Tartaust, a metà degli anni '70 della Quarta Era, è ancora una delle città più grandi dell'Harad orientale.
E' situata in cima ad una collina alta e molto larga, nel punto in cui i due grandi fiumi Chenna e Siresha si uniscono. La città vecchia, che occupa la sua parte settentrionale, è attualmente in rovina; la parte centrale dentro alle mura è abitata dai più ricchi e dalla popolazione di mercanti e artigiani, mentre una tendopoli, costruita sulla riva del Siresha ed estesa fino a ridosso della porta meridionale della città, ospita i più poveri, i viaggiatori e le carovane, e alcuni mercati di stoffe e animali.
** you do not have permission to see this link ** , 1990. Non più in stampa.
Conosciuta per i suoi prodotti tessili, Tartaust è una città di tessitori, filatori, sarti e tintori; il commercio di stoffe e tessuti costituisce, assieme a quello dei materiali da costruzione, l’elemento più importante della sua economia, e gli stessi sono conosciuti e rinomati in tutto l’Harad e oltre, fino a Ostelor, Umbar e le lontane città marinare dell’estremo Oriente. Gli arazzi adornano gli interni di qualsiasi struttura, i tendoni fanno ombra davanti agli ingressi, fini tappeti ne coprono i pavimenti, e cuscini di tutte le dimensioni e colori fungono da arredamento e riempiono gli angoli vuoti o troppo stretti delle case. Gli abitanti della città normalmente indossano tabarri talmente ornati da frange, elaborati cordoni e ricami da sembrare più opere di un artista che abiti.
Le case di Tartaust sono costruite principalmente in pietra e mattoni, le sue cave essendo le più importanti della regione e fonte di materiale da costruzione anche per molte altre grandi città dell’Harad. La città è monumentale; pietra e decorazioni in laterizio formano intricate cornici e motivi sulle facciate degli edifici: le residenze sono alte molto spesso fino a quattro piani, e le scale esterne e gli archi sono un elemento comune.
La città vecchia fu costruita nel primo terzo della Seconda Era, là dove la gorgia sotto le rapide di Skara Riskal si apre sulle piane a nord dei Tur Betark, conosciuti dai viaggiatori provenienti da Occidente come gli Ered Laranor, Monti Gialli. Alla sua fondazione, Tartaust era la seconda città per importanza nel Chennacat e la capitale della provincia; come gli abitanti delle altre città del Chennacat, chi risiedeva in Tartaust era orgoglioso della potenza della città e viveva seguendo una filosofia d’espansione, dimostrata spesso ai danni dei vicini. Tartaust fu spesso in guerra, e mantenne la sua indipendenza fino all’ultimo periodo della Seconda Era, nel quale fu conquistata e ridotta a cenere e polvere dall’esercito del re Akhorahil.
Tartaust iniziò ad essere ricostruita sulle fondamenta delle rovine nella Terza Era, da nomadi che pian piano vi si stabilirono in cerca di un punto dove potersi riunire. Il sito era in un’ottima posizione, facilmente difendibile, e le superstizioni del passato e le storie di maledizioni lasciate dal Re Tempesta, Akhorahil, furono presto dimenticate. Dalla metà della Terza Era, per un lungo periodo, Tartaust fu governata da un legato in nome del dittatore di Tul Isra, la grande capitale marinara, anche se la popolazione non prestò mai eccessiva attenzione a questa dipendenza o dimostrò grande interesse per le sue leggi; la distanza dalla capitale rendeva particolarmente difficile per il legato mantenere l’ordine e imporre le decisioni del governo centrale. Al tempo della Guerra dell’Anello, al primo segno di debolezza di Tul Isra, i cittadini più anziani di Tartaust rovesciarono il legato e dichiararono l’indipendenza della città e della regione; negli anni ’70 della Quarta Era, la regione di Tartaust è ancora retta dal Consiglio degli Anziani, ma il nuovo dittatore di Tul Isra sta preparando un grande esercito per riunire nuovamente sotto il dominio della capitale tutte le città indipendenti e marciare poi contro i nemici comuni.
Gli abitanti, anche se principalmente di sangue Haradan, mostrano nei loro lineamenti e nella loro corporatura le tracce degli antichi conquistatori Numenoreani e dei loro servitori, giunti dall’Ovest. La pelle molto chiara, tenuta accuratamente protetta dal sole, e i lineamenti occidentali, sono in Tartaust sinonimo di squisita bellezza. I nomadi autori della rifondazione di Tartaust nella Terza Era non erano di tribù del Grande Harad, ma più strettamente legati agli abitanti del Ciryatandor, di Bozisha-Dar e delle terre settentrionali e centrali degli Easterling; il contrasto tra le due etnie, anche se stemperatosi nei secoli, è ancora abbastanza evidente, ma non costituisce un problema per i cittadini che vivono tra loro in piena armonia. Tartaust è infatti una città molto libera, dove non esistono divisioni in caste o pregiudizi legati al culto o all’origine razziale; per questo, nonostante la schiavitù sia correntemente praticata come forma di profitto così come in tutto il Grande Harad, le fughe di schiavi dai campi di prigionia non sono inconsuete e la popolazione, con l’eccezione dei carovanieri e dei mercanti che sovrintendono ai traffici sui fiumi, non pone troppa attenzione alle stesse e spesso aiuta i fuggiaschi.
Ancora una volta il ragazzo con gli occhi a mandorla era venuto a trovarla nella sua tenda, sotto le mura di Tartaust. Era giovane, carino, e non inesperto.
Liluma si faceva pagare bene, ma era bella. Di giorno faceva molto caldo, da lei venivano solo gli uomini del posto che passavano al mercato, di nascosto alle loro mogli, e qualche volta Abasi; di notte invece venivano gli stranieri.
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Liluma, la prostituta della tendopoli
Il ragazzo era simpatico; dopo l'amore, Liluma gli aveva chiesto che cosa facesse così lontano da casa.
“Un posto o l’altro è lo stesso. Non ho casa. Però mi piacerebbe andare via; qui c’è solo pietra, solo terra spaccata dal caldo”, gli aveva risposto.
“Tua madre e tuo padre?", gli aveva chiesto ancora Liluma.
“Sono un uomo, la madre non serve più. Mio padre non avrebbe onore se fossi ancora con loro; sarebbe contento, sì, ma non è il nostro modo”.
“Non vivete assieme, nelle vostre terre? Con la famiglia?", aveva ribattuto lei.
“Non abbiamo terre nostre. La terra nostra è tutto il mondo. Noi andiamo dove ci porta il vento; mi ha portato qui da te. Anche tu non hai famiglia; e allora che cosa ci fai qua? Non ci sono tante cose là dove vengo io, solo steppa, sempre steppa, cacciare e raccogliere da mangiare. Non c’era più guerra, e allora sono venuto qui, con la carovana. Però mi piacerebbe andare via, adesso. Qui non ho trovato niente, padre vorrebbe avere un figlio che abbia onore”.
Il ragazzo sembrava triste, mentre lo diceva.
“Perché non te ne vai? Non hai soldi”?
“Ho qualche soldo, non tanto, però ho ancora qualcosa per te. Vorrei un cavallo, ma soldi non bastano per il cavallo e nel deserto muore senza una guida. E allora resto ancora un poco qua con te, fino a quando non guadagno più soldi per il cavallo e la guida, dopo andrò via”.
Liluma era rimasta silenziosa per un pò; pensierosa. Da fuori entrava un pò del vento freddo della notte.
“Faresti una cosa per me?", gli chiese.
“Ragazza, dimmi cosa. Per te mi butterò nella corrente di Siresha, e nuoterò fino al mare. Prenderò i fiori gialli che crescono...”
“La mappa", disse lei.
Il ragazzo saltò in piedi nudo, rovesciandola per metà dalla branda; Liluma si spaventò terribilmente, ma prima che riuscisse ad alzarsi e potesse difendersi il coltello era già sulla sua gola. La donna tremava adesso; voleva aiutare Xilon con tutto il suo cuore, voleva che scappasse da Tartaust e dalla schiavitù, ma adesso questo ragazzo Easterling l'avrebbe uccisa e tutto sarebbe finito male.
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Xilon, lo schiavo venuto da Hathor
“Come sai della mappa? Chi ti ha detto che ho la mappa? L’hai rubata mentre dormivo”.
“No, no! L’ho solo... vista, mentre dormivi. Metti giù il coltello, non voglio la tua mappa. Te l’ha data tuo padre”?
“Padre? No. La mappa l’ho trovata. Era di un morto; là, su nel nord. Adesso è mia, i morti non chiedono indietro le cose e poi non l’ho ammazzato io, c’erano solo le ossa. Penso che sia stato nella guerra. Ma la mappa mi ha portato qui e mi porterà via; non la dò a nessuno”.
Il ragazzo mise via il coltello. “Scusa comunque, non ti faccio niente. Ma non devi cercare nella mia roba e non devi dire a nessuno della mappa. Non ho altri soldi per te, mi piaci ma non li ho”.
Liluma stava in piedi adesso, nuda di fronte a lui.
“Voglio solo che tu mostri la strada a un amico, che lo porti a Tul Harar", disse.
“Tul Harar? E’ dall’altra parte. Sul mare. Cinquanta leghe, almeno. Molti, molti giorni a piedi; tre settimane, almeno. Che ci faccio a Tul Harar? Non ho voglia di andare là”, rispose lui, scuotendo la testa con decisione.
Liluma gli si avvicinò; era ancora profumata.
“Se lo fai, potrai venire da me tutte le volte che vorrai”.
“Non mi piaci così tanto. Tre settimane almeno! I banditi del fiume! No”.
Delusa e offesa, Liluma si ritrasse. Prese il telo dalla branda e se lo avvolse attorno, annodandolo sopra il petto.
“Se non ti piaccio tanto, va' via”.
“Va bene”, rispose il ragazzo. Andò verso la cassapanca e cominciò a raccogliere le sue cose, con noncuranza, come se non fosse successo niente tra di loro. Liluma però si voltò; c'era ancora una speranza per Xilon. C'era un'idea.
“Aspetta!”, gli disse. “Se porti via Xilon, ti comprerò un cavallo”.
Il ragazzo si fermò un attimo, poi riprese a metter via le sue cose.
“Un bel cavallo", aggiunse Liluma, nel modo più sensuale che sapesse. Il ragazzo si fermò di nuovo.
“Bello, quanto...”?
“Molto bello”, disse Liluma. “Coi finimenti di pelle di Poàc e una coperta delle più belle di Tartaust”.
“Un cavallo così vale di più di tre pezzi d’oro?”, chiese il ragazzo.
“Molto di più”, rispose Liluma, e adesso sorrideva.
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Abasi, un soldato di Tartaust a guardia degli schiavi
Quell’osteria di Sud Tulima, posta poco fuori dalle mura, in un punto in cui la massiccia piana di granito si spaccava e precipitava verso il basso in un dirupo di roccia sgretolata, era ben conosciuta e frequentata dai carovanieri e dai pochi avventurieri che viaggiavano da soli verso la baia di Ormal o verso Tartaust e le Montagne Gialle. Fuori soffiava vento misto a sabbia, come quasi sempre; il vecchio Dalan, e il suo gruppo, erano appena entrati.
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Dalan [Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Minghan [Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Quacha [Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Sube [Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Adimu
Erano arrivati a Tulima in primavera. Scappati, o scacciati dalle loro terre e praterie più settentrionali dopo gli sconvolgimenti portati dalla grande guerra, forse, oppure semplicemente in cerca di fortuna.
In quegli anni, non c’era nessuno nel Sirayn o in tutto il Chennacat che non avesse bisogno di fortuna. La grande guerra era stata combattuta inizialmente solo nel lontano nordovest, nella potente Gondor; poi anche ad Umbar fino al deserto, nei territori del Khand e attorno al mare di Rhun, dei quali la gente di Dalan era originaria, ma non era mai arrivata al Chennacat. Il re di Gondor non aveva interesse per il Chennacat. O forse semplicemente non era ancora arrivato fin là; Elessar Telcontar era un conquistatore, le sue navi erano già arrivate a Bozisha e a Ostelor e prima o poi si sarebbero viste anche a Tul Isra.
Ma anche senza le armate di Elessar, la guerra aveva già provocato molti danni a Tulima e a tutta la regione. Ottant’anni prima, quasi tutti gli uomini, giovani e vecchi, in grado di combattere erano partiti per la terra di Mordor e non erano più tornati.
Poche carovane partivano da Tulima, ormai; non solo Ostelor, ma tutte le città marinare del Dominio avevano visto ridursi di molto i loro commerci. Il potente esercito dei Bianchi era rimasto fermo durante la guerra, e poi via via aveva smobilitato e si era ritirato nelle città del Dominio stesso. Hathor e gli altri stati oltre il Mumakan erano quasi alla fame, depredati della loro ricchezza, quasi interamente sottratta loro dal Dominio. I ricchi Elfi di quelle coste erano stati spazzati via, trucidati dai Valdacli assetati di potere; la stessa regina degli Elfi della baia di Usakan era stata assassinata.
Di giorno le piste che partivano da Tulima erano ora rese pericolose dai banditi; di notte, orchetti senza più un padrone vagavano in cerca di vittime e di sangue. E più ancora di questo, i governanti di Tulima temevano la setta del Fuoco Segreto e gli adoratori degli altri Dei.
Dalan era senza dubbio il capo; aveva due mogli, Sube e Quacha, e assieme a loro c’erano un giovane guerriero molto bravo con l’arco di nome Minghan e una strana ragazza brutta e sfregiata, una mezzosangue. Avevano eletto l’osteria a loro casa; a Damar, l’oste, questo non era dispiaciuto fino a quando le borse di Dalan e degli altri erano state piene, ma di recente Dalan era rimasto a corto di denaro e Damar stava pensando ad un buon modo per buttarli fuori.
Akmal, il beduino, era arrivato a tarda sera assieme a una bella selvaggia di nome Checheg, anche lei della cerchia di Dalan, e di un carovaniere dell’Harad, Adimu, una specie di sciamano. Dovevano essersi già dati appuntamento al mercato, perché Dalan li stava aspettando.
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Akmal [Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Checheg
Avevano cenato e parlottato e bevuto a lungo. Poi Akmal aveva preso un sacchetto nero dalla sua veste, e rovesciato sul tavolo parecchie piastre d’oro, rettangolari e piuttosto spesse. Erano istoriate con simboli, brillavano alla luce della candela, e pesavano. Minghan e Quacha si erano precipitati a prenderle e le avevano morse, per vedere se fosse veramente oro; Dalan aveva finto impassibilità, ma Damar sapeva che era rimasto molto colpito.
“Questa è la nostra fortuna, Dalan!”, aveva esclamato Minghan. “Pensa a quanto valgono!”, aveva detto.
“Pensa se ce ne fosse una cassa!”, aveva aggiunto Quacha. “Diventerai il signore di Nagchu! Quanto valgono!”.
“Valgono anche le nostre vite, Akmal?”, aveva detto Dalan più freddamente. “Sono abbastanza vecchio e ho imparato a usare la mia testa. Non ci sono miglior predoni di quelli della tua terra, uomo. Perché vieni da noi?”.
Akmal aveva fissato il vecchio orientale, poi si era seduto e aveva cominciato a raccogliere le piastre d’oro.
“Perché, nella mia terra, non si fidano di me”, aveva detto con fastidio. “Hanno ancora paura del Re Tempesta e delle sue maledizioni. Sono passati centinaia di anni, ma non vogliono viaggiare sulla strada di Ny Chennacat; preferiscono stare nelle loro case, sui loro cuscini colorati”.
Chiuso il sacchetto, Akmal l'aveva messo via, senza però prendere le piastre che Quacha e Minghan avevano in mano e senza nemmeno chiedergliele, e lasciandone ancora una sul tavolo per il silenzio dell’oste, con il quale si era scambiato un cenno d’intesa. Poi aveva versato dell’altro vino per Dalan, una pinta intera, e se n'era versato un terzo per sé.
“Questo è il modo in cui divideremo, Dalan. Due parti a voi, una a me. Più roba portiamo via, più soldi e tesori per tutti”, aveva detto, fissando il vecchio negli occhi. “Voi siete guerrieri Easterling; non avete paura del Re Tempesta”.
“Il Re Tempesta? E chi è questo, uno stregone che fa piovere? Eh!”, aveva riso Quacha, e Minghan, quasi urlando, aveva aggiunto: “Non temo nessun Re! Se è ancora là, lo impiccheremo!”.
“Silenzio, stupidi!”, aveva gridato Dalan, saltando in piedi e rovesciando il vino. Minghan e Quacha erano ammutoliti; il vecchio sembrava infuriato. “Giovani senza cervello, vi taglierei la lingua”, aveva sibilato. Poi si era seduto di nuovo, continuando a guardare Akmal.
“No, Akmal”, aveva detto Dalan; “Non ho paura del Re Tempesta. Verremo con te. Ma solo per i tre quarti del tesoro”. La sua mano aveva stretto con forza il boccale.
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