[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
“Non dirò che non m’importa un fico secco di Akhorahil e di tutte le leggende di questo schifoso deserto, e nemmeno che tutta questa strada l’abbiamo fatta per niente e che ci manca solo una tempesta vera, altro che Re Tempesta, perché potrebbe portare sfortuna; ma in ogni caso, domani ce ne torniamo indietro, ci liberiamo finalmente di questa maledetta polvere e andiamo a casa” , brontolò Arakhon.
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Tara [Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Arakhon
“Se ho capito bene, Mutamin" , disse Tara, "avremmo dovuto trovare il passaggio che portava sotto la cresta che Khalid ricorda all’alba di tre o quattro giorni fa, prendendocela comoda”
“Già!" continuò Arakhon, "invece marciamo la mattina e la sera, e riposiamo a mezzogiorno e la notte, ma non troviamo assolutamente niente, neanche un punto per passare oltre la cresta arrampicandoci. Non vedo l’ora di liberarmi di questo orribile paese. A bordo della Baghlah ce ne torneremo giù per il fiume, e io non avrò altro da fare se non scrivere a mia sorella e dirle che non abbiamo scoperto nulla. Che io possa crepare in questo momento, Tara, preferirei essere frustato nella piazza di Ostelor che sentire le lamentele sue o del suo Samaduin quando lo verranno a sapere."
Ad Arakhon Eshe non era mai piaciuto scrivere le lettere ufficiali, anche quelle in cui annunciava un successo o una conquista; la prospettiva di doverne scrivere una nella quale doveva riferire di un fallimento completo sotto ogni punto di vista, nessuna preda catturata, nessun alleato prezioso acquisito, senza attenuanti o elementi favorevoli se non l’aver ritrovato il servitore di Mutamin (cosa che ad Ar-Venie sarebbe importata oltremodo poco) lo abbatteva grandemente. E ancor di più lo abbattevano il vento gelido che soffiava la mattina presto su quel tratto fra il deserto e le montagne e la mancanza del suo letto e di Jampe, o di una qualsiasi altra donna che non fosse Tara.
Il suo abbattimento tuttavia si attenuò con la comparsa di un coniglio arrosto portato da Suri, che reggeva sottobraccio anche la saccoccia con il vino rimasto. Ender se ne era già servito generosamente senza aspettare, e ne stava masticando rumorosamente almeno una coscia e mezza; lo chiamavano “coniglio”, ma era in realtà qualcosa di diverso, una bestia dalla carne amara che spuntava con il calar del sole e scompariva di giorno, e che riusciva a vivere in quella landa desolata. Ma andava bene lo stesso.
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Khalid sedeva in una loggia naturale fra le pietre, più in alto, appena poco distante dal fuoco che avevano acceso in un punto riparato, all’interno di una gola. Era inquieto. Le lamentele e i brontolii di Arakhon raggiungevano le sue orecchie, non i suoi pensieri, ormai ci aveva fatto l’abitudine; ma era assolutamente certo di non essersi sbagliato. Anche quella gola e quella loggia gli erano familiari. Non trovava più la strada; e questo non era possibile. Un qualche prodigio era all'opera. Tara, Arakhon, Suri e gli altri avevano un’aria stanca, assonnata, ma in un certo modo distesa e pacifica, forse per il pensiero che presto avrebbero ripreso la strada dell’oriente verso Tartaust e la lontana Tul Harar. E Khalid stesso aveva acconsentito, nonostante l’opinione contraria di Mutamin; quello sarebbe stato il loro ultimo giorno d’esplorazione, perché le rovine di Ny Chennacat, la strada nera, la porta, tutto, dopo il primo giorno, era scomparso. Khalid era sicuro di non essersi sbagliato, e questa volta la paura aveva vinto il suo coraggio: se il Re Tempesta non voleva che orme straniere solcassero di nuovo le sue strade, allora forse era meglio andarsene e non sfidare nemici contro i quali non si poteva vincere.
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
“Be’, sembra che Khalid avesse ragione almeno a proposito delle bestie. Ho dormito di nuovo assediata da questa specie di formiche; devono sentire il caldo, mi sono venute addosso a centinaia e mi hanno mangiata viva. Comunque, è colpa mia, ricada tutto sul mio capo... omaggi alle Loro Eccellenze, saluti e inchini... sono stata io a voler cercare la città del Re Tempesta. Ero veramente convinta che fossimo sulla pista giusta. Oh, sì. Specie quando siamo arrivati alla collina, il primo giorno dopo aver trovato la strada nera. Muoviamoci; cerchiamo di mettere a frutto quest’ultimo giorno, e poi torneremo indietro”.
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Lasciarono l’accampamento e la gola dignitosamente, armati della più forte volontà, ma ben presto smisero di tenere il passo, e si addentrarono di nuovo nella zona deserta in una fila appena riconoscibile. Si trovarono subito a dover affrontare un lungo tratto di marcia faticosissima, su una sabbia così soffice che, a meno di avere i piedi fatti come quelli dei cammelli, si affondava fino alla caviglia; inoltre erano tutti quanti così stanchi tanto da non riuscire più a camminare, e quando Mutamin decise di far sosta per il pranzo, si rese conto che si muovevano ormai in ordine sparso.
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Mutamin [Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Khalid
Khalid e Mutamin non credevano che i loro compagni ce l’avrebbero fatta ancora a lungo: Suri e Tara erano in condizioni miserande, la pelle spaccata dal sole, le labbra e gli occhi arsi dalla sabbia portata dal vento. Durante il giorno, seppur per poche ore, il caldo si sarebbe fatto di nuovo terribile, e poi la notte avrebbe portato il gelo. Un altro fattore si era presentato, che non era entrato in gioco durante il loro viaggio sulla Baghlah e lungo le piste carovaniere: di giorno si trovavano spesso ad attraversare vaste distese perfettamente livellate in ogni direzione, che non offrivano alcun riparo a chi aveva la necessità di liberarsi, e dato che non solo Tara ma alcuni dei compagni d’avventura, compreso Arakhon, erano pudibondi nei fatti quanto licenziosi a parole, ciò causava una grossa perdita di tempo, perché si allontanavano in modo che la distanza, spesso una grande distanza, preservasse la loro modestia. Al punto che nel primo giorno su quel tavoliere avevano percorso un tratto penosamente breve, raggiungendo solo un luogo che Khalid aveva chiamato "shuwak", un affioramento roccioso con alcuni cespugli di tamerici e di mimose a meno di cinque leghe dalla pista per Tartaust. D’altra parte, Arakhon era stato orgoglioso di mostrare a Ender e Suri il suo primo cobra del Chennacat, un magnifico esemplare lungo cinque piedi e nove pollici, che stava strisciando fra i loro sacchi, drizzando la testa e con il cappuccio aperto, una vista impressionante davvero.
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Nel pomeriggio, calato un poco il sole, si erano ripresi; erano adesso su un terreno solido e sassoso con una certa quantità di vegetazione bassa, e procedettero di buon passo. Il sole era ancora a una spanna dall’orizzonte quando in lontananza comparve un altro edificio in rovina accanto a una sorta di pista e a quello che sembrava un pozzo.
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
“Credo che potremmo piantare le tende vicino a quel pozzo” , disse Mutamin. “Continuare per un’altra ora non ci farebbe avanzare di molto. Non vi opporrete, Arakhon, a che Khalid e io andiamo avanti fin su quella cresta a occidente?” , domandò.
“Assolutamente no” , rispose Arakhon. “Anzi.”
Mutamin e Khalid giunsero sulla sommità della cresta con una mezz’ora di luce davanti a loro. Videro due curiosissime formazioni rocciose, a striature nere e rosse, e stavano scalando un macigno a nord del sito dell’accampamento per vedere meglio quando Khalid esclamò: “Guarda!”
Indicò a ovest e là, su un’altura di fronte, nero sullo sfondo di un cielo di un arancione brillante, Mutamin vide un cavallo con il suo cavaliere. Si fece schermo agli occhi e più in basso fra le rocce vide altri cavalli, un gran numero di cavalli; e non solo cavalli, ma anche cammelli, diretti verso una gola. Guardò ancora, e improvvisamente i cavalli scomparvero, lasciando al proprio posto solo volute di sabbia. “Credo che dovremmo affrettarci a scendere” , mormorò.
La giornata era limpida, luminosa, solo appena fredda. Erano trascorsi i giorni frenetici del mercato di fine anno, tutti si erano preparati per l’inverno; le navi erano strettamente ormeggiate ai moli del porto interno, o nei cantieri per la manutenzione, e i soldati sulle fortificazioni ammontavano a poco più di qualche gruppo della milizia. Era comprensibile, perciò, che nell’insieme Tul Harar apparisse piuttosto sonnacchiosa e che le strade abitualmente frequentate da marinai e da mercanti sembrassero deserte.
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Ba Zalarit
Zalarit entrò nella casa dalla porta posteriore, attraverso un cortile pieno di aranci; e là si sedette sul bordo di pietra della fontana al centro, per riprendere fiato e per rinfrescarsi dopo la camminata. Non si sentiva in forma, e in ogni caso camminare sul terreno duro e immobile dopo settimane di ponte oscillante e vivo sotto i piedi lo faceva ansimare. Da una finestra gli giunse la voce di una donna che cantava, un lungo canto di Tul Harar con strani intervalli e cadenze moresche. La voce profonda gli ricordò la sua casa, e una ragazzina graziosissima che aveva conosciuto prima della sua nuova vita con il Maestro. Chissà che ne era stato di lei? Rapita da qualche soldato, certamente; più volte madre e grassa.
Il canto riprese, continuò, si spense in una caduta piena di fascino e Zalarit ascoltò con attenzione sempre maggiore: poche cose lo avevano commosso così tanto come questo inatteso ritorno alla sua terra. Eppure non era tutto orecchie e nemmeno tutto spirito, perché avvertì nelle viscere una fitta così ardente che si alzò bruscamente ed entrò nel locale, grande, dal soffitto basso, fresco e ombroso, con grossi barili incastrati nelle pareti e con il pavimento cosparso di sabbia. “Vecchio scemo”, mormorò in silenzio, senza vera convinzione.
“E’ ora” , disse Abit, dietro di lui.
“Lo so, lo so, mia cara. E ho anche fame. Tu vattene fuori, vuoi? Stai attenta a che nessuno mi disturbi e non farti toccare dai mendicanti e dai marinai. Vengo a prenderti quando ho finito” .
Zalarit ricordava quel locale pieno di fumo del Cashdir e del Kafe al punto di non riuscire quasi a distinguere una figura dall’altra e così chiassoso che per le ordinazioni bisognava ruggire. Ora aveva l’impressione di camminare in uno dei sogni del Maestro, un sogno che rispettasse l’ambiente materiale fino all’ultimo dettaglio, svuotandolo però di ogni vita, e per rompere l’incantesimo chiamò: “Della casa! La casa!”
Nessuna risposta. Zalarit passò nell’ingresso, una stanza quadrata e piena di sole, con due rampe di scale; chiamò di nuovo e quando l’eco della sua voce si spense, udì uno strillo lontano: “Vengo!” e uno scalpiccio di piedi nel corridoio sopra la sua testa.
Stava contemplando il torrione della bocca del porto quando lo scalpiccio raggiunse la scala sulla sua destra e Zalarit, alzando lo sguardo, vide Saed. Un Saed immutato: rotondetto, ma senza grasso in eccesso, fiero, ma senza rozzezza nell’aspetto.
“Saed, mio caro!” esclamò. “Come sono felice di vederti!”
Saed guardò le carte sul tavolo e fece scorrere il dito lungo il fiume, e rispose: “Qui” . Zalarit guardò la carta. “Così lontano? Io avevo capito che si trattasse di qualcosa da queste parti. Certo, non c’è mai chiarezza... soprattutto la direzione” . Nella calma della stanzetta dove avevano cenato insieme, seduti a una piccola tavola rotonda, guardati da Abit rannicchiata a terra, nell’angolo, che assaggiava i piatti che arrivavano caldissimi dalla cucina, Zalarit si fece serio.
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Il suo silenzio era dovuto all’estrema delusione e frustrazione; la sua mente era immersa nei proprio pensieri, viaggiava distante, preoccupata in primo luogo da questioni di motivi e di probabilità e poi dal problema delle distanze che vari uomini avrebbero dovuto percorrere e del tempo necessario ai loro spostamenti. Quella mattina aveva avuto da Umar Khel le notizie che aspettava, la notizia dell’incontro per il quale aveva lavorato con uomini molto ricchi, in posizioni molto elevate, un incontro che avrebbe potuto portare a grandi cose, ma che era stato per ora sospeso in attesa degli altri eventi. Ora le conferme di Saed. I fattori che Zalarit conosceva e aveva potuto controllare indicavano che tutti quelli che si trovavano in quella regione avrebbero potuto giungere puntuali all’appuntamento, ma restava il problema della possibilità di Saed e dei suoi servi di trasportarlo fino a quell’oscuro punto vicino al deserto. “Devi capire che non c’è mai niente di garantito, con loro” , disse Saed, “e sai che non puoi muoverti apertamente” . Parlava ancora in un tono in un certo modo formale, severo; e perfino quando Zalarit ebbe espresso i suoi riconoscimenti, proseguì: “Non sono certo di ciò che tu intendessi dire, parlando di rottura di promesse poco fa, ma se significa ciò che penso, Zalarit, permettimi di dirti che l’insinuazione mi è stata sgradita all’estremo”.
Una smentita era sulla punta della lingua di Zalarit, una smentita o un tentativo frettoloso quanto inutile di spiegare altrimenti la cosa, ma era difficilissimo mentire con successo a un amico tanto intimo. Alla fine, ebbe solo il tempo di passarsi una o due volte la lingua sulle labbra come un cane colto in fallo, prima che Saed uscisse a grandi passi dalla stanza.
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Jampe a Tul Harar
Fathi mancava dalla notte del venerdì precedente. Ciò significava, se era successo ciò che temeva, che quei marinai, dei quali le aveva descritto le prodezze e le saccocce piene di monete di Ostelor, avevano avuto tutto il sabato e parte della domenica a disposizione per scendere a terra. Senza scusarsi minimamente, Jampe si precipitò nella stanza dove Samaduin si stava infilando le sue brache migliori per la giornata di festa. “Ascoltatemi” , disse trafelata, “devo andare subito al quartiere del mercato. Volete portarmi?”
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Samaduin Wafar
Samaduin la guardò con durezza. “Ma, Jampe, che cos’è questo? Non avrai dimenticato che intratteniamo il capitano Ghezal?”
“E io come dovrei intrattenerlo, per il culo di Seregul?” , domandò Jampe, con un’espressione fra lo stupore e la rabbia. “Facendogli le boccacce attraverso un collare da cavallo? Proponendogli sciarade, indovinelli? Con le capriole?”
“Suvvia, Jampe” , insistette Samaduin. “Ho invitato il capitano a cena, regge quattro grandi mercantili e conosce rotte che sono molto importanti per noi. E’ di grande importanza che tu... pensavo a una tua gentilezza con lui.”
“Ho capito” , ribatté Jampe con una certa freddezza. “Be’, posso fare in modo che sia così... se mi fate portare al mercato. Subito. Davvero non credo, in questo caso, che dovreste preoccuparvi della contentezza del vostro capitano, anche se non ci sarà tanto tempo prima di cena.”
Samaduin esitò prima di rispondere. Poi, finendo di sistemarsi le brache e la giubba, disse: “Conosci le regole: nessun festeggiamento, la domenica, e non si esce finché non mi sono accertato che la casa e le strade siano sicure. E’ questa un’eccezione giustificata?”
“Lo è, sul mio onore... sull’onore del mio signore Arakhon.”
“Molto bene, allora. Ma devo dirti che non potrò stare con te, devo sovrintendere ai rifornimenti d’acqua dolce delle navi di Ghezal.”
“Certamente” , disse Jampe in tono assente, scappando via per andare a prendere nella sua stanza un coltello pesante e affilato.
Il crepuscolo si andava addensando sui gradini verso il molo di levante e Jampe scese velocemente. A Jampe venne in mente che il capitano di Samaduin sarebbe rimasto deluso, costretto com’era stato ad accontentarsi della sola cena, ma la visita a casa di Fathi le aveva confermato che le era successo qualcosa di molto brutto; aveva trovato le sue cose rovesciate, e il letto pieno di sangue. Non c’era tempo per pensare agli ospiti di casa.
Si affrettò verso la Daracil attraverso la folla lenta della strada e, giunta alla sua destinazione, chiese che l’issassero a bordo perché doveva parlare con Jano. La notizia che Jano era a Mandi, sulla costa orientale, mandò all’aria tutti i suoi piani e le sue idee sul come comportarsi, le fece crollare completamente. Che fare? Era una situazione terribilmente pericolosa e delicata e non c’era modo di sapere di chi potersi fidare. In casa, con Arakhon lontano, si trovava bene solo con la giovane Urrit, ma era una ragazzina, e Jampe non aveva la ben che minima intenzione di coinvolgerla in cose del mondo delle quali era molto meglio se avesse continuato a non sapere niente. Samaduin non le piaceva; lui tollerava la sua presenza, certo, e le lasciava molta libertà, ma Jampe aveva imparato fin da bambina a non fidarsi di nessuno degli uomini con i quali andava a letto.
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Fathi
Le parole di Fathi su quegli strani marinai e su come l’avessero trattata da principessa le tornavano continuamente in mente: mumacani robusti e affatto vestiti da straccioni, con le borse piene di monete d’oro dei Domini, e quel loro capo con la barba curata che aveva l’accento di Tul Isra e che sapeva scrivere poteva essere qualcuno importante. Ma non poteva andare alla taverna da sola. Fathi ci lavorava ogni giorno, ma lei era dell’Harad e aveva la loro pelle; se Jampe vi fosse entrata da sola, non ne sarebbe uscita libera, e forse non ne sarebbe uscita viva.
Stava ripercorrendo contro la corrente umana il cammino già fatto lungo la Strada Reale quando Gilkarun, il nostromo, e due dei marinai della Daracil, tutti e tre alquanto allegri, le si pararono davanti nel cerchio di luce dorata di una lanterna e le dissero che stavano arrivando pioggia, fulmini e tempeste, e che avrebbe dovuto rimanere con loro: sarebbero andati da Sadaf per una nottata di festeggiamenti, canti fino all’alba. Il suo sguardo gelido, serpentesco, li lasciò allibiti; la loro allegria si spense e la lasciarono andare.
All’angolo della via, il lampo atteso da gran tempo squarciò il cielo, seguito istantaneamente da un tuono colossale, e pochi momenti dopo il temporale si abbatté su di lei con grossi chicchi di grandine che rimbalzavano all’altezza della vita. Si unì ad altra gente sotto un androne; era quasi sicura che nessuno l’avesse notata, nondimeno fu contenta della confusione, del fuggi fuggi generale, del buio che l’avrebbe aiutata a uscire dal quartiere. Un rovescio di pioggia gelida seguì la grandinata, e l’acqua si precipitò nei canali di scolo in un rombo continuo. La forza del temporale diminuì e, dopo un po’, la gente cominciò a muoversi, uscendo dall’androne e avanzando con precauzione tra le pozze d’acqua. Jampe sentì una mano posarsi sul suo fianco; “An’ na’assif”, disse lo sconosciuto, scostandola bruscamente per passare; si voltò, e stava per ribattere qualcosa in malo modo, ma rimase immobile a fissare lo sguardo duro dell’uomo dalla barba ben curata e gli occhi gelidi come il ghiaccio della donna che lo accompagnava. Jampe aveva imparato tanti anni prima a non mostrare paura agli sconosciuti; la paura, tante volte, eccitava gli uomini e tirava fuori la loro violenza. Si scostò rapidamente, mormorando un: “Mi scusi, signore” ; l’uomo e la donna uscirono dall’androne, e si avviarono rapidi verso il porto. Il temporale era cessato di colpo; ma nuvole basse passavano ancora davanti alla luna, i lampi illuminavano il cielo sopra la fortezza e certamente sarebbe caduta altra pioggia.
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Abit [Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Ba Zalarit
Jampe attraversò il passaggio coperto e li seguì. Chissà per quale ragione era sicura che quello fosse l’uomo che Fathi le aveva descritto, e che la brutta casa nella quale lui e la donna stavano ora entrando fosse il loro covo. Si fermò davanti alla porta; era una di quelle porte robuste di legno nero. Provò, e inaspettatamente la trovò aperta; entrò.
“Che vuol dire?” , chiese Tuija.
“Che siamo bloccati qua, porco d’un cane! Non si può uscire dalle mura, tutti gli stranieri devono avere un salvacondotto!” , sbraitò Eldoth.
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Tuija a Tartaust , nell'inverno del 74 Q.E.
“Da quel che ho potuto capire” , disse Ciryaher, accomodandosi sul diwan, “una banda di Easterlings ubriachi ha distrutto tre o quattro tende di un accampamento fuori le mura e dato fuoco ai proprietari, per qualche faccenda di denaro e di gioco. Sedetevi, Eldoth, e prendete qualcosa, perché urlare non aiuterà. Anzi finirà per metterci in cattiva luce in cattiva luce con i nostri buoni ospiti”.
“Perlomeno avrò qualche buona ragione per spaccare la faccia al locandiere col muso da idiota!” urlò ancora Eldoth. Farah, spaventata, corse a nascondersi fra le braccia di Tuija.
“Chiedo scusa, Eldoth, ma questo non ci aiuterebbe a ottenere un salvacondotto per uscire da Tartaust”, rispose Ciryaher.
“Madre mia” , sospirò Tuija, “non ce ne va bene una”.
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Ciryaher [Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Eldoth [Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Tarim
“Non preoccupiamoci più di tanto” , proseguì Ciryaher. “Naji è rimasto sulla piazza e sta cercando di scoprire qualche cosa in più. Come ti dicevo, più che le teste rotte da questi barbari, pare che il motivo dell’animosità nei confronti degli stranieri sia ben altro. Sembra che Ismail sarà il nuovo governatore e la gente vuole che Tartaust torni a essere l’orgoglio del Grande Harad occidentale, e che il governatore la difenda dalla gente di malaffare e dai ladri”.
“Se ciò che ho sentito è vero, Ismail non difenderà Tartaust dal male” , intervenne Tarim, “ma diventerà il male egli stesso. Non rispetterà la libertà del popolo. Imporrà determinate condizioni e romperà l’alleanza con le città orientali a meno che non siano rivisti i trattati del commercio. Si sa che l’armata di Tul Harar rappresenta una vana minaccia, fino a quando tutti i potentati del Chennacat non si saranno schierati. Con Ismail sulla sedia, per andarcene dovremo pagare molto denaro” .
“Bene, allora andiamocene subito e crepi Ismail” , sbottò Eldoth.
“Non possiamo, Eldoth”, intervenne Tuija, “Khalid e gli altri sono sulle montagne” .
“E che crepi anche Khalid, allora” , concluse Eldoth. Tuija lo guardò sconcertata; Farah balbettò qualcosa nel suo dialetto, piangendo. "Stupido!" gridò Tuija, "hai fatto piangere la bambina!" , “Meglio se crepi tu, Eldoth. Attaccati alla tua fiasca e sta' zitto!” , urlò Tarim.
“Amici, amici!” gridò Ciryaher per sovrastare le voci degli altri. “Stiamo precorrendo di gran lunga i tempi. Per ora si tratta soltanto di voci, di semplici parole portate dal vento. Prima che prendiate misure estreme e che saltiate l’uno alla gola dell’altro, permettetemi di scongiurarvi di aspettare Naji per sapere come stiano veramente le cose e che cosa Ismail intenda fare” .
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Farah
“Si è mai sentito che una voce funesta si sia rivelata falsa?” , domandò Tuija. “Che la Luce di Mandos mi aiuti, Tuija, questo qualche tempo fa l’avrei detto io!” , rispose Ciryaher. “Ma ora vorrei arrivare in fondo alla cosa, credo, prima di sbattere la mia seppur dura testa contro lo stipite della porta. Povera, povera la gente di questo posto, con una guerra in arrivo e l’Ombra che si desta forse nel deserto; si aggrappa a un’illusione di salvezza e si getta nelle braccia dell’uomo forte, così a Tartaust come a Ostelor. E’ nostro dovere, però, pensare prima a noi stessi e ai nostri compagni”.
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Naji
Naji tornò dopo mezzogiorno. Indossava gli abiti colorati di Tartaust con tale naturalezza che dopo poco né a Ciryaher, né a Tuija parvero più di tanto strani. Si sedette sul diwan vicino a Ciryaher, e prese dell'acqua. “Ho parlato con il 'bimbashi' , il comandante della guardia, e ho raggiunto la verità sottostante. Sembra che la situazione sia questa: c’è stato uno 'tsarfetim' in favore di Ismail...”
“E’ una specie di nomina preliminare” , spiegò Tarim a Tuija, che stava seguendo l’elaborato discorso di Naji a bocca semiaperta, senza capirne completamente né il senso né i termini.
“... ma i notabili non hanno ancora firmato l’ 'iradé '...”
“Si tratta di un decreto scritto dell’assemblea di Tul Harar, sacro per tutti tranne che per i ribelli...”, spiegò ancora Tarim sottovoce.
”...e nessun 'iradé ' con il nome di Ismail è mai arrivato da Tul Harar a Tartaust, né in nessun’altra parte, quindi. E’ possibile che l’abbia fatto lo 'tsarfetim' , dal momento che non è insolito inviare questi... questi annunci nelle regioni interessate per vedere come vi vengono accolti. C’è una certa analogia con gli annunci di unione fra famiglie, sia attraverso il matrimonio che l’alleanza...."
"In che modo ci aiutano queste fesserie?" lo interruppe Eldoth.
“Perché ci danno modo di capire la ragione dell'agitazione in città, Eldoth. Prova a usare il tuo cervello, qualche volta, prima di parlare" , rispose Naji. "Per questo, visto che non è arrivato nessun 'iradé ' , non è possibile capire se Tul Harar gradisca o no la nomina di Ismail e tutti si stanno dando un gran daffare, manovrando per ottenere la posizione migliore. L’indipendenza di Tartaust da Tul Harar è di fatto totale, ma in queste regioni viene in genere esercitata una certa discrezione. Le città si fanno spesso la guerra fra loro, ma di solito lo fanno con grandi affermazioni di fedeltà l’una all’altra, dato che Tul Harar accetta, è vero, il fatto compiuto, se accompagnato da doni appropriati, ma è necessario trovare un valido motivo: bisogna dimostrare che lo sconfitto aveva l’intenzione di tradire, o che aveva avuto contatti con un nemico. E tranne nei casi in cui il 'valì ' ...” - “Il governatore”, tradusse Tarim - “...butta nel fuoco la sua fedeltà, come ha fatto Tul Isra non molto tempo fa e come certamente farà Ismail non appena potrà essere sicuro della solidità della sua sedia, tranne nei casi di aperta ribellione, intendo, le nomine dirette dell’assemblea di Tul Harar sono rispettate in queste zone, quando giungono sotto forma di un 'iradé '”.
"E perché tutta la storia con gli stranieri se è tutta una cosa di nomina del governatore e del 'tiradè' ?" chiese Tuija, accarezzando Farah.
“Sfortunatamente uno degli Easterling , uno di nome Dalan , ha ritenuto di ammazzare a pugni il vecchio 'bulbuljbashi' dopo una partita a piastre ...” - “Il 'bulbuljbashi' è il capo del caravanserraglio, una carica molto prestigiosa”, intervenne Tarim, mentre Tuija esclamava: "Dalan! Vecchio sterco di cavallo..." - “... le guardie hanno preso questo Dalan e una delle sue mogli dopo che avevano ammazzato a coltellate un paio di altri che si trovavano la'. Sono gli stessi barbari che abbiamo trovato con Khalid”, disse Naji, scuotendo la testa.
“Gli altri barbari sono scappati. Il 'bimbashi' mi ha raccontato di aver fatto torturare sia l’uomo che la donna, Sube; la donna è morta ma prima ha parlato ed è venuta fuori una grande confusione. Il 'bimbashi' sa che questi barbari erano pieni d’oro, che qualche settimana fa se ne erano tornati da una spedizione sulle montagne del Chennacatt, che l’oro era stato fuso da un fabbro morto poi ammazzato, ammazzato da loro, e che se ne erano rimasti tranquillamente nella città bassa e nella tendopoli fuori dalle mura a spendere e a ubriacarsi anche dopo che ce n’eravamo andati con Khalid. Ora, in conseguenza di questo, il futuro 'valì' di Tartaust ha colto l’occasione per bloccare tutti gli stranieri in città e imporre la necessità di un salvacondotto, che si può acquistare solo pagando un pedaggio pari a una moneta d’oro per ciascuna libbra del proprio peso. Questo perlomeno fino a quando tutto non sarà stato chiarito e tutti i colpevoli catturati e giustiziati”.
“Lo capisco come: fino a quando Ismail non sarà stato ufficialmente nominato 'valì' e non avrà rinegoziato gli accordi con i mercanti, e intanto lui diventerà più ricco e forte” , aggiunse Tarim.
“Penso sia così” , concluse Naji. “Il 'bimbashi' , nel suo, mi sembrava molto contento; la sedicesima parte di ciascun pedaggio va a finire nella sua borsa, e una parte più piccola ancora nelle borse delle guardie; gli stranieri, qui, sono tanti”.
Tuija fissò per qualche istante il vuoto, poi guardò Ciryaher e disse: “Siamo tutti quanti fottuti. Non ci lasceranno mai passare e non si potranno neanche corrompere le guardie. E il ‘bimbisi’ può ricordarsi di me e di Khalid. Khalid qui è uno schiavo che è scappato dal suo padrone”.
“Benissimo. Ci taglieranno la testa” , esclamò Eldoth. “Alla fine, e prima forse qualcosa d’altro” , aggiunse Naji, affranto.
“Ciryaher, cosa facciamo?” chiese Tuija. Solo due volte, durante tutto il racconto di Naji, Tuija aveva avvertito che Ciryaher era ancora in contatto con il loro mondo: una volta quando aveva scacciato delicatamente con un calcio il gatto dei locandieri e un’altra quando aveva detto: “dovremo lasciare molto presto questo posto”. Di fronte al suo silenzio, ripetè con voce titubante: “Cosa facciamo, Ciryaher?”
“Dubito che il 'bimbashi' o il governatore provino interesse per la sorte del povero fabbro o per la fuga di Khalid”, rispose Ciryaher, riscuotendosi dai suoi pensieri. Pensieri che l'avevano portato molto lontano. “Si tratta quindi di muoversi con molta attenzione e di raccogliere il denaro per pagare il pedaggio e andarcene. Ho calcolato, diciamo, settecento monete d’oro, e non è poco. Mentre pensiamo a come trovare questo denaro, dobbiamo avvisare gli altri. Qualcuno di noi deve raggiungerli sui monti; Tarim, pensate di poter uscire inosservato durante il giorno del mercato grande?”
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Mutamin
La lettera di Mutamìn al Principe Suwaidi Al Karam
Al Salam Alikum mio Principe.
Dopo tanto peregrinare, volevo darvi la notizia che sono finalmente riuscito a ricongiungermi al mio compagno Khalid, a Tartaust, nel Chennecat: lui mi ha confermato che strani e sinistri eventi sono avvenuti e stanno ancora avvenendo nei territori governati da Nurmi Nithi, ma non è questo il motivo della mia missiva.
Ricordo che, prima che partissimo per la nostra missione, voi e gli emiri avevate deciso di inviare un messaggero a Tul Isra, per cercare di riunire le genti dell’Harad Meridionale e del Grande Harad contro gli orchi del Chennecat… Ebbene, avendo io viaggiato da Tul Harar fino a Tartaust risalendo il fiume ed avendo fatto una puntata anche a Tul Isra, non ho colto il benchè minimo segno di preparazione alla guerra, ne deduco quindi che o il messaggero da voi inviato non sia mai giunto, oppure che i suoi appelli siano caduti nel vuoto.
Per contro le tribù nomadi, soprattutto nella zona di Tartaust, sanno che gli orchi ed altre creature si stanno muovendo nella zona di Ny Chennecat, circostanza questa confermatami anche da Khalid il quale, sottrattosi alla schiavitù, nel suo peregrinare si è trovato suo malgrado a passare vicino a quella fortezza.
Ora, per essere maggiormente sicuro di quanto stia avvenendo, assieme a Khalid e ad alcuni amici fidati, mi accingo a dirigermi verso Ny Chennecat, con l’intenzione di osservare i movimenti nella fortezza e sperando di poter capire abbastanza di quanto vi accade senza doverci entrare.
Vorrei vedere quel luogo anche per capire se questo possa essere la fortezza che avete visto nel vostro sogno.
Cercherò di scrivervi subito al mio ritorno per mettervi al corrente di quanto avremo scoperto.
Portate i miei saluti alla mia famiglia.
Ladnoca Akhbar
Vostro Mutamìn-el Rashid
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Jampe
Il cortile era impregnato dell’odore del temporale, di terra bagnata, di foglie di limone strappate dalla grandine, e di là dell’arcata Jampe udì lo scroscio dell’acqua che fluiva ancora nella cisterna. Lungo il muro sulla destra, il selciato era stato tolto in parte e un raggio di luna subito scomparso rivelò un monticello di terra, probabilmente una nuova aiuola, sebbene piuttosto alta; i fiori erano stati abbattuti dalla pioggia violenta. In alto, sotto il portico, ardeva un lume, riparato dalla grandine e dall’acqua.
Dall’esterno la casa era parsa orribile, ma all’interno del cortile tutto era in perfetto ordine: un grande vaso di rose di macchia era posato accanto a una fontanella. Jampe si appoggiò al muro con una strana sensazione di sollievo, e per un po’ l’allentarsi della tensione la fece sentire debolissima. Da dove si era fermata non aveva nessuna difficoltà a distinguere le persone oltre la finestra e a sentire a tratti le loro voci; l’uomo, la donna e altri due. Non li capiva, però, perché parlavano fra loro nella lingua di Tul Harar, e per un po’ rimase a contemplare quella figura di uomo che sembrava formidabile, infelice, passionale. “Lei è straniera, forse del nord; non ho mai visto una ragazza così bella” , rifletté mentre una serie di lampi che illuminavano la finestra davano l’impressione che l’uomo stesse per saltarne fuori; lampi e un lungo tuono tremendo. Ricominciò a piovere e Jampe, guardando il monticello di terra smosso di recente, vide che si stava disintegrando sotto lo scroscio violento, mentre i fiori infradiciati erano trascinati verso la porta. “Assomiglia molto a una tomba” , osservò, voltandosi piano e muovendosi nel buio a tentoni fino a quando non vi fu accanto, in ginocchio. Le sue dita sfiorarono la terra bagnata; ne smosse un poca, appena qualche manciata, e inorridì nel toccare una mano chiusa in un pugno disperato, rattrappita e marrone scuro. Di nuovo quella sensazione, di nuovo era sicura per qualche ragione che quella fosse la mano di Fathi. Non sapeva cosa fare, non sapeva lottare e difendersi, ed era da sola, quindi qualsiasi mossa contro gli sconosciuti sarebbe stata inutile e l’avrebbe fatta finire nella stessa fossa accanto a Fathi, nondimeno la sua mente esplorava le varie possibilità ancora e ancora fino a quando, durante una pausa nella pioggia, non udì il verso dei gabbiani, da qualche parte oltre l’intrico di tetti. Dapprima meccanicamente, poi con vera intenzione, chiamò gli dei invocando la loro protezione nell’oscurità della notte, coprì pietosamente la mano con la terra e tornò piano nell’angolo più buio del cortile.
A lungo restò seduta in silenzio sotto una tettoietta di coccio, le membra perfettamente rilassate. La pioggia continuava a cadere, a tratti violenta, a tratti leggera e regolare, ma la cisterna era piena fino all’orlo ormai e non faceva più rumore. L’unico suono che raggiungeva il cortile silenzioso e solitario era il rumore della pioggia e, durante un momento in cui era particolarmente lieve, sentì la voce della donna, e si rese conto che nella casa erano rimasti solo lei e l’uomo con la barba, e che parlavano in adunaico.
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Tarim
Nessuna strada, nessun mercato. Solo pietre sconnesse, pozzanghere, magazzini scuri, e ovunque la nebbia. Saliva dal fiume. A un certo punto Tarim credette che ben presto si sarebbe ritrovato alla porta occidentale, invece dopo un po’ comparve una luce, una fila di finestre illuminate da lampade a olio. Si accorse che conosceva quel posto, nonostante la nebbia lo avesse staccato dal suo contesto e ne avesse alterato la prospettiva: era la taverna dove aveva bevuto e cantato assieme ad Eldoth e a Naji, subito dopo la partenza di Arakhon. Il locandiere era dentro, Tarim scostò la tenda e un rettangolo di luce rossastra illuminò la cortina di nebbia. “Entrate a bere una tazza di nabidh, amico”, disse al suo compagno. “Ma io sono uno schiavo, signore, un uomo nero.”
“Non è un delitto particolarmente abominevole.”
“Ah, fratello, si vede che siete uno straniero qui!” rise l’uomo, svanendo nella bruma e continuando a ridere.
Quando Tarim uscì, pulendosi la bocca, la nebbia si era fatta meno spessa e a tratti si vedeva la sfera rossa del sole. Perlomeno la disposizione dei quartieri gli era chiara ora: a passo svelto si diresse verso quella che in cuor suo chiamava la 'Ramda', come la rotonda col pozzo, nel suo paese, e la percorse fino alla piazza del mercato. C’era una certa attività. Si mescolò alla folla, e svoltò silenzioso nella prima via laterale, dove un gallo disorientato stava cantando, poi in un’altra abitata da maiali fantasma; ma non da maiali soltanto. Passò davanti a due uomini fermi sulla soglia di una casa e incrociò una fila di persone che pregavano, e mentre si avvicinava al vicolo, che sapeva terminare in prossimità della porta occidentale di Tartaust, intravide una vaga forma scura che ben presto si rivelò una portantina. Nessuna luce alle finestre del vicolo; buia anche la porta di una casa. Deliberatamente cominciò ad attraversare la strada, ma una faccia dalla porta gridò: “Shaz!” , le tende si spalancarono e gli uomini saltarono giù. Fece un improvvisa giravolta e si mise a correre: un maiale gli attraversò la strada e lo fece cadere, e mentre si rialzava e ritrovava l’equilibrio, udì un fischio alle sue spalle e un forte colpo alla testa. Fu di nuovo a terra; tentò di riprendersi, ma lo colpirono ancora, e non ebbe più la forza, rimase nel fango, rannicchiato, sfinito, il respiro affannoso.
“Rialzatelo e dategli qualcosa da bere” , disse una voce. “E voi siete l’informatore, credo” disse ancora rivolta a una figura nell’ombra. “Sarete ricompensato.”
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
[size=2]Adattamento di un brano tratto da "Bottino di Guerra", di Patrick O'Brian: ** you do not have permission to see this link **[/size]
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Jampe
“Come faceva a sapere che Arakhon era diretto a occidente lungo il fiume?” , chiese la ragazza.
“Mia cara" , rispose l'uomo con la barba, "dal momento che la cosa era certamente nota alle sue prostitute, era anche nota alle conoscenze femminili delle stesse in tutto il porto, compresa questa Fathi, che lavorava per una di loro. E quello che ci ha raccontato Fathi conferma ciò che ci ha detto Saed, e quello che hai visto nei tuoi sogni. Si, Ciryaher non è a Tul Harar. Sono partiti e adesso sono già oltre Tul Isra e forse, vista la debolezza delle tue percezioni, ben più a ovest. Sulle tracce di Tuija. Ah! Una fortuna inattesa per noi, il fatto che Rachad e Jaber l’abbiano agganciata, l’altra notte. Ma anche un terribile rischio. Dovrò richiamare Khel, i suoi uomini non devono mostrarsi troppo in giro."
“Credete che i nostri veri motivi potrebbero essere sospettati?”
“Ne sono mortalmente sicuro, anche se tu dovessi parlare le lingue degli uomini e dei demoni. Rifletti, mia povera serva demente: una prostituta del porto scompare nel mezzo della festa dopo che si è accompagnata la notte precedente con dei marinai appena arrivati, che l’hanno sepolta d’oro, pagando con soldi di Ostelor. Prego, mia diletta: non pensi che questa prostituta abbia parlato con qualcuno? Se non ce ne andiamo subito, la mia testa è pronta in tavola per Hezhad.”
“Saed ha preparato tutto per l’alba di domani” , disse lei.
“Eccellente. Avremo il tempo per riposare, e voglio sperare che non piova per tutta la strada altrimenti prenderò a calci in culo la guida. Quando si tratta di berberi come quello, si deve sempre prenderli a calci in culo, porta fortuna.”
“Saed ha cambiato la guida; il berbero non voleva viaggiare con noi. Adesso c’è un bastardo che viene da un posto chiamato Eveselen.”
“Tanto meglio. Prenderemo a calci in culo anche lui. Prima che tu te ne vada: quando fa chiaro, vai al mercato. Riscatta uno o due schiavi, un paio di sciagurati troppo vecchi per lavorare, li porteremo con noi. Mi serviranno.”
Jampe notò che l’uomo stava accingendosi a spegnere la lanterna; preso sarebbero usciti. Doveva muoversi prima di loro, non aveva dubbi sul fatto che, una volta all'aperto, l’avrebbero sicuramente vista e riconosciuta. Raggiunta in silenzio la porta, avanzando a fatica contro la paura che l’aveva di nuovo assalita stringendole lo stomaco e bloccandole le gambe, sgattaiolò in strada. Probabilmente, ormai, Samaduin si era allarmato per la sua assenza, vista l’ora tarda e le sue ispezioni maniacali a tutta la casa prima di decidersi a dare l’ordine di chiudere i cancelli, ma Jampe non era sicura che l’avrebbero fatta cercare. Aveva trascorso già più di una notte fuori casa, da quando Arakhon era partito.
La pioggia cadeva con violenza ancora maggiore. Jampe corse su per la via, corse fino al posto di guardia e, convinti i soldati al cancello a lasciarla passare con il sacrificio della sua borsa piena d’argento, corse ancora fino al colonnato che portava alla residenza di Niazi, a casa. Si precipitò al riparo e là rimase per un momento, ansimando e scrollando l’acqua dalla mantella. Le lanterne le mostrarono Samaduin, Ahmadi e Gilkarun, tutti e tre con un’aria preoccupata, nonché alcuni membri della servitù di Niazi, anch’essi con un’espressione seria sulla faccia. “Stavate venendo a cercarmi?” domandò, e con sollievo si sentì rispondere di sì. “Venite. Dobbiamo sbrigarci; devo dirvi delle cose e dovete avvertire Arakhon.”
[size=2]Tutta l'avventura di Jampe è l'adattamento di un brano tratto da "Il Porto del Tradimento", di Patrick O'Brian: ** you do not have permission to see this link **[/size]
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Tara
Si rimise in marcia dopo un brevissimo riposo. Era ansiosa di terminare al più presto quel tratto nell’oscurità, e disposta, stanca com’era, a continuare ad avanzare per molte altre ore. Camminava diritta e rapida, come prima; nella mano sinistra stringeva il pugnale, nella destra teneva levata la spada luminosa, che rischiarava il pavimento davanti ai suoi piedi: opera di fabbri elfici di tempi remoti, la spada scintillava d’una gelida luce, perché gli Orchetti erano nelle vicinanze, attorno a lei.
Il tunnel, dopo un paio di svolte, cominciò a scendere. Proseguì a lungo verso il basso prima di riprendere il percorso in piano. L’aria era molto calda e soffocante, ma non malsana, e di tanto in tanto Tara sentiva in viso correnti più fresche uscire da aperture seminascoste nelle pareti. Di queste ve ne erano parecchie. Alla pallida luce della spada, Tara intravedeva scale ed archi, ed altri corridoi e tunnel, che salivano verso l’alto, o piombavano giù ripidi, o si aprivano nel buio e nel vuoto ai due lati del suo cammino. Confondevano le idee al punto da paralizzare qualsiasi ricordo.
Era terrorizzata dall’oscurità in se stessa. Spesso si fermava nei punti in cui la scelta della via era dubbiosa; i corridoi della Cittadella erano vasti e intricati più di quanto non potesse immaginare, pur essendo figlia di Zale e nata nei cunicoli di Rò-Mollò. I ricordi della sua infanzia e delle sue avventure erano adesso di poco aiuto, ma persino nelle tenebre, e malgrado le curve dei corridoi, lei sapeva dove desiderava andare, e non esitava un attimo, finché vi era una strada che conducesse verso la sua meta.
“Non temere” , disse fra se. Non sopportava la mancanza delle voci amiche, e, da quando aveva lasciato Arakhon, si faceva coraggio chiacchierando con se stessa. “Non temere. Hai fatto parecchi viaggi, pur se mai nessuno così al buio. Non ti smarrirai... se la via che cerchi esiste. Ci siamo ficcati qua dentro nonostante le paure di Khalid perché dovevamo, e adesso uscirai nuovamente fuori, qualsiasi cosa ciò debba costarti. Via da Ny Chennacatt. E’ più sicura Tara, nel trovare la via di casa in una notte cieca, che non i gatti della regina Beruthiel”.
Era stato un bene raccogliere le spade dei guerrieri morti, e assurdamente era stato un bene anche che gli Orchetti l’avessero trovata quasi subito e avessero preso a inseguirla così da vicino. Non possedeva combustibili, né mezzi per fabbricare torce; nel parapiglia sulla scala e nel disperato addio ad Arakhon, aveva lasciato indietro i sali di Ciryaher, per i quali non riusciva a darsi pace, e molte altre cose. Senza alcuna luce sarebbe stata presto vittima di qualche disavventura. Non solo vi era da scegliere fra numerose strade, ma in più posti si trovavano ora buche e pozzi cupi e trappole lungo il sentiero che risuonava dei suoi passi. Vi erano crepe nel pavimento e baratri nei muri, e qua e là uno spacco si apriva a volte proprio davanti ai suoi piedi. Il più largo misurava più di tre braccia, e Tara impiegò un bel po’ di tempo prima di radunare il coraggio necessario per saltare l’abisso in quella poca luce. Un rumore di acque rapide giungeva da molto lontano, come se una grande ruota di mulino stesse girando nelle profondità.
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Tara
Rimase immobile come una statua di pietra, respirando e ascoltando. D’un tratto, vi fu un tremendo trambusto. Squilli di trombe che facevano echeggiare le mura, e centinaia di fiaccole rosse si misero in marcia; l’enorme salone si svuotò. Vide partire le loro schiere; schiere di Orchetti, file interminabili, e anche uomini che portavano le fiaccole. Il bagliore le permise di distinguere i loro volti; la maggior parte erano uomini normali, Sudroni alquanto alti, bruni, seri, ma non particolarmente crudeli e malvagi. Ma ve ne erano altri orribili, olivastri, equivoci, con occhi obliqui. Messe insieme tutte le razze, dovevano essere almeno diecimila. Impiegarono un tempo interminabile per scomparire nelle gallerie. Gli uomini, e alcuni altri, presero le strade che conducevano verso le sale più alte, e gli Orchetti, deviando, sprofondarono nei cunicoli che portavano nel cuore della montagna. Avevano costruito un ponte che permetteva di attraversare l’abisso che circondava il salone, in un punto in cui un sentiero proveniente da uno dei cunicoli s’incassava profondamente fra le rocce; stando in piedi su un cumulo di pietre, Tara riuscì a vedere che gli ultimi Orchetti sollevavano il ponte con un grande argano, cantando con quelle loro voci crudeli, ridendo e facendo un fracasso orribile. Tutto cadde poi in un profondo silenzio.
Priva di forze, completamente svuotata da ciò al quale aveva assistito, passò la notte nel piccolo atrio cavernoso, accoccolata in un angolo per sfuggire alla corrente: pareva che un flusso continuo di aria gelida giungesse dall’arco rivolto a oriente. Tutt’attorno a lei, sdraiata lì per terra, pesava l’oscurità, vuota e immensa, e si sentiva oppressa dalla solitudine e dall’ampiezza delle caverne scavate nella roccia, delle scale e dei corridoi diramati senza fine. Nemmeno le immagini più selvagge suggerite dalla sua angoscia e dagli oscuri rumori che correvano, non erano che un lontano riflesso del terrore e dello sbigottimento realmente provati negli abissi della città del Re Tempesta. “Temo che avrai cattive notizie da riferire a Venie” , si disse. “Suppongo che comincerai con l’arrivo nella valle. La prima parola sarà: sventura. E più avanti, eccovi l’ultima di tutte: posso resistere a lungo senza mangiare, ma non ho più acqua. Cose orribili, e soffrire”.
Alzò il capo guardandosi intorno, in cerca di qualcosa che potesse aiutarla a decidere che cosa fare. Dall’altra parte della stanza, sotto il buco da cui veniva l’aria, vi era una piccola porta. Riuscì ora a vedere che vicino ad ambedue le soglie giacevano molte ossa, miste con spade rotte, pezzi d’asce, scudi spaccati ed elmi. Alcune delle spade erano curve e ritorte: le scimitarre degli Orchetti dalle lame annerite. “Comunque, a casa non tornerai” , disse ad alta voce, senza più paura di essere udita. “Lo sapevi, che non saresti tornata. Mi sono persa. Che peccato”. Si alzò.
Vi erano molte nicchie scavate nella roccia delle pareti, ed in esse grosse casse di legno orlate di ferro. Tutte erano rotte e saccheggiate; ma vicino al coperchio frantumato di uno dei forzieri giacevano delle monete, o piuttosto dei pezzi di metallo prezioso, lisci e dalla forma regolare. Ne prese uno in mano, stupendosi per la sua leggerezza e per l’argentea lucentezza.
“Ci dev’essere stata una gran folla di uomini, qui, un tempo”, si disse. “Ognuno più laborioso di Ghan il Fabbro durante cinquecento anni, per poter scavare tutto questo. Queste caverne sono più profonde e molto più antiche della cittadella di Akhorahil. Perché l’hanno fatto?”
“Per via del Mithril” , rispose la voce dall’oscurità.
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Tara
A Elbereth Gilthoniel,
silivren penna míriel
o menel aglar elenath!
Na-chaered palan-díriel
o galadhremmin ennorath,
Fanuilos, le linnathon
nef aear, sí nef aearon!
“Mi piace questa poesia”, disse Tara. “Vorrei impararla. A Elbereth Gilthoniel. Ma fa pesare ancora di più l’oscurità, il pensare alle stelle. Vi sono ancora in giro mucchi d’oro e di gioielli in questi cunicoli?”
Eäroma era silenzioso. Dopo aver cantato la sua poesia, non volle rispondere subito.
“Mucchi di gioielli?” , disse dopo molto tempo.
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Eäroma
“Sì. Gli uomini del Chenna hanno più volte saccheggiato le costruzioni esterne; non vi è più nulla fuori, e nei saloni superiori. E da quando i servi di Akhorahil si nascosero nel profondo, dopo la caduta di Sauron, nessuno ha mai osato esplorare i pozzi o cercare i tesori latenti nei luoghi profondi: sono stati invasi dalle acque, o da un’ombra di terrore. Ma, si; essi esistono ancora: mucchi di gioielli, d’oro, e altri tesori. Attirano molti avventurieri”
Tara guardò oltre l'Elfo, oltre l'arco. Innanzi a loro si estendeva un altro salone cavernoso. Era più alto e molto più lungo di quello ove avevano trascorso l'ultima notte. Si trovavano ora vicino alla parete occidentale; il giorno prima, nella zona orientale, avevano quasi incontrato la morte assieme, in una sala con due immensi pilastri spaccata da una grande voragine che irradiava una violenta luce rossa, e dalla quale, di tanto in tanto, delle fiamme lambivano la volta. Tara aveva spinto Eäroma di lato, all'ultimo momento, e si era gettata stretta a lui dietro un mucchio di pietre residuo di un crollo, sfuggendo al fuoco e alle spirali roventi di fumo scuro. Ora erano legati da qualcosa.
“La forza e la ricchezza di Ny Chennacatt non era nell’oro o nei gioielli, gingilli di Akhorahil; non era nel ferro, suo schiavo" , continuò Eäroma. "Tali cose, è vero, abbondano qui; e specialmente il ferro, tanto e tale da armare qualsiasi esercito. Akhorahil però ambiva alle vene di argento di Moria o, come l’hanno chiamato alcuni, il vero-argento: mithril è il nome elfico. Il suo valore era dieci volte superiore a quello dell’oro, ed ora è inestimabile: poteva lavorarsi come rame, e lucidarsi come vetro; e i fabbri capaci sapevano trasformarlo in un metallo leggero ma più duro dell’acciaio temperato. Aveva la bellezza del comune argento, ma non si offuscava, né si oscurava mai. Il mio popolo l’amava teneramente, e fra i molti usi che ne faceva, vi era la fabbricazione d’ithildin, stellaluna , che brillava alla luce delle stelle", disse.
"Ma non lo trovò; scavò avidamente, in profondità, disturbando cose antiche come il mondo, sacrificando migliaia di schiavi, tutto inutilmente. Moria è l’unico posto al mondo dove si trovi. E quasi tutto quello che Akhorahil riuscì a raccogliere con il commercio, fu dato in tributo a Sauron, che lo bramava ardentemente”.
Cadde un profondo silenzio. Eäroma montava la guardia; Tara, seduta e raggomitolata sotto il mantello dell’Elfo, cercava di dormire, inutilmente. Come un respiro trapelato da porte invisibili e da luoghi profondi, la paura penetrava in lei. Aveva le mani fredde e la fronte umida. Ascoltava. Tutto il suo essere fu per due lunghe ore assorbito dall’ascolto e da null’altro; ma non si udirono rumori, nemmeno l’eco immaginaria di un passo. Piano piano, il suo capo s’inclinò.
Trasalì.
“Devo essermi quasi addormentata” , pensò. “Ero sull’orlo di un sogno” . Aveva però l’impressione che il sogno continuasse: udiva bisbigliare, e vide un pallido punto di luce avvicinarsi lentamente. Si svegliò, e si accorse che Eäroma non era più solo, ma che altri elfi erano accanto a lui e stavano parlando a bassa voce. Una fioca luce illuminava i loro volti. Da un pozzo nel soffitto giungeva, alto sopra un arco, un lungo raggio pallido; ed anche dall’altro lato del salone nel quale ora si trovava una vacillante luce lontana si faceva strada nell’oscurità. Si mise a sedere.
“Buon giorno!” , disse Eäroma. “E’ finalmente di nuovo giorno. Avevo ragione, vedi. Taldo e Borgil sono venuti mentre dormivi; ti ho portata mentre camminavo con loro, e ci troviamo adesso in un punto elevato, sopra il grande ingresso con la scultura del Volto, che nessuno di noi ha potuto attraversare. Possiamo però salire, sino alle vedette sui fianchi della montagna. Entro oggi dovremmo trovare il passaggio, e vedere l’azzurro del cielo, e le valli innanzi a noi”.
“Ne sarò felice” , disse Tara. I nuovi venuti la intimorivano, però erano compagni di Eäroma, e si sforzò di apparire cordiale. “Questa città è immensa e maestosa, ma non immaginavo quanto potesse essere oscura e spaventosa. Ho visto ciò che volevo”.
“Siamo stanchi” , disse Eäroma, “ma riposeremo meglio quando saremo fuori. Penso che nessuno di noi desideri passare un’altra notte qui dentro”.
“No di certo!”, esclamò Borgil con voce argentina. “Quale strada prendiamo? L’arco orientale laggiù?”, chiese Tara più sommessamente.
“Forse” , disse Eäroma. “Ma non so ancora esattamente dove siamo. L’arco orientale sarà probabilmente la giusta via da percorrere; ma prima di prendere qualsiasi decisione, è bene che ci guardiamo intorno. Andiamo verso quella luce nella porta nord. Se potessimo trovare una finestra, sarebbe molto utile, ma temo che la luce provenga da pozzi profondi”.
Seguendo la guida degli elfi, Tara varcò l’arco nord. Si trovò in un ampio corridoio. Man mano che avanzava, la luce si faceva più intensa, e vide che giungeva da una porta sulla destra. Era un’apertura alta e squadrata, il cui unico battente socchiuso posava ancora sui cardini. Si apriva su una larga stanza equilatera, fiocamente illuminata, ma che ai suoi occhi, dopo un così lungo periodo trascorso nell’oscurità, parve fulgidissima ed abbacinante, tanto che entrando ne fu accecata.
I loro piedi disturbarono un profondo strato di polvere sul pavimento, e inciamparono su alcuni oggetti giacenti sulla soglia, la cui configurazione essi non riuscirono da principio a percepire. La stanza era illuminata da un grande pozzo che si apriva all’altra estremità, nella parte superiore della parete orientale. La bocca del pozzo era inclinata verso l’alto, ed essi poterono scorgere, lontano lassù, un piccolo quadrato di cielo azzurro. La luce cadeva diritta su di un tavolo al centro della stanza: un unico blocco oblungo, alto circa la metà di Tara, su cui posava una grande lastra di pietra nera.
“Sembrerebbe una tomba”, mormorò Eäroma, chinandosi in avanti per osservarla più da vicino.
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Tara
In seguito Tara ricordò assai poco della loro discesa lungo la parete occidentale, delle scale di roccia interminabili e pericolose, e del freddo. La sua mente era inondata dalla luce che brillava sui volti degli Elfi, ed il suono delle voci, così armonioso e vario una volta fuori dal mondo sotterraneo e cupo della Cittadella, le dava la sensazione di vivere in un sogno. Ma rammentò un pane dal sapore fragrante, mangiato seduta vicino al fuoco, e frutta secca dolce come il miele. Nella sua tazza di legno traboccava un nettare squisito, fresco come una fonte di montagna, dorato come un pomeriggio estivo.
Non riuscì mai ad esprimere, o persino a tracciare nella propria mente un’immagine chiara di ciò che pensò e provò quella notte, benché essa costituisse per lei uno degli avvenimenti più importanti della sua vita. Tara mangiava, beveva, chiacchierando con entusiasmo; ma la sua mente era concentrata principalmente sulle parole scambiate fra gli Elfi. Capiva un po’ la loro lingua, ormai, ed ascoltava avidamente. Ogni tanto rivolgeva la parola a Nirien, o Borgil che la servivano, ringraziandoli in elfico. Essi le sorridevano raggianti, inchinandosi leggermente.
Dopo un po’ gli altri si allontanarono, lasciandola sola con Eäroma. Parlarono della portentosa maschera di mithril trovata nella tomba, che Eäroma avrebbe portato con sé a nord. Parlarono di molte cose vecchie e nuove, di Ostelor, della sua fanciullezza, di casa e delle terre dimenticate attorno al mare di Usakan, e Tara interrogò Eäroma sugli avvenimenti che l’avevano condotto a Ny Chennacatt. Le notizie che Eäroma le dava erano perlopiù tristi e funeste: l’oscurità che permaneva anche dopo la caduta di Sauron, le guerre fra gli Uomini e la fuga degli Elfi.
“Non mi hai chiesto e non mi hai detto molto sul tuo conto, Nielval” , disse Eäroma. “Ma so già qualcosa, ed il resto lo leggo sul tuo viso e dietro le tue domande, nel pensiero. Hai lasciato la tua casa, eppure dubiti di trovare ciò che cerchi, e di compiere la tua missione, e persino di ritornare un giorno. Non è forse così?”
“Sì; eppure credevo che la mia partenza fosse un segreto conosciuto solo da Venie e dai miei fidati amici” , disse Tara, guardandosi attorno. “Il tuo segreto non giungerà al vostro nemico tramite me”, disse Eäroma. “Il nostro nemico?” , esclamò Tara. “Allora sai perché ho lasciato Ostelor?”
“Non so per quale motivo vi stia inseguendo” , rispose Eäroma, “ma sento che è così, per quanto strano mi possa sembrare. E ti metto in guardia: il pericolo sarà davanti a voi e dietro di voi, e su ambedue i lati”.
“Tu non stai parlando degli Orchetti. Intendi dire dei sogni, di quei mostri che ossessionano Ciryaher? Temevo che fossero dei servitori di Mordor. Che cosa sono quei mostri?”
“Ciryaher non ti ha detto niente?” chiese Eäroma.
“Niente riguardo alla natura di esseri di quel genere”.
“Allora non penso tocchi a me dirti altro; non vorrei che la paura ti impedisse di continuare il viaggio. Mi sembra che voi siate partiti appena in tempo, e ora dovete affrettarvi senza soste né ritorni; sappi che né Ostelor né il Grande Harad sono più un riparo per voi”.
“Non riesco ad immaginare quale informazione sarebbe più terrificante delle tue allusioni e dei tuoi ammonimenti!” , esclamò Tara.
“Altri hanno abitato il mondo prima di te, Nielval, ed altri ancora l’abiteranno quando non ci sarai più. Il mondo si estende tutt’intorno a te: puoi chiuderti in un recinto, ma non puoi impedire per sempre al mondo di penetrarvi”.
“Lo so; ho visto tante cose. Cosa posso fare ora? Il nostro piano era di partire prima che la guerra ce lo impedisse, di stringere alleanze, e di giungere fin qui fra le montagne di nascosto, per capire che cosa ci fosse stato nel passato di Eshe Far e Shakor, e poi di proseguire, e scavare, fino alla radice del male se di male si fosse trattato; ma ora i miei passi sono spiati e seguiti, prima ancora di esser riuscita a fare qualsiasi cosa”.
“Credo che tu debba seguire il tuo piano” , disse Eäroma. “Non penso che la via sarà troppo dura e difficile per voi. Ma se desideri un consiglio più lucido, devi chiederlo a Re Elessar. Non conosco la vera natura dei tuoi inseguitori, e non posso quindi sapere con quali mezzi ti attaccheranno. Re Elessar, invece, deve sapere tutto”.
Tara restò un momento silenziosa. “Questo consiglio non mi piace” , disse infine. “Ritornerei dai miei amici con grande ritardo. Soli, senza di me, potrebbero mettersi veramente in pericolo” , disse infine. “Sì, è un rischio" , disse Eäroma. "Un tuo ritardo non sarebbe una cosa buona. Ma si dice: non dubitare dei tuoi amici, perché sono forti e astuti. Tocca a te scegliere se andare o venire con me a ovest”.
“Si dice anche” , rispose Tara: “Non rivolgerti agli Elfi per un consiglio, perché ti diranno sia no che sì”.
“Si dice veramente?” , disse Eäroma ridendo. “E’ molto raro che gli Elfi esprimano il loro parere, poiché i consigli sono doni pericolosi, anche se scambiati fra saggi, e tutte le strade possono finire in un precipizio. Ma cosa faresti al posto mio? Mi hai detto poco sul tuo conto; come potrei dunque scegliere meglio di te? Ma se tieni veramente ad avere il mio consiglio, te lo darò in nome della nostra amicizia. Credo che dovresti partire immediatamente, senza tardare, per le terre dell’interno; e se io non dovessi tornare da te prima della tua partenza, allora ti consiglio anche di non andar via sola. Porta teco amici fidati e volonterosi. Ora dovresti essere riconoscente, perché mi costa molto darti questi suggerimenti. Gli Elfi hanno anch’essi molti dispiaceri, e le cose di Nielval e di altre creature di questa terra li riguardano poco. I nostri sentieri incrociano i loro molto raramente, per caso o per un dato fine. Forse quest’incontro non è dovuto a un puro caso; ma quale possa esserne lo scopo non mi è ben chiaro, e temo di dir troppo”.
"Verrò comunque con voi, verrò a ovest" , disse Tara. "Fino alla prima città dalla quale sia possibile mandare una lettera a Ostelor. Ar-Venie deve venir a conoscenza di tutto ciò che ho visto. Poi tornerò da Arakhon; fosse per la prima volta nella mia vita, manterrò la promessa".
Infine Tara chiese ciò che più le stava a cuore: “Dimmi, Eäroma, potrò essere di nuovo felice, dopo tutto questo?"
Eäroma sorrise. “Sì”, rispose.
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Eäroma
[size=2]Le avventure di Tara a Ny Chennacatt e l'incontro con Eäroma sono liberamente tratti da "Il Signore Degli Anelli" di J.R.R. Tolkien[/size]
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Ciryaher
Le prospettive non erano incoraggianti: un muro a strapiombo sino al fossato, un altro muro apparentemente impossibile da scalare al di là di esso e passaggi coperti, invisibili dalla sua finestra, che chiudevano il fossato a ciascuna estremità. Eppure Ciryaher scoprì che altri prima di lui avevano tentato l’impresa: mani pazienti avevano scavato e scavato alla base delle sbarre della sua finestra, attaccando la pietra in profondità anche se inutilmente; altre avevano effettivamente segato una delle ventiquattro sbarre di ferro, nascondendo il taglio col grasso e in realtà un occhio che cercasse con interesse avrebbe scoperto innumerevoli segni del desiderio di libertà di chi era stato rinchiuso in quel luogo. E tuttavia a Ciryaher sembrava che tutti avessero tentato nel modo sbagliato. Anche avendo gli arnesi necessari, non si poteva lavorare sulle sbarre senza il rischio di essere sorpresi; si poteva essere visti dagli spioncini e non si poteva prevedere l’eventuale visita di una guardia. Tamer Erkan e i suoi aiutanti portavano pantofole e difficilmente li si sentiva prima che la chiave fosse nella toppa.
La latrina era più promettente: il suo pavimento consisteva di due lastre di pietra sostenute da mensole e separate l’una dall’altra lo spazio necessario; e se avessero potuto essere rimosse, la via sarebbe stata libera. La discesa, se non altro. Sfortunatamente la struttura in pietra era stata costruita con la liberalità di Tartaust, senza tener conto del peso, e le lastre erano state murate solidamente con zolfo liquefatto; ma esisteva la possibilità che potessero essere rimosse avendo tempo a disposizione e la tenda che per decenza nascondeva il buco assicurava un riparo, permettendo di lavorare a lungo. Le difficoltà sarebbero state grandissime, tuttavia, e il luogo stesso era veramente sgradevole.
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Tuija
Lavorava allegramente, cantando quasi tutto il tempo, ma la prospettiva di fuga era remota per lei, così remota che non aveva nessun senso di urgenza. Mancava assolutamente del fuoco sacro che aveva reso possibile a Ciryaher, rinchiuso nella fortezza di fronte alla torretta delle guardie, di scavare completamente in cinque giorni uno dei sette grossi mattoni che sigillavano il lato sinistro della lastra interna della latrina. E Tuija, una volta finito il suo turno e lavati tutti i panni e la biancheria dei soldati, con la coscienza del dovere compiuto, tornava al suo sedile davanti alla finestra per cantare con la sua dolce voce o suonare il flauto che Farah le aveva portato di nascosto. Non le passava nemmeno per la mente di rubare ore al sonno per pensare a come scappare; scappare per andare dove? Incontro ad altra sfortuna? Il voltafaccia di Eldoth l’aveva riempita di stanchezza e di amarezza. Era prigioniera dei soldati assieme ad altre donne bianche da settimane ormai; non sapeva più nulla di Naji, Tarim era stato strangolato con il supplizio riservato ai traditori, Ciryhaer sarebbe stato sicuramente mandato alle cave incontro alla morte, e Tuija non immaginava nemmeno quanto forte potesse essere la volontà del piccolo studioso, ratto gigantesco che rosicchiava la sua gabbia nel buio con pazienza e determinazione infinite.
Un giorno d’insolita attività tra i muratori in basso, invisibili ma che si facevano sentire chiaramente al lavoro dietro il muro dall’altra parte del fossato, mentre Ciryaher era al lavoro nel gabinetto e Tuija alla finestra dove i caffettani lavati sventolavano appesi allo spago, perduta nei suoi pensieri, la parte superiore del muro esterno della prigione crollò in un lungo rimbombo di tuono. Quando il polverone si fu dissolto, comparvero i tetti delle case dalla parte opposta del piazzale. Dalla strada, un giovane cavaliere con stivali dalle punte ricurve osservava l’ammasso di pietre. “Oohoo!” chiamò Tuija, senza nessuna ragione apparente, sorridendo e agitando il flauto: era la prima persona che da molte settimane vedeva ridere.
Il ragazzo la guardò, sorrise, fece un piccolo gesto con la mano e si ritirò: ma continuò a guardarla da distante. Dopo un poco si avvicino di nuovo, studiò il cielo perfettamente sereno e senza una nuvola, e allungò la mano per vedere se stesse piovendo. Tuija lo imitò, il ragazzo rise ancora e per un po’ tutti e due si contemplarono a vicenda con reciproca soddisfazione, indicando con la mano il muro caduto e portandosela all’orecchio per dire che aveva fatto un gran rumore cadendo.
[size=2]Adattamento di un brano tratto da "Missione sul Baltico", di Patrick O'Brian: ** you do not have permission to see this link **[/size]
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Ciryaher
“Credo che così possa andare” , disse finalmente Ciryaher: avevano ripreso da un pezzo a parlare a voce alta. “Ma questa volta dovremo mettercela tutta per sollevare la pietra: l’angolo non è così buono, la moltiplicazione della forza minore. Spero che i perni resistano. Mumtaz, avvolgetevi un fazzoletto intorno alle mani. Procediamo.”
Adesso Ciryaher aveva qualcosa di concreto da fare: adesso proprio sotto di lui si apriva il rettangolo di buio libero; si accovacciò là, uno scintillio negli occhi, lo scalpello e il mucchietto di cunei accanto a sé. E mentre la tensione del sistema di corde che aveva inventato arrivava al massimo e Mumtaz e Srini, i sui compagni di prigionia, grugnivano per lo sforzo, gli venne in mente che la sua forza, per quanto poca fosse, avrebbe potuto alleggerire la pressione sui perni. A cavalcioni della pietra trasversale, infilò le mani sotto la lastra e sollevò, sollevò finché la pietra non gli ferì le braccia, finché la vista non gli si confuse a ogni battito del cuore e finché non sentì la lastra muoversi, liberarsi. “Si solleva” , gracchiò sfiatato, accingendosi a inserire furiosamente i suoi cunei.
Mumtaz lo vide e sorrise. Vide anche la porta, la porta chiusa, la porta del topo, spalancarsi. Quattro uomini con una lanterna.
“Buona sera, signori” , disse l’uomo in testa al gruppo, in adunaico.
“Mumtaz, non muovetevi!” gridò Ciryaher, avendo visto che Srini stava per lanciarsi su di loro, pericoloso come un leone. “Signori, buona sera. Prego, accomodatevi.” Fece un passo e cadde nel vuoto buio fino alla vita. Mumtaz e Srini si precipitarono a tirarlo fuori, prendendolo ognuno per una mano: speravano che non si fosse fatto male. “No, no, assolutamente niente, grazie” , disse Ciryaher, tamponandosi uno stinco: un dolore lancinante. “Signori” , riprese un po’ seccamente, “parlate”.
“Voi non mi conoscete, Ciryaher”, disse il primo del gruppetto, inoltrandosi nella stanza. “Credo di avere amici in comune con voi.”
“Ha fatto questo?” esclamò Ciryaher immobilizzandosi. “Magnifico... intendo dire, che io sia maledetto se non è un gesto generoso. Ma, sapete, non mi rende né orgoglioso né fiero, per quanto... un riscatto degno di un re... come posso ringraziarla? E’ sempre stata un vero purosangue, ma questo...”
“Non poteva essere evitato. Non sareste stato salvato altrimenti. Non è stata costretta. Coskun Ertan è generoso.”
“Gliene sarò grato in eterno. Lo giuro sul mio onore. Molto bene”, dichiarò, “i miei compagni di cella saranno liberati, vero?”
“Certamente, se lo chiedete.”
“Allora, andiamo.”
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Coskun Ertan
[size=2]Adattamento di un brano tratto da "Missione sul Baltico", di Patrick O'Brian: ** you do not have permission to see this link **[/size]
Mentre nella locanda di Kelen Arakhon riposava dopo i giorni di febbre e Khalid si apprestava a dormire, le vie e i vicoli all’interno delle mura di Tartaust erano immersi nell’oscurità; una leggera nebbia era sparsa qua e là nelle conche e lungo la confluenza dei fiumi.
La casa e la locanda di Mahmud erano buie e silenziose. Bakhit sollevò cautamente la tenda e scrutò le tenebre. Un sentimento di paura sempre crescente si era impadronito di lui quel giorno, ed era incapace di starsene tranquillo o di andare a dormire: nell’aria irrespirabile della notte incombeva una minaccia. Mentre guardava nel buio, un’ombra nera si mosse tra i banchi del mercatino di fronte; il cancello di legno parve aprirsi da solo e richiudersi senza il più piccolo rumore. Fu colto dal panico. Indietreggiò e per un attimo rimase in piedi sull’ingresso, tremante. Quindi rientrò, prese le pesanti imposte che erano rimaste là, inutilizzate, forse per anni, e chiuse la porta con i chiavistelli.
La notte avanzava. Giunse il suono attutito di passi furtivi per la via. Fuori dal cancello si fermarono, e tre figure nere si recarono, strisciando per terra come ombre nella notte, fino alla facciata della casa. Una si arrestò davanti alla scala che saliva verso la porta e le altre due ai lati dell’edificio; rimasero lì, immobili come ombre di pietra, mentre passavano le ore. La casa silenziosa pareva aspettare, trattenendo il fiato.
Le foglie delle palme si mossero leggermente e un gallo cantò in lontananza. Stava per giungere la fredda ora che precede l’alba. La figura davanti alla scala si mosse. Nell’oscurità senza luna né stelle si vide luccicare una lama, come se fosse stata sguainata una gelida luce. Risuonò un colpo, non molto forte, ma energico, e l’imposta rabbrividì.
“Aprite! Arakhon! Ciryaher!” , disse una voce acuta e minacciosa.
Al secondo colpo l’imposta cedette e cadde all’indietro con i gangheri frantumati e i chiavistelli a pezzi. Le figure nere entrarono agili e silenziose.
In quel momento dalla piazza vicina giunse il suono di una tromba. Lacerò la notte come un incendio su di una collina. Sveglia! Nemici! Sveglia!
Bakhit non aveva perso tempo. Appena viste strisciare le forme scure verso la casa, aveva capito che non aveva altra scelta: correre o morire. Allora aveva messo le ali e se l’era data a gambe, uscendo dalla porticina sul retro, attraverso il giardino e i tetti. Giunto al posto di guardia più vicino, era crollato sfinito sulla soglia. “No, no, no!” , gridava. “No, non io, non sono io, non so dove siano andati!” . C’era voluto un po’ di tempo prima che qualcuna delle guardie riuscisse a capire che cosa stava balbettando, e infine l’idea era balenata nella loro mente che i nemici erano fra le mura di Tartaust, che gli invasori venivano da Ny Chennacatt. Non avevano perso un minuto di tempo.
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Le figure nere fuggirono dalla casa. Una di esse lasciò cadere sul gradino, mentre correva, un coltello sottile e affilato. Nella strada e nelle vicinanze era tutto un suonare di trombe, un gridare di voci, un correre, un fuggire. Ma gli uomini neri furono veloci come il fulmine e corsero fino al cancello nord. Suonino pure, i soldati di Tartaust! Il Maestro avrebbe fatto i conti con loro più tardi. Nel frattempo essi avevano un’altra missione da compiere, ora che sapevano che la locanda era vuota e che Arakhon e Ciryaher non c’erano più. Sopraffecero le guardie del cancello e scomparvero dalla città.
[size=2]Liberamente tratto da "Il Signore Degli Anelli" di J.R.R. Tolkien[/size]
Che cosa sono il bene e il male? Immagino una di quelle creature, svegliarsi la mattina e avere coscienza di sè. Cosa pensa? Cosa vuole? Cosa sogna? I tasselli della vita stanno diventando sempre più numerosi e io perdo coscienza perfino di me stesso.
Ciryaher è strano. Ma paradossalmente, insieme a Tuija, è l'unica persona di cui mi fido. Alle volte i suoi occhi si perdono nel delirio e in uno stato febbrile dice cose senza senso. Che giunte alle mie orecchie però prendono forma, è hanno più che un senso.
Non penso, non giudico. Lascio al mio cuore dirmi ciò che devo fare, perchè questo è quello che mi è stato insegnato dal mio mèntore.
Sarò là al centro di Arda, con chiunque voglia seguirmi. Voglio capire. Voglio sapere. Voglio che tutti gli amici e i fratelli lasciati morire sul cammino abbiano pace e che il loro sacrificio non sia stato vano.
Sarò l'ultimo a perdere la speranza e se dovesse servire a liberare il mondo dei figli che verranno dall'ombra oscura del Male, sarò il primo a morire. Cavaliere della Luce, cavaliere nell'ombra. Non voglio potere, non voglio richezza. E l'amore per le donne, di questi tempi è un sentimento che si perde come una goccia di sangue in una pozza d'acqua.
Che cos'è il bene e il male? La stessa cosa. Visti da occhi diversi. Come il mostro allo specchio che si vede bello.
Saprò accogliere gli amici, saprò difendere i giusti. Non si mettano sulla mia strada i traditori e le genti senza scrupoli. Sarò spietato, sarò silenzioso e letale quanto le ombre del male che ci seguono. Sarò come loro. E sarò diverso.
1 Ospite(i)
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.