, soggiunse: "Vale più della polvere d'oro. Con ogni probabilità l'ha trovata da Omep e la conosce bene. Eppure tremo al pensiero degli uomini che, usciti di qui, vagano per la città come una mandria di tori affamati. Ne avverto distintamente gli effetti su me stesso; e senza dubbio si faranno ancora più forti". Rise.
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Jampe
Jampe entrò, finalmente. Non era stata trattenuta soltanto dalle faccende, perché una fusciacca blu le fasciava la vita facendola sembrare ancora più snella e si era aggiustata i capelli; ma quando gli si sedette accanto era nervosa. "Ma non avete preso niente" , disse con vivacità, porgendogli la tavoletta con le tartine rosse. "Vi verserò un bicchiere di vino mentre finite queste."
"Un bicchiere di vino, con grande piacere" , rispose Samaduin, "ma solo se posso avere uno di quei squisiti dolcetti di marzapane."
Jampe fu pronta a dire: "Non riesco a rifiutarvi niente. Vado a prenderveli subito".
"E già che sei così gentile, vorresti portarmi le lettere di Arakhon?" le gridò dietro Samaduin; sapeva di doversi muovere con molta prudenza, le poche esperienze che aveva avuto con le donne nel corso della sua carriera erano state, tutto sommato, scoraggianti, e non era affatto sicuro della direzione da prendere.
"Ecco" , annunciò Jampe tornando, "marzapane e lettere" . Prendendo la caraffa di cristallo disse: "Dovremo condividere il bicchiere: è l'unico pulito in tutta la casa. Non vi dispiace bere con me, non è vero?"
"No, davvero" . Rimasero in silenzio per qualche minuto, mordicchiando i dolcetti e passandosi vicendevolmente il bicchiere; una pausa amichevole, cameratesca, nonostante la tensione in entrambi. Alla fine Jampe domandò: "Sentite, è come padrone che volevate chiedermi delle cose?"
"Sì" , rispose Samaduin. "Cioè, no. Ti spiegherò... ma prima lasciami dire come sono dispiaciuto per il mio comportamento nei tuoi confronti. Non c'è niente che io possa fare perché tu mi perdoni?" domandò, posandole una mano sul ginocchio.
"Mio caro, vi perdono con tutto il cuore. Datemi un bacio".
Le diede un bacio. Aveva già notato il suo seno ansimante. Sapeva molto bene che non stava esattamente ansimando per lui, ma decise che avrebbe fatto finta che fosse altrimenti. La sua esposizione del motivo della visita, i consigli da chiedere per i regali a Niazi, s'interruppe: i loro occhi s'incontrarono. Samaduin mormorò parole prive di significato. Lei parve sul punto di respingerlo bruscamente, ma finì per stringere con forza le dita dell'uomo, dicendo: "Devo per forza supplicarvi in ginocchio?"
Per Urrit da Suri
Ora è tardi e sono molto stanco e padron Arakhon continua a pianificare il nostro ritorno. Mi fa male la mano poiché molte sono le missive che ho scritto e presto so che Tul Harad mi apparirà di fronte, come in un sogno, sarà la città più bella del mondo. Il mare le darà delle dolci carezze e le mie pupille godranno dei riflessi luminosi del sole sul mare limpido, come occhi che brillano di gioia.
Sarà la gioia in quel momento a riempirmi il cuore. A presto
Suri
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Stava scendendo la sera, quando Ba uscì dalla segreta, lasciando Abit nell’angolo, al buio; la chiuse dentro.
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Stava meglio, il suo animo era più sereno mentre s’incamminava verso il salone deserto e spoglio, dove l’attendeva la cena; un cambiamento d’umore che lui stesso non si aspettava. Quando la picchiava, si rilassava più di quando faceva l'amore con lei, e si aspettava ora una buona serata, una buona conclusione per una giornata piena di cattive notizie dopo il massacro a Bir Tina. Ma per il resto, la sua percezione dell’irrazionale, la sua sensibilità per il pericolo vibrava a tal punto, percepiva a tal punto fluidi immateriali, da renderlo già preparato a vedere ciò che effettivamente vide senza sorprendersi minimamente.
Ogni cosa, in quella stanza che sembrava scavata nella roccia viva, era come la ricordava, come l’aveva messa prima dell’arrivo di Abit. Alte finestre ad arco portavano ad una terrazza senza parapetto, al di là della quale si apriva il deserto, vasto come l’oceano. Le lampade di metallo scuro, con la fiamma troppo luminosa, rilucevano, nere eppure splendenti come argento. Nel caminetto, il fuoco ruggiva, ma non emanava calore; ogni pietra sembrava vagamente una faccia tormentata.
Era tutto uguale, c’era una sola differenza: tre statuine, poste sul tavolo, dalla forma vagamente umana, come se lo scultore avesse avuto fretta nel lavorare l’argilla. Una statuina portava un arco, reso più chiaro dal confronto con la rozza sagoma umana; un’altra stringeva un minuscolo pugnale sulla cui elsa scintillava un puntino rosso. L’ultima assomigliava ad un uomo con un cappuccio. Ba si sentì rizzare i capelli e si avvicinò quanto bastava a scorgere l’airone inciso fin nei minimi particolari sulla fronte della statuina con il cappuccio.
Sollevò la testa di scatto, preso dal panico, e si trovò a guardare proprio nell’acqua del catino. L’immagine riflessa era confusa, ma si distinguevano i lineamenti, e l'airone sulla fascia che portava attorno alla fronte.
“Ancora un fallimento. Ancora una volta.”
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Ba si girò di scatto, ansimando. L’attimo prima era da solo, ma ora, fermo davanti alla porta, c’era il Maestro. Quando parlò, caverne di fiamma presero il posto degli occhi e della bocca.
“Credi che sia così facile?”, urlò Ba. “Cosa vuol dire, ancora un fallimento? Non è colpa sua, questa volta. Ha fatto ciò che poteva. L'abbiamo fatto tutti. Sono tutti morti.”
“Lo dici sempre. Questo dialogo fra me e te si è già verificato innumerevoli volte. Ogni volta c’è una ragione diversa e un altro nome, ma a fallire sei sempre tu.”
“Non è vero!” Fu un bisbiglio di disperazione.
“Ogni volta scagli contro di loro la tua misera forza e ogni volta, alla fine, torni senza nulla in mano. Devono capire chi è il padrone. Povero sciocco, se continui così non potrai mai vincere, contro di loro. Li hai sottovalutati, al di là d’ogni ragionevole errore.”
“Bugia! La trappola era tesa, è stata la sorte a salvarli ancora una volta! Non potevano fuggire!”
Il Maestro rise, di scherno; Ba avrebbe voluto tapparsi le orecchie per non udirlo, ma si costrinse a non muovere le mani. Però gli tremavano, quando infine la risata terminò.
“Verme, tu non sai niente. Sei ignorante come uno scarafaggio sotto una pietra, schiacciato con altrettanta facilità.
Questa lotta prosegue dal momento della creazione. Gli Uomini pensano sempre che sia una guerra nuova, ma è sempre la stessa, riscoperta. Solo, ora il mutamento soffia nel vento del tempo, viene dall’Ovest. Stavolta non ci sarà ritorno. Quegli orgogliosi lombrichi che pensano di potersi opporre a me... li vestirò di catene e li manderò a correre nudi per ubbidire al mio volere, o riempirò delle loro anime il Pozzo del Destino, dove urleranno per l’eternità. Tutti, tranne coloro che già mi servono. Loro staranno solo un gradino al di sotto di me. Puoi vincere, e scegliere di stare con loro, mentre il mondo striscia ai tuoi piedi. Per l’ultima volta, Zalarit, ti offro la possibilità di vincere; ma questa volta sarò io a decidere la prossima mossa. Giocherò per un poco con i tuoi pezzi.”
Il Maestro prese dal tavolo la statuina con il pugnale, e la gettò nel fuoco.
“No!” gridò Ba.
“In ginocchio!” il Maestro indicò il pavimento davanti a sé. L’ultima parola continuò a echeggiare nella stanza, rimbombando su se stessa più volte, tanto che Ba sollevò le braccia come per proteggersi la testa. Barcollò indietro, urtò il tavolo, gridò per soffocare l’eco che lo perseguitava. “Nooo!”
Si girò di scatto e col braccio spazzò il piano del tavolo cercando di prendere le altre due statuine. Ma non c’erano più.
L’eco turbinò attorno a lui e lo travolse nelle tenebre.
L’urto con cui toccò terra la svegliò, mentre cercava ancora di strapparsi dalle tenebre che l’avevano avvolta.
La stanza era buia, ma meno di quella del sogno. Freneticamente cercò di concentrarsi sulla fiamma, di dissipare la paura, ma non riuscì a raggiungere la calma del vuoto. Aveva tremiti alle braccia e alle gambe, ma si aggrappò all’immagine della fiamma, finché il sangue non smise di ronzarle nelle orecchie. Di colpo si girò e infilò la mano sotto il sacco appoggiato sul letto; poi si lasciò ricadere e strinse al petto il pugnale col rubino sull’elsa.
“E’ l’ultima volta” , pensò. “La statuetta aveva il mio viso. Il mio viso! Sembrava di carne. L’ha bruciata. E' la mia ora."
Mentre si alzava, sentì una fitta di dolore. Si accostò al tavolo, e dopo tre tentativi riuscì ad accendere una candela; aprì alla luce la mano. Conficcata nel palmo c’era una scheggia di legno scuro, liscia e lucida da un lato.
La fissò, trattenendo il fiato. All’improvviso ansimò e cercò di estrarre in fretta la scheggia, infine riuscì ad afferrarla con i denti e con uno strattone deciso la tolse. Ma nel palmo c’era ancora la ferita, e sanguinava.
"E' la mia ora. Ha scelto me. Ho poco tempo.”
Immerse le dita nella brace del focolare, senza badare al dolore, e si tracciò i segni sulla fronte, mormorando le parole che le avevano insegnato.
Een gweeth rees-ten-neen
ee fie nar-hahn-nehn
Ee Lakh ehd ar-thohn gwah-nehn
Oo-reh-nee-ah-thakh ee ah-mar gall-ehn
Ee reh-nee-ahd leen nay or, noo-eeth-ahn-nehn
I legami sono tagliati , il mio spirito è spezzato
La mia Fiamma ha lasciato questo Mondo
Non camminerò più su di esso
Il mio viaggio finisce nell'Oscurità
Appoggiò la punta del pugnale sul suo cuore, chiuse gli occhi, e si lasciò cadere, uccidendosi, con un solo sospiro.
Seduti silenziosi con la schiena rivolta verso il fuoco, con lo sguardo perso nelle tenebre circostanti, trattenevano il respiro. Non accadde nulla. Né un suono né un movimento turbavano la notte. Shanavas si mosse, sentendo che doveva assolutamente rompere tutto quel silenzio: aveva una voglia matta di mettersi a gridare.
"Eccolo" , sussurrò Rahiman. "Cos'è?" , balbettò Shanavas allo stesso tempo.
Sull'orlo della piccola conca, dalla parte opposta dell'oasi, sentirono, piuttosto che vederla, un'ombra che si ergeva, un'ombra o forse più di una. Scrutando le tenebre attentamente, le forme parvero ingigantirsi e presto non ebbero più alcun dubbio: una figura alta su un cavallo era lì e li guardava. Era talmente nera che sembrava un buco nell'ombra scura che la circondava. Rahiman credette di sentire una specie di sibilo, come un respiro velenoso, e un brivido gelido gli attraversò la schiena. La forma avanzò lentamente.
Il panico s'impadronì di Shanavas e Rahiman, che si gettarono per terra, incapaci di fare qualsiasi altra cosa. Tremavano come per un gran freddo. Improvvisamente la forma diventò chiarissima, benché tutto il resto rimanesse tenebroso e scuro.
Un grido acutissimo e potente squarciò la notte.
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La notte era inquieta. Sul suo giacilio, Kahlid non riusciva a trovare una posizione adeguata che non lo facesse contorcere dagli spasmi di dolore provocati dalla ferita al ventre.
“Vieni ragazzo, assaggia questo”.
Kahlid finì di incidere un cigno nel legno, la forma strana di un volatile che non aveva mai visto, ma che aveva imparato a memoria grazie ai racconti del suo maestro. Stipò il giocattolo accanto alle altre decine che aveva inciso in quegli ultimi mesi e si diresse verso la figura imponente, in controluce, di Mutamin.
“ Che cos’è?” chiese il ragazzo curioso. “E’ quello che devi sapere e ciò che forse non saprai mai”.
Stava crescendo. Cominciava a farsi delle domande sul mondo, su ciò che era oltre i confini della sua vista. Le storie del suo maestro sembravano provenire da mondi immaginifici eppure sapeva per certo che egli le aveva vedute e vissute davvero.
“Se non provenisse dalle mie mani, lo assaggeresti senza fare domande?”. Il viso di Mutamin era così rassicurante, in cuor suo il giovane haradan sapeva bene che ogni esperienza portata dal suo mentore era qualcosa di meraviglioso. “Lo assaggerei, mio signore, anche se mi fosse dato dalla più bella principessa di Imladris”. Dove aveva sentito quel nome strano ed esotico?
Mutamin non mosse un solo muscolo della propria faccia, ma rimase profondamente stupito dalla risposta di Kahlid. Il giovane pronunciò le stesse parole che egli avrebbe detto al posto suo e che probabilmente disse a sua volta quando fu più giovane, in un caso simile.
Kahlid si risvegliò di soprassalto, mentre una lacrima mista ad una goccia di sudore gli rigavano il volto. Non sapeva perchè ma pensò subito a Tara e a quello che aveva sentito dirle prima che si separassero.
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