I sali essenziali de' gli Uomini possono essere
in tal guisa preparati e conservati, che un
Uomo d'ingegno custodisca nel suo Studio
un'intera stirpe, una discendenza, e a suo piacimento
possa resuscitare la Forma a lui perfetta d'un Uomo
dalle relative Ceneri. In virtù dell'Istesso
procedimento un filosofo può, senza macchiarsi di
criminale negromanzia, richiamare alla vita
uno qualunque dei suoi predecessori, facendolo sorgere
da' sali essenziali e dalla polvere in cui il corpo fu
a suo tempo consumato
[size=2]Unath Edril - frammento di "Teocrazia"[/size]
Esistono forze elementari e fondamentali del male come del bene,
e io credo che ci muoviamo in un mondo sconosciuto,
dove sono ombre, anfratti misteriosi ed esseri
che vivono nel crepuscolo.
E' possibile che un giorno l'uomo ripercorra all'indietro
il cammino che l'ha portato là dove ora si trova
ed è mia convinzione che esistano
nelle zone remote di questa mia amata terra
segreti spaventosi non ancora dimenticati
[size=2]Shakor Belechael - brano tratto dal diario di Ostelor[/size]
O amico e compagno della notte,
tu che ti rallegri dell'abbaiare dei cani, del verso dei lupi,
degli spargimenti di sangue, degli atti morbosi,
tu che cammini in mezzo alle ombre fra le tombe,
fra i sussurri, fra i pianti,
che brami sangue e porti terrore ai mortali,
che togli il fiato, che godi delle grida di centinaia di gole,
luce dalle mille facce, guarda lo sposo,
accetta con favore i nostri sacrifici!
[size=2]dalla lettera ritrovata da Imrazor a Rò-Mollò[/size]
[size=2]Adattamento di racconti di H.P. Lovecraft[/size]
Col trascorrere delle giornate assieme ad Arakhon nella tranquilla e silenziosa casa di Rò-Mollò, Imrazor quasi si rallegrò di aver rimandato il suo confronto con Ar-Venie, perché le cose della sua gioventù e il suo distacco dall’ambiente di Ostelor gli facevano apparire la vita accanto alla donna e gli eventi delle settimane trascorse remoti e irreali.
Era come se un pizzico di magia portato dai riflessi della sua fanciullezza ravvivasse i suoi sensi; i gesti, le parole assumevano la forma di certe nitide immagini dei giorni dell’infanzia e lo facevano pensare a piccoli episodi senza importanza dimenticati da tanto tempo.
Spesso, però, e questo lo stupiva, si svegliava di soprassalto chiamando il papà e il nonno; Arakhon, che veniva destato regolarmente dalle urla di Imrazor, se n’era inizialmente lamentato con il giovane nella sua consueta maniera rude, per farne presto l’abitudine e non preoccuparsene più.
Poi, quella notte, gli vennero per qualche ragione in mente il forziere di Inziladun, e Suri che chiedeva quanto pesante fosse, e il ricordo delle parole di Curloer a Suri gli fece pensare a una chiave, alla chiave del forziere stesso, che Imrazor non aveva mai visto ma che immaginava stretta nel seno di Ar-Venie.
Sognò; rivide suo nonno, alto e robusto, dai capelli grigi, vivido come se fosse stato ancora in vita, che gli parlava della loro antica stirpe discesa da Elros, e delle strane visioni degli uomini delicati e sensibili che ne avevano fatto parte. Gli parlava della giustizia, della nobilità dei loro intenti, del guerriero dagli occhi fiammeggianti che apprese terribili segreti dagli Elfi con i quali era vissuto; e del primo Imrazor, che studiò la magia per contrapporsi a Sauron quando nel settentrione dei Domini si stendeva l’ombra del Re Tempesta.
Ricordò che il nonno gli diceva del cugino Adranath che era sfuggito per un soffio al capestro, nei giorni delle conquiste di Ifta dell’Harad , e che aveva riposto in un antico scrigno una grande chiave d’argento ereditata dagli avi. Prima che Imrazor si svegliasse, suo nonno gli spiegò dove trovare la scatola: lo scrigno di quercia intarsiato di meraviglie il cui strano coperchio non veniva rimosso da due secoli.
Lo trovò fra le ombre e la polvere della grande soffitta, remoto e dimenticato in fondo al cassetto di un mobile molto alto. Misurava circa otto pollici per cinque, e gli intagli erano così terrificanti che non si meravigliò se nessuno osava aprirlo da anni e anni. Scuotendolo non produceva alcun suono, ma era impregnato della fragranza di spezie sconosciute.
Che contenesse una chiave era solo una vaga leggenda; suo padre, in vita, non gliene aveva mai parlato e non avrebbe nemmeno dovuto sapere dell’esistenza di una scatola del genere, era stato con loro in quella casa per pochissimo tempo. Era rinforzata da fasce di ferro arrugginite e non era provvista di alcun mezzo per aprire la formidabile serratura. Imrazor intuì oscuramente che dentro vi avrebbe trovato proprio la chiave, ma il nonno non gli aveva detto nulla su dove e come usarla ...
[size=2]Adattamento de "La Chiave D'Argento", racconto di H.P. Lovecraft[/size]
Non l’aveva raccontato ancora a nessuno, nemmeno ad Ar-Venie; era sua, quella ricerca.
Un maniscalco delle scuderie della porta di Ostel forzò il coperchio scolpito, tremando alla vista degli orridi volti che lo sbirciavano dal legno annerito e sconvolto dalla loro indefinibile familiarità. Dentro, avvolta in una pergamena scolorita, c’era una grande chiave d’argento ossidato coperta di criptiche incisioni: ma neanche una spiegazione scritta comprensibile. Sulla voluminosa pergamena c’erano misteriosi segni vergati con un’antica penna di canna in una lingua sconosciuta.
Imrazor riconobbe i caratteri per quelli che aveva visto a casa degli Eshe, in un rotolo appartenente a Ciryaher; in quel momento, gli venne la pelle d’oca.
Tuttavia tornò a casa, a Inziladun, e continuò a comportarsi con Arakhon e Ar-Venie con estrema normalità, come se nulla fosse successo. Ripulì la chiave e la tenne accanto a sé, la notte, nel suo scrigno aromatico di antica quercia. Nel frattempo i suoi sogni andavano facendosi sempre più vividi, e sebbene non gli apparisse nessuna delle strane città né alcuno straordinario giardino dei giorni lontani degli Elfi, tuttavia assumevano una forma definita e dal significato inequivocabile. Lo chiamavano indietro negli anni, e permeati delle volontà concentrate dei suoi padri lo spingevano verso qualche occulta e primordiale realtà. Allora seppe che per scoprire la verità avrebbe dovuto ritornare nel passato con il pensiero, e mescolarsi ad antiche cose, e giorno dopo giorno ripensò sempre più intensamente a colline verdeggianti, fiumi spumeggianti e solitarie pianure.
E aveva anche impresso di fronte agli occhi, costantemente, quel poco che, grazie alle note di Ciryaher, lette di nascosto durante i periodi che il cerusico trascorreva con Ar-Venie, era riuscito a decifrare dalla pergamena. Avrebbe avuto di certo bisogno di nuovo del consiglio di Artagora; alcuni versi erano come scolpiti nella sua mente, gli sembravano stranamente simili a parole udite nei suoi sogni, e tentava di riconciliarne la versione scritta con quella che gli tornava insistentemente alla memoria, ma era un'impresa ardua.
Certi versi ed epigrafi erano quasi impronunciabili, ed aveva seri problemi a sillabare le parole; la discrepanza lo disturbava e Imrazor cominciò a recitare il primo verso a voce alta, nello sforzo di far combaciare i ricordi con le lettere che aveva scritto. Nel silenzio della sera, sulla terrazza di Inziladun, la sua voce suonava fantastica e minacciosa: la cosa lo fece sorridere, mentre il vento freddo che si era improvvisamente levato lo infastidiva, e quasi spegneva le lampade...
[size=2]Adattamento de "La Chiave D'Argento", racconto di H.P. Lovecraft[/size]
Nel corridoio di pietra, quasi buio e pieno d’ombre, c’era soltanto Imrazor. Il ragazzo non sapeva dire da dove provenisse la fioca luce: alle pareti spoglie non c’erano candele né lumi, niente che giustificasse il debole bagliore. L’aria era ferma e umida; in lontananza l’acqua sgocciolava con un rumore sordo e continuo.
Non era certo un corridoio della casa, era un sogno... un sogno? Aveva mal di testa, e non riusciva a svegliarsi. C’era qualcosa a proposito di... un sogno?
Il pensiero svanì. Imrazor aveva le labbra secche, e si augurò che ci fosse qualcosa da bere. Il corridoio si estendeva senza diramazioni, seguendo una curva costante, e in apparenza senza il minimo cambiamento. Le uniche caratteristiche erano le rozze aperture poste a intervalli regolari, cinque in tutto, chiuse da porte, e i topi, che correvano dappertutto, fuggendo davanti a lui.
Aveva una sete spaventosa. Fu lo sgocciolio a fargli prendere la decisione. La chiave d’argento apriva la porta, la porta era di legno, screpolato e secco, e ferro; e oltre c’era l’acqua. Non avendo altro da scegliere, vista la sua sete, aprì la porta. Lo investirono il freddo e la brina, e vide la donna, poco più avanti; immobile, quasi in ginocchio, guardava a terra, e le ombre arretravano attorno a lei.
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Imrazor non l’aveva vista entrare, non l’aveva mai vista; là in quel corridoio si gelava, ma lei vestiva di seta, una seta bianca e leggera, e aveva le spalle nude. Le vedeva il seno. Sulla schiena portava una spada. Se non avesse saputo che era impossibile, avrebbe detto che era là davanti a lui, ma non c’era, stava sognando. Vestita così, con quegli abiti e con quei capelli scuri, pareva nel fiore della sua gioventù, e Imrazor immaginò che avrebbe potuto trovarla bella, e desiderarla ardentemente, se fosse esistita davvero.
“Ora ci troviamo faccia a faccia”, disse la ragazza: e, solo per un istante, il suo viso si volse verso di lui e i suoi occhi divennero aperture spalancate in caverne infinite e fiammeggianti.
Con un grido, Imrazor si ritrasse, con tanta violenza da urtare contro la parete opposta del corridoio e spalancare l’altra porta. Si girò di scatto, afferrò la maniglia per non cadere a terra, e si trovo a fissare a occhi sbarrati una stanza di pietra, un impossibile cielo al di là degli archi della balconata della sua casa ...
“Non è così facile sfuggirmi”, disse lei.
Imrazor si girò, si affrettò a uscire dalla stanza, cercò di mantenere l’equilibrio: il corridoio non c’era più. Rimase impietrito, quasi acquattato vicino a un tavolo lucido, e guardò la donna accanto alla balconata. Una balconata di pietra grigia, al di là della quale c’era un cielo come non ne aveva mai visti.
Nuvole striate di nero e di grigio, di rosso e di arancione, correvano come spinte da un vento di tempesta, mescolandosi senza fine. Nessuno aveva mai visto un cielo del genere: non poteva esistere.
Imrazor staccò precipitosamente gli occhi dalla balconata, ma il resto della stanza non era migliore, era tutto cambiato. Presentava curve bizzarre e angoli insoliti, come se l’avessero trasformata ricavando una forma quasi a caso dalla roccia, e le colonne adesso parevano crescere dal pavimento anch’esso grigio.
Guardò di nuovo la donna; ora era nera, spaventosa, e si appoggiava su una spada d’acciaio splendente. Lo spaventava. Meglio che guardare le fiamme nel focolare o il cielo.
[Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
“E’ un sogno”, disse, alzandosi. “Un incubo”. Chiuse gli occhi, pensò a svegliarsi. Da bambino, mamma gli aveva detto che così l’incubo scompariva. La... mamma? Cosa? Se solo i pensieri avessero smesso di scivolare via! Se solo la testa avesse smesso di fargli male... allora sarebbe riuscito a pensare correttamente.
Riaprì gli occhi. La stanza era identica a prima: la balconata, il cielo, la donna.
“E’ proprio un sogno?”, disse la donna. “Ma ha importanza?” Di nuovo, per un istante, gli occhi divennero una fornace che pareva estendersi all’infinito. “Hai gridato nel vento il nostro nome. Il vento ha portato il tuo grido lontano, e siamo venuti. Dicci ora che cosa vuoi”
Imrazor stavolta sobbalzò un poco, ma riuscì a non urlare. E’ un sogno, si disse. Non può essere altro. Tuttavia arretrò.
“Sembri assetato”, disse lei. “Bevi.”
Sul tavolo c’era un boccale d’oro lucente, ornato di rubini e di ametiste. Non era lì, prima. Imrazor avrebbe voluto smetterla di tremare. Era solo un sogno. Gli sembrava di avere la bocca piena di polvere.
“Si, ho un pò di sete”, rispose.
[size=2]Adattamento di una scena da "L'Occhio del Mondo", romanzo di Robert Jordan[/size]
Athanasios aveva visto la casa dall’esterno molte volte; i muri, le finestre, le porte gli erano familiari: una casa nascosta fra i suoi giardini interni e i cortili, ridosso al grande muraglione esterno. Ma fu sorpreso di constatare quanto fosse grande internamente. Un palazzetto, in realtà; non grande come la residenza di Nindamos, ma molto più bello, essendo tutto di marmo bianco e rosa, fresco e traforato in complicati disegni nella stanza in cui lui si trovava in quel momento, una stanza al piano rialzato con una grande terrazza che dava sulla baia, il soffitto a cupola e una piccola fontana al centro.
Sotto la cupola, una galleria correva lungo le pareti, riparata anch’essa dal marmo traforato, e una scala scendeva dalla galleria. Athanasios scese, fino al quinto gradino, sotto di lui, attirato da tre piccoli vasi e un recipiente di rame per raccogliere la polvere; sul sesto uno spazzolino di foglie di palma finemente divise e uno più lungo: in pratica una scopa. Uno scorpione si era nascosto sotto il recipiente di rame, ma evidentemente non giudicava adeguato il riparo: bilanciava ogni tanto le tenaglie e la coda e si rizzava con una certa grazia mentre Athanasios osservava i suoi movimenti fra i vasi.
Al suono delle voci alzò la testa: attraverso il marmo traforato si intravedevano forme spostarsi rapidamente e Ar Venie, seguita da Imrazor, comparve in cima alla scala. La maggior parte delle donne di Ostelor non veniva esaltata, se vista dal basso, ma non Ar Venie, che appariva alta e snella. Indossava pantaloni di mussola azzurra leggeri stretti alla caviglia e un corpetto senza maniche corto in vita sopra una fascia di un blu profondo. “Athanasios!”, disse, affrettandosi giù per le scale. Imrazor, che la seguiva, inciampò con il piede destro nel recipiente e con il sinistro nella scopa, superò di slancio gli altri oggetti e i gradini restanti e Athanasios l’afferrò prima che cadesse.
“Prego, fate attenzione allo scorpione, signora”, disse poi. “E’ nascosto dietro la piccola scopa.”
“Athanasios”, disse Ar Venie di nuovo, “Non riesco ancora a crederci, sono assolutamente sbalordita. E’ impossibile che il vostro governo... molto più sorprendente, comunque, vedervi pronto per la partenza, con i vostri bagagli pronti per il carico in mezzo alla folla sui moli del porto. Athanasios, posso presentarvi Imrazor? Avete già..?”
“Si, ci siamo presentati al ballo... in ogni caso molto lieto, signore, davvero lieto. Siete nato nel sud, signore? Rivedo nei vostri lineamenti certi uomini del Coronande...”
Ar Venie batté le mani, e alcuni servitori orientali corsero nella stanza: Athanasios non li aveva mai visti prima. Esclamazioni di profonda e persino tragica costernazione per il pericolo corso e per la confusione; mormorii di deprecazione, inchini, apprensione. Alla fine fu chiamato Arto che si portò via il recipiente di rame; lo scorpione venne afferrato con le molle di legno e altri servitori raccolsero ciò che era rimasto in giro.
“Perdonatemi, Athanasios”, disse Ar Venie. “Non potete immaginare che cosa sia mandare avanti una casa con servitori nuovi, i primi che ho trovato, di caste così diverse: uno non può toccare questo, uno non può toccare quello; e la metà di loro fanno così solo per imitazione: naturalmente, Arto è con me da tanti anni e può toccare tutto. Vediamo, comunque, se sapranno darci qualcosa per rinfrescarci la gola. Avete già mangiato, Athanasios?”
“No”, rispose.
“Imrazor, vi prego.”
Imrazor uscì per un attimo. Athanasios si rivolse a lei. “E’ molto fresco qui, signora. Che lingua stavate usando con i vostri servitori?”
“Questo era banhasa. Un dialetto delle isole orientali, che ho imparato da ragazzina, durante un viaggio. Ho chiesto a Samaduin di mandare qui qualcuno dei figli dei servitori di mio padre da Ormal. Ma ditemi del vostro viaggio, Athanasios: con che nave partirete? Avrete una buona traversata?"
“Con una delle fregate più grandi, signora: l’ Aidoios”
“Che bel nome! “Onorata”, nella vostra lingua, se non sbaglio”
“Si, signora”
“Ah, vi trovo bene, Athanasios. Proprio quello che mi sarei aspettata di vedervi indossare per il viaggio, con questo clima. Vi piacciono i miei pantaloni?”
“Moltissimo”
“L’ Aidoios. Be’, mi stupite davvero. Credevo che sareste partito con la grande galea, quella appena arrivata. Avete messo Artagora al vostro posto, nominandolo arconte; una carica che ha connotati sia di guerra che politici. Ho sentito del vostro annuncio al Consiglio, ma non la notizia della vostra partenza.”
“Credo sia questione di poco, ormai, prima che sia annunciata.”
“E così ve ne andate. Ah, ecco Imrazor”.
Una nuova serie di servitori invase la stanza; e mentre Imrazor impartiva gli ordini, Athanasios notò che il giovane sembrava a tratti dialogare fra se, e parlare senza rivolgersi ad alcuno. Le parti della sua conversazione che erano destinate solo a lui stesso venivano pronunciate in tono più profondo, a voce bassissima, e Athanasios non riusciva a coglierle.
“Ah, ecco il vino, finalmente. Signore, ho proprio voglia di un bicchiere di vino! Spero siate assetato come me, Athanasios. Su, beviamo alla vostra salute e alla felicità di Artagora.”
“Con tutto il cuore.”
“Ditemi”, riprese Ar Venie, “E’ diventato più accorto?”
“Non credo che notereste in lui una maggiore maturità”, disse Athanasios, che pensoso, vuotò il bicchiere. “Più invecchio, più divento duro di cuore.”
“Non siete vecchio, Athanasios. Siete un uomo con la barba grigia, e questo porta consapevolezza, e capacità di non mentire a se stessi.”
Arto si avvicinò portando due tavolini bassi; dietro a lui, i servitori con grandi vassoi d’argento carichi d’innumerevoli piatti, alcuni piccolissimi. Imrazor s’inchino. “Mi scuserete”, disse. “Lo sapete che d’abitudine non ceno.”
“Ma certamente!”, lo rassicurò Ar Venie. “E mentre passate di lì, per cortesia, volete assicurarvi che tutto sia pronto? Il legato Athanasios verrà poi nella stanza dei lapislazzuli.”
Sedettero su un divano, con i tavolini disposti davanti a loro, e Ar Venie gli illustrò i vari piatti con grande vivacità e una discreta ingordigia.
“Non vi dispiace mangiare alla maniera orientale, vero? Io ne vado matta”.
Era pensierosa, preoccupata; rideva e chiacchierava a briglia sciolta come se fosse stata a lungo priva di compagnia, ma Athanasios era un discreto conoscitore dell’animo umano, e non si lasciava ingannare. “Ama quel giovane. Ed è difficile, per una donna come lei. E come le si addice ridere, anche se solo per finta”, pensò Athanasios. “Le donne di questo popolo sono per lo più serie come tanti gufi. Ed è vero che ben poche possiedono denti così candidi.” E, ad alta voce: “Ar Venie, quanti denti avete?”
“Come, non lo so. Quanti dovrei averne? Ci sono tutti, in ogni caso. Ah, guardate questo, assaggiate! Come ne ero golosa da bambina... e lo sono ancora. Lasciate che ve ne faccia assaggiare un po’. Credete che ad Artagora farebbe piacere pranzare con noi? E’ un uomo strano, molto introverso, ma decisamente simpatico, quando vuole... un peccato che non abbia una moglie, ma d’altronde tante donne sono creature impossibili. E anche la gente di Ostelor, in gran parte.”
“Non posso rispondere per lui, naturalmente, ma so che è occupatissimo con i suoi nuovi compiti. Abbiamo dovuto rifiutare tutti gli inviti, a parte una cena del signore Yamo, alla quale, del resto, non potevamo rifiutarci di partecipare.”
“Oh, be’, alla gogna Nindamos. Ma non so dirvi quanto sia stata felice di vedervi, Athanasios. Voi eravate nei miei pensieri proprio un attimo prima del vostro arrivo. Vi devo dire alcune cose molto importanti; e chiedervene delle altre. Ma non trascuriamo la birra chiara che vede accanto al vostro gomito."
Imrazor stette solo per un attimo ad ascoltarli, poi se ne andò, senza prestare la minima attenzione alle loro parole. Era confuso, quasi tremava.
La donna della visione lo aveva incantato; durante le loro notti assieme, gli aveva spiegato tutto. Adesso non lo ricordava bene, perché era sveglio e i suoi racconti erano solo un vago ricordo, ma di notte tutto sarebbe stato di nuovo chiaro. Ogni confusione sarebbe svanita, ed egli avrebbe ricordato che quella vita in casa di Ar-Venie non era nient’altro che una teoria di immagini nella mente, che non c’era differenza fra quelle nate dalle cose reali e quelle scaturite dai suoi sogni segreti, e che non c’era motivo di ritenere più vere le prime delle seconde.
Non c’era più in lui la vergogna di abbandonarsi alle visioni che l’aveva colto le prime sere. Ne aveva parlato un poco con Ar-Venie e con Artagora, e Ar-Venie, preoccupata per lui, gli aveva detto che le sue fantasie erano ingenue, forse pericolose, ed egli era giunto a crederlo, perché si era reso conto per qualche tempo che era proprio così. Ma la donna gli aveva spiegato nel sogno che le azioni concrete sono altrettanto vacue, ed anche più assurde, perché chi le compie si ostina ad attribuir loro un significato e uno scopo, mentre la verità è il nulla e l'esistenza allo stesso tempo, indifferente, inconsapevole dei desideri o della stessa esistenza delle anime che per un istante proiettano uno sprazzo di luce nel buio.
Lei gli aveva detto che lui era incatenato alle cose che esistono e gli aveva spiegato i loro meccanismi finché ogni mistero era svanito. Ma non li ricordava, ora, i meccanismi... se solo la testa non gli avesse fatto così male, la sua visione sarebbe stata più chiara. Aveva preso di nascosto le erbe di Ar-Venie, ma il mal di testa non passava con esse, anche se si sentiva meglio. Non riusciva ad appagarsi delle cose che aveva; la notte, nel regno del crepuscolo, con la magia e l’aiuto della donna forgiava vividi, piccoli frammenti e preziose associazioni della sua mente in visioni straordinarie. Desiderava i sogni, sempre di più; desiderava mostrare anche ai suoi amici e ad Ar-Venie quelle terre meravigliose, si sentiva sciocco e infantile per averne avuto in principio terrore. Ma la donna gli aveva detto di non rivelare nulla.
Così Imrazor aveva cercato di fare, per tutto il mese di Cerbeth , quel che facevano gli altri, fingendo che i fatti d’ogni giorno e le emozioni semplici fossero più importanti delle fantasie di anime eccezionali.
Ar-Venie si era accorta di qualcosa; gli chiedeva spesso se si sentisse bene, e che cosa lo angustiasse. Allora Imrazor ricorreva alla risorsa del sorriso educato che gli aveva insegnato la donna del sogno, e riusciva sempre a rassicurarla.
Una notte, la donna gli chiese di Ar-Venie. Imrazor se ne rallegrò, e parlarono a lungo di lei. La donna capiva l’amore di Imrazor per Ar-Venie, e l’incoraggiò, ma lo mise in guardia, perché Ar-Venie viveva in un mondo guastato e reso fanatico da concetti sbagliati di giustizia, libertà e coerenza. Gli disse che Ar-Venie respingeva, indubbiamente, le vecchie tradizioni, le vecchie abitudini, insieme con le antiche credenze; senza fermarsi a pensare che proprio quelle tradizioni e quelle consuetudini costituivano le fondamenta di Arda, del mondo. Della stessa Luce. Se non fosse riuscita a ritrovare la giusta via, la via verso la Luce, la vita di Ar-Venie si sarebbe svolta senza una meta né veri interessi e ideali, finché alla lunga si sarebbe vista costretta ad annegare la noia nella confusione e in pretese di utilità, nel trambusto, nell’eccitazione, in ostentazioni di ricchezza e in sensazioni animalesche.
Ma Imrazor poteva aiutarla; si. Perché nella casa di Ar-Venie c’era qualcosa, un manoscritto; si trovava nella stanza della vecchia madre ora morta. Quel manoscritto conteneva delle cose che avrebbero permesso a Imrazor di portare anche Ar-Venie nel sogno, di farle incontrare il Maestro, di farle ritrovare la strada perduta; ma prima Imrazor doveva leggerlo egli stesso.
Non era possibile introdursi in quella stanza se non dalla porta. Ar-Venie non si staccava mai dalla chiave della camera di sua madre; la portava stretta nel seno, allacciata a una catena d’oro, assieme a quella del forziere nella cantina. Imrazor l’aveva osservata per giorni, aspettando un’occasione, un momento propizio; poco tempo sarebbe bastato. Non osava chiedergliela, perché temeva che gli sarebbe stato opposto un rifiuto.
Il desiderio di avere quella chiave ormai l’ossessionava, e la donna gli aveva detto che restava poco tempo ...
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