...Mia Signora,
nella mia atuale posizione di legato vicario di Athor e alla luce del ruolo di amico e confidente della Vostra famiglia, ruolo di cui mi avete onorato, ho avuto modo di rifletere.
L'argomento delle mie riflessioni è stato generato dall'evolversi della vostra figura pubblica nella vita politica della città, accanto alle vostre vicende personali e ai Vostri affetti.
Ritenendomi in primo luogo Vostro amico mi sento in dovere di farvi riflettere su quello che vi aspetta, nella presunzione da parte mia di aver capito dove le vostre scelte vi stanno portando.
State per divenire la sposa di Ostelor.
Per lungo tempo nei circoli della oligarchia cittadina, si è a lungo cercato ( e sperato ) di far si che il vostro nome si unisse a quello di un'altra famiglia, aspettativa fin qui disattesa dal vostro spirito forte e indipendente. Ora che vi muovete come Primo Consigliere nella vita pubblica, che avete affidato a Vostro fratello la gesione dei commerci e degli affari di famiglia, vi troverete ad affrontare la necessità di sostenere la vostra forza politica contro un mondo che, tacitamente, si aspetterà da voi sempre una unione in matrimonio che crei una forte, unica famiglia, egemone nella città.
Ecco perchè le vostre nozze saranno con la città; la famiglia che state scegliendo è Ostelor, le sue tradizioni, la sua prosperità e la sua indipendenza. I vostri abiti pubblici diventeranno di colori e foggia simili a quelli di una sacerdotessa, simbolo di castità, e il trucco delicato che amate sfoggiare lascerà spazio ad un pallore simbolo della rinuncia alla vostra femminilità, per essere costantemente icona della vostra fedeltà alla città, fedeltà che si deporrà come un sudario sui vostri affetti più intensi.
Ecco ciò che potreste essere....Ma qualunque sia il vostro cammino potrete fare affidamento sempre sul mio aiuto e sulla mia amicizia, a quella del filosofo che accoglieste, prima che a quella dell'arconte.
Artagora di Athor
“Prego, capitano, non trovate che emettere una sentenza di morte possa togliere l’appetito?” , domandò Artagora, osservando Tanadas tagliare una sella di montone.
“Non posso dire che sia così per me” , rispose il capitano, servendo a Banardas, il comandante della guarnigione di Ro-Mollò, una fetta che grondava sangue innocente. “Non mi fa piacere, questo è certo, e se Ar-Venie avrà un motivo per essere indulgente la prossima volta, avrà di sicuro il mio voto. Ma quando si ha davanti un caso evidente di codardia o di negligenza nell’adempimento del dovere, credo che voterei sempre a favore della morte: il colpevole va impiccato, e che ci sia pietà per il suo spirito, perché io non ne avrò. Può dispiacermi, ma non influenza il mio appetito. Volete assaggiare il filetto?”
“Ma sicuramente, signore Artagora” , intervenne il capitano Akhiridan, “sicuramente un uomo dedito alla guarigione taglierebbe senza esitare un arto in cancrena per salvare il resto del corpo?”
“Un uomo dedito alla guarigione non taglia un arto per spirito di vendetta o per incutere terrore, non fa dell’amputazione uno spettacolo né l’arto amputato è additato all’obbrobrio generale. No, signore. La vostra analogia può essere attraente ma non è corretta. Inoltre, signore, dovete considerare che così voi assimilate il guaritore a un volgare boia, un personaggio infame, disprezzato e detestato da tutti. E l’infamia, il disprezzo gli derivano appunto da ciò che fa.”
“Una volta un uomo” , interloquì il capitano Phazir, “fu condannato a morte per aver rubato un cavallo. Al giudice disse che gli sembrava troppo duro essere impiccato per aver rubato un cavallo da un pascolo; e il giudice gli rispose: 'Non sarai impiccato per aver rubato un cavallo da un pascolo, ma perché altri non rubino cavalli dai pascoli'.
“E avete constatato che in effetti non si rubano quotidianamente i cavalli dai pascoli dei Valdacli?” domandò Artagora. “No, naturalmente. E allo stesso modo non credo che renderete più coraggiosi o più saggi i vostri capitani impiccandone altri per vigliaccheria o per un errore di giudizio. E’ qualcosa di molto simile alla prova del fuoco o dell’acqua che si usava un tempo per provare se una donna fosse pura, simile all’ordalia, al giudizio degli dei, reliquie di un passato lontano.”
“L’arconte Artagora ha perfettamente ragione” , esclamò Arbalzor. “Una condanna a morte sembra a me uno spettacolo rivoltante. Di sicuro dovrebbe essere possibile...”
Le sue parole furono soffocate dalla discussione generale alla quale Artagora aveva dato il via, poiché il capitano Athul Baran era stato impiccato tre giorni prima sulla piazza del Mard Eloriono su ordine di Ar-Venie Eshe, avendo fallito nell’impedire a un dromone haradano, sicuramente al soldo di Cirmoth, di lasciare l’Hopandakro presumibilmente dopo aver contato con precisione le navi che si trovavano ancora alla fonda e di valutare la robustezza delle fortificazioni del porto. L’esecuzione aveva scatenato forti critiche da parte di Endariel, Arminidun e tutta la fazione avversa ad Ar-Venie; Artagora, da parte sua, non aveva potuto che sentirsi vicino a chi aveva considerato la punizione di Athul Baran come un tentativo da parte del governo della repubblica di trovare un capro espiatorio.
“Signori, signori” , intervenne Tanadas, il quale aveva visto Ar-Venie avvicinarsi a passo spedito, “lasciamo stare i capitani, il capestro e simili o fra poco ci troveremo invischiati nelle discussioni di corte e sarà la fine di ogni conversazione piacevole.”
Il tono delle voci si abbassò, ma si sentì quella eccitata di Albalzor continuare: “...la possibilità di un errore e il valore della vita... una volta troncata, non si può tornare indietro. Non esiste niente, niente di più prezioso” . Si rivolgeva ai suoi vicini e a quelli seduti di fronte a lui, ma nessuno degli altri comandanti sembrava ansioso di prestargli ascolto e si profilava, ora che Ar-Venie era fra loro, il pericolo di un silenzio imbarazzante. Artagora, convinto com’era che duecento anni di discussioni non avrebbero modificato di un nulla la mentalità sanguinaria dei bravi compagni di Ostelor, aveva cominciato a giocherellare con la coppa e a pentirsi di aver partecipato al banchetto in onore di Barnadas. La voce forte di Ar-Venie lo scosse dai suoi pensieri.
“Quanto al valore della vita” , disse Ar-Venie, “mi domando, Arbalzor, se non la stiate sopravvalutando, in teoria, perché in pratica nessuno di voi qui presenti, credo, esiterebbe un istante a uccidere durante un assalto o un abbordaggio, senza pensarci due volte né prima né dopo. E d’altronde, le nostre armi sono state costruite proprio per uccidere.”
“E’ un duro servizio che richiede una dura disciplina” , ripeté il capitano Phazir, scrutando attraverso il vino l’enorme pezzo di arrosto.
“Si, è un duro servizio” , ripeté Ar-Venie, “e spesso voi dite che la cappa con lo stemma è una maledizione, ma un uomo, un capitano, vi entra volontariamente e se le condizioni non gli piacciono può lasciarlo in qualsiasi momento. Lo accetta così com’è, sa che compiendo certe azioni può essere cacciato o perfino impiccato. Se non ha la forza d’animo per sottomettersi a tutto questo, è meglio che rinunci. E quanto al valore della vita, a me sembra che siamo anche in troppi, su queste terre; e un individuo, persino un capitano, anzi...” , terminò sorridendo, “perfino il Primo Consigliere di Ostelor non conta rispetto al bene della città.”
“Sono in completo disaccordo con voi, signora” , disse Arbalzor.
“Bene, mio signore, spero che questo sia l’unico argomento sul quale dissentiremo mai. Albalzor, la fiasca è accanto a voi...”
“Mi dispiace di aver sollevato quell’argomento, vi ho creato qualche imbarazzo, temo. Se ci avessi pensato bene, non ne avrei parlato in vostra presenza, davanti agli altri, perché si trattava di una domanda che volevo farvi in privato, ma mi interessava saperlo. E non so se la risposta data in pubblico è stata quella del Primo Consigliere o della semplice Ar-Venie senza nessuna insegna. Della mia amica Ar-Venie”.
“Un po’ dell’una, un po’ dell’altra” , rispose Ar-Venie. “In realtà, al di là dell'indubbio vantaggio che la scomparsa di Baran ha portato sia a me che a voi, detesto l’impiccagione in misura maggiore di quanto abbia detto, anche se più per me stessa che per l’impiccato: la prima volta che ho visto un uomo sulla forca, con un berretto calato sugli occhi e le mani legate dietro la schiena, ero una ragazzina e ho vomitato. Ma quanto all’uomo in questione, se se lo è meritato, meritato secondo il nostro codice, mi pare che non sia così grave quello che gli capita. E secondo me gli uomini non hanno forse tutti lo stesso valore, e se qualcuno che vale di meno se ne va, non per questo la nostra esistenza s’impoverisce.”
“E’ certamente un punto di vista.”
“Forse può apparire troppo duro; e forse sono stata un po’ troppo assolutista, un po’ troppo sussiegosa parlando con i capitani.”
“Certamente avete dato un’impressione di severità implacabile e di rettitudine assoluta. Athul Baran, oltre a essere uno degli uomini di Yamo, non era amato”
“Si, sono salita troppo in alto, però non ho detto proprio cose che non pensavo. Anche se devo dirvi che Arbalzor mi ha irritata con le sue arie tragiche e la sua vita... ha la specialità di toccare la nota falsa. Si accettano certi atteggiamenti da un uomo davvero superiore, ma non da lui; eppure non riesce a trattenersi. Mi ricorda Imrazor... in una luce completamente diversa, naturalmente. Spero che non si sia offeso per essere stato interrotto, ma ho dovuto, capite. Ma l’ho fatto con molta educazione.”
“E’ curioso constatare che Ar-Venie, la quale ha tanto più da perdere di altri, dà alla vita un valore molto minore rispetto ad Arbalzor, i cui beni immateriali sono penosamente pochi e che pure in qualche modo se ne rende conto. Se posso permettermi di essere sincero.”
“Come sempre, potete, Artagora. 'Mostratemi il vostro rispetto con gli atti e la saggezza, non piegando il vostro ginocchio'. Così diceva Araphor. Sono contenta di vedere che vi siete completamente ristabilito, nel corpo e nella mente. Ma ora veniamo al motivo per cui vi ho chiesto di raggiungermi, prima che i nostri ospiti, nel vederci star via per così tanto tempo, abbiano a pensare che le fortune di Imrazor si siano esaurite e che Ar-Venie abbia scelto di accompagnarsi a un nuovo amante. Ed è comunque sempre di Imrazor che vi parlerò, anche se questa volta il mio buon giovane non ha parte diretta negli avvenimenti. Artagora, ho bisogno di voi per una missione che dovrà rimanere segreta; dovete recarvi, per me, a Urland. E’ Ar-Venie a chiedervelo, e non Ostelor.”
Artagora per qualche istante rigirò fra le dita la coppa di vino speziato, un lusso in quei tempi di austerità.
Le parole di Ar-Venie risuonavano nella sua testa; come un vento di scirocco, caldo ma violento soffiavano sui progetti che da qualche tempo Artagora coltivava....Un viaggio al nord, i suoi compiti di Arconte e le possibilità che questa posizione offriva....lasciarsi alle spalle pericolosi sentimenti.
Poi si sentì rispondere, e fu come ascoltare una terza persona:
"potete far conto su di me".
Detto questo abbassò per un istante il capo e istintivamente si passò la punta delle dita sulla tempia destra, la dove il colpo di balestra aveva trovato l'elmo a parziale protezione.
"Vi duole ancora, mio buon amico?"
" Non temete," rispose Artagora,"Ho una testa davvero dura!"
Ar-Venie sorrise.
"Adesso vi dirò tutto."
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Venie
“Sono talmente dispiaciuta, Artagora, di avervi inflitto un pranzo così noioso. Prima il banchetto di Barnadas con uomini di bassa levatura, e oggi Beruthiel. Non restano che le donne, di questi tempi, fra le mura di Ostelor; una misera compagnia per un filosofo e, come avrete già capito, una situazione molto... pericolosa, parlando di Beruthiel...” , disse Venie sorridendo e ammiccando, “avete già abbastanza da sopportare, povero Artagora.”
Durante il pranzo, Artagora aveva avuto modo di annoiarsi ben più di quanto Venie immaginasse e, sì, con gli uomini alla guerra, la situazione a Ostelor era veramente pericolosa. Nonostante Venie si fosse abbigliata con cura particolare, molte delle signore si erano impegnate allo stesso modo e Beruthiel, la moglie del giudice Tamagran, che pure non aveva lo stesso fascino, le era stata di gran lunga superiore e aveva indossato un abito aperto sulla schiena, per pura combinazione proprio al modo di Hathor, che faceva sembrare quello di Ar-Venie laborioso e quasi brutto. Artagora aveva trovato la schiena di Beruthiel delicata, molto interessante, nonostante, appunto, lei non fosse bella...
“... ma qui nel suo salotto possiamo parlare da soli, per un poco, senza vederci a casa vostra o a casa mia. Tutti non fanno ormai altro che osservarmi, ascoltarmi, giudicarmi.”
Parlò. Con l’assoluta franchezza e libertà che aveva affascinato molti uomini influenti e conquistato Imrazor, e che Artagora le aveva tanto invidiato, poiché là, accanto a sé, pensava di trovare un orecchio attento e affettuoso: e certamente fu ascoltata con attenzione e interesse. L’amicizia di Artagora per lei, iniziata nel modo più strano, era intatta e sempre più forte, e conteneva una grande parte di tenerezza.
“Ciò che devo chiedervi è segreto e molto importante. Solo qualche giorno fa ho cominciato a capire, a collegare le cose, ed esclusivamente a voi posso rivelare certe debolezze, certi errori" , disse Venie. Artagora ebbe la stranissima impressione che si aggrappasse a lui. O meglio, no, non a lui, ma a un qualche personaggio ideale che per caso portava il suo stesso nome; o quanto meno a una mescolanza della sua ombra e di lui stesso. Era sopravvenuto in Ar-Venie, dopo l'agguato al porto, un cambiamento essenziale.
"Mia madre Far", disse Venie, "frequentava già da tempo Shakor Belechael, quando accadde quello di cui vi parlerò; si amavano. Nella maniera in cui mia madre era capace di amare, naturalmente. Lei era affascinata dal modo in cui Shakor suonava, dal modo in cui si muoveva e parlava. Io non sapevo del passato di Belechael e dei suoi studi... del resto, non ne ho saputo molto fino a quando non è venuta la gente di Same a portarci la lettera di Narca Nivan. E’ stata quella lettera da Same a mettere in moto tutto. Ma era stato Belechael a presentare Anikaran alla nostra famiglia; e Anikaran, questo lo venni a sapere quasi subito, era molto vicino a Unnath Edril: era con loro, con i teocratici. E quindi anche Shakor Belechael doveva essere di quella cerchia."
L’aveva conosciuta, in quell’anno, in una grande varietà di stati d’animo: amichevole, disposta alle confidenze, forse perfino all’amore per un breve periodo; certamente, e per periodi molto più lunghi, indifferente, irritata dalla lunga insistenza di chi la corteggiava, talvolta esasperata, dura con il fratello e perfino (anche se più a causa delle circostanze che per sua volontà) molto crudele; ma non l’aveva mai vista così.
“Non starò qui a raccontarvi per ore di questa storia. Vi dirò che Anikaran era bello. Affettuoso, rassicurante, gentile quando si era avvicinato a me, non aveva fatto altro che promettermi che sarei stata il centro del suo universo, la stella più luminosa ai suoi occhi. E mi aveva regalato questi diamanti” , aveva concluso Ar-Venie, slacciandosi la collana e gettandola sul tavolo, dove scintillò, brillò come una scia fosforescente. “Erano di sua madre e aveva fatto cambiare la montatura. Li porto spesso; mi piacciono ancora. La grossa pietra nel mezzo ha un nome, si chiama Zimrabili , ‘gioiello di primavera’ nel modo di Numenor. Non hanno prezzo, naturalmente. Immagino che sia disdicevole ammettere che mi avevano influenzato, quella volta, ma è la verità. Forse tutte le donne amano i diamanti. O quasi tutte. Avevo accettato di riceverlo; mia madre sperava molto in un fidanzamento. Anikaran è stato il mio primo uomo; una sera di tarda estate, sotto il ciliegio, nel giardino di Inziladun. Non c’era ancora la serra.”
Fu sorpreso da simili confidenze e dalla sua loquacità. Ar-Venie aveva sempre parlato rapidamente, ma ora le sue parole si accavallavano, le frasi quasi non giungevano alla fine e i collegamenti erano a tratti così tenui che Artagora, nonostante la conoscesse bene, quasi faceva fatica a seguirla. Era come se avesse assunto di recente una sostanza stimolante che avesse accelerato la sua mente, al punto che le parole, che pure ella dominava così abilmente, non riuscissero a star dietro al pensiero. Artagora l’osservò attentamente, temendo di trovare in lei ancora una volta i segni del papavero, ma non ne vide; si tranquillizzò, forse era, questa volta, solo l’eccitazione per il ricordo, alla quale si aggiungeva un certo imbarazzo.
“La nostra esperienza però era stata difficile fin da subito. Anche senza la questione dei teocratici, non avrebbe avuto vita lunga: Anikaran era un uomo violento, pericoloso, poteva essere spietato; aveva un bruttissimo carattere, l’eccessiva ricchezza e il potere gli nuocevano. Era un donnaiolo e trattava i servi, gli schiavi, in modo abominevole. Tutti sapevano che erano schiavi comprati nell'Harad, anche se li chiamava servi.”
“Suppongo che sia stato molto duro avere realmente sotto gli occhi la vera schiavitù, farne l’esperienza quotidiana” , osservò Artagora, pensando ai suoi primi giorni a Ostelor, “in particolare nelle dimensioni di una grande comunità, di una città.”
“Oh, se è per questo”, replicò Venie, con un’alzata di spalle, “a me sembrava una cosa naturalissima: nelle colonie ne avevamo una grande quantità, sapete. Ma Anikaran... tutti i bambini mulatti in giro nelle sue proprietà erano suoi, e un paio di ragazze mi guardavano in un modo così odioso, così sfacciato, così allusivo... non lo sopportavo, mi sentivo come un oggetto che fosse stato comprato. Insomma Anikaran era un vero toro da monta.”
“Forse un toro da monta sonnecchia nella maggior parte di noi, temo.”
“In Anikaran non sonnecchiava mai, questo è certo. Al tempo stesso era assurdamente geloso. Nessuna ragazza della sua proprietà alla quale avesse gettato il fazzoletto aveva il permesso di sposarsi, e a me, una volta, per aver parlato con un altro uomo..."
Mentre la stava ad ascoltare, sorseggiando il buon vino e studiandola con discrezione, avvertì dentro di sé una fredda inquietudine sostituirsi alla curiosità iniziale. La prima volta in cui l'aveva vista era rimasto colpito dallo splendore della sua carnagione: ora era relativamente spenta. Per il resto, a dispetto della ferite e della sofferenza, non era cambiata molto esteriormente: tuttora quello splendido portamento del capo, gli stessi grandi occhi, la stessa espressione a volte tenera. Mancava tuttavia qualcosa che non avrebbe saputo definire, si avvertiva una discordanza. Il suo sguardo si staccò da lei per posarsi su uno dei numerosi specchi che adornavano la stanza e vi scorse la bella schiena diritta, lo slancio perfetto del collo, i movimenti aggraziati delle mani, e nel riflesso vide anche se stesso, una figura rannicchiata, schiacciata su una poltroncina dorata. Si raddrizzò, mentre Venie gli diceva con un sorriso: "Ebbene, Artagora, non avete più la lingua?"
“Era importante quello che faceva con i teocratici?”
“Si. Ne ero rimasta stupita. Credevo che fosse soltanto il gioco di un uomo ricco, ma non era affatto così. Credeva molto negli insegnamenti di Edril e si dedicava anima e corpo a loro, spendendo moltissimo del suo denaro, ben più di quello che gli veniva dai suoi commerci. Anikaran è molto furbo, ma qualche volta può essere incredibilmente sciocco: aspettarsi che la figlia di un soldato che aveva servito il suo signore tutta la vita, cresciuta fra soldati che avevano combattuto contro il Drago, sorella di un uomo destinato a diventare un condottiero e a portare alto il nome del padre e di Ostelor, aspettarsi che agisca contro la mia città! Forse credeva di avermi sedotta, soggiogata e che nessuna donna sapesse resistergli. Pensa ancora di potermi persuadere, con le sue lettere. Ma non ci riuscirà mai, mai, mai!”
Improvvisamente, Artagora comprese. Anikaran, per chi fosse, non era solo un ricordo dell’adolescenza di Ar-Venie; era una presenza nella sua vita di donna. Ecco il perché del mescolare il presente col passato nell’esprimersi; ecco il perché della furia, e del rossore sulle guance solitamente pallide. Ecco il perché della sua fredda inquietudine. Insieme alla comprensione, arrivò un vero e proprio senso d’allarme.
“Anikaran è qui. Ora si fa chiamare Armagan, e serve a bordo di una nave come chirurgo; penso, ormai, che si tratti della via di fuga presa da tutti i teocratici, visto che anche Ciryaher e lo stesso Shakor... è stato Mazin, uno dei commessi di Yasini, a riconoscerlo, e in un certo senso è come se in questi giorni io ne avessi già avvertito la presenza."
“Temo, Venie, che la sua presenza ci sarà di scarsa utilità, non servirà ad altro che a farvi rivivere cose che vorreste dimenticate” , disse Artagora. Pensava a Imrazor. Non solo.
“No, Artagora, ascoltate. Prima della sua partenza per l’Harad e subito dopo la richiesta d’aiuto di Narca, su incarico di mia madre Tara era riuscita a risalire a Mirrathan, un altro dei teocratici, del circolo ristretto del quale facevano parte sia Shakor Belechael che Anikaran. Tara mi disse che Far le aveva chiesto di cercare gli amici di Shakor, così aveva detto..."
[size=2]Adattamento di un dialogo tratto da "Bottino di Guerra", di Patrick O'Brian: ** you do not have permission to see this link **[/size]
il Consiglio supremo di Ostelor, riunito legittimamente nella delega del Signore Yamo di Nindamos, espressione della volontà del popolo, rappresentato dal primo consigliere Ar-Venie Eshe
Per volontà del Consiglio, nello spirito dell’Alleanza delle Sette Terre dei Domini Valdacli, perché, dunque, sia chiara a tutti la nostra intenzione e venga meno ogni sospetto che potrebbe sorgere circa il signore Artagora latore del presente atto e la sua libertà, circa la sicurezza dei Domini constatata la sua presenza sul territorio, col presente decreto questo supremo Consiglio di Ostelor, a nome e in vece di tutte le città dell’Alleanza e di tutti quelli che ad essa appartengono, di qualsiasi città e stato siano, anche coloniale, ducale, territoriale o di qualsiasi altra inferiore dignità, potestà o ufficio siano rivestiti, così come di diritto conferito, nei termini dell’Alleanza, stabilisce, dà e concede al latore della presente e agli altri con lui, fino al numero di dieci persone, anche se fossero di dignità imperiale, regale, ducale e di qualsiasi altro stato, o condizione, che verranno ora o in futuro sul territorio dei Domini Valdacli in nome e per conto della famiglia Eshe di Ostelor e con il suo Onore, come è stato già detto, concede un completo e libero salvacondotto.
Esso ha preso e prende con le presenti lettere sotto la sua certa e sicura salvaguardia tutti e ciascuno dei predetti, per quanto riguarda sia le loro persone che gli onori e qualsiasi altra loro cosa, nei regni, province, domini, territori, città, castelli, paesi, villaggi e in tutti i luoghi dell’obbedienza dell’Alleanza dei Valdacli, attraverso i quali essi passeranno o che avranno la sorte di toccare, nel venire, fermandosi, o nel tornare.
Promette, inoltre, con questo decreto e concede a tutti e ciascuno di essi sicura e libera facoltà di andare e venire nelle o presso le Sette Terre dei Valdacli; di stare, dimorare, risiedere abitare nella o presso la città o il luogo con tutte le immunità, libertà, garanzie di sicurezza con cui vi abitano quelli che appartengono a esse, ed anche di disputare e ragionare, di allegare i diritti e le autorità, e di fare, dire, trattare con tutta libertà e senza impedimento di nessuno, tutte quelle cose che sembrerà loro necessario ed opportuno per il loro bene e il bene di Ostelor. Essi potranno andarsene a loro piacere da ciascuna delle Sette Terre e ritornare una o più volte, e tante volte quante sembrerà e piacerà loro, sia soli che insieme, con i suoi beni, cose, denaro, o senza di essi, tranquillamente, liberamente, impunemente, senza alcun impedimento per le cose o le persone.
Il signore Artagora e gli altri del suo gruppo fino al numero sopra nominato di dieci, completamente a nostre spese e con nostre galere, senza alcun indugio e senza alcun impedimento, con gli stessi onori, benevolenza e amicizia in cui egli risiede fra le nostre mura, sarà anche ricondotto a Ostelor, sia durante l’esecuzione del suo officio, sia al termine.
Tutto ciò, in virtù dell'Alleanza, non ostante qualunque differenza che possa esservi nelle cose già accennate, o in qualcuna di esse; non ostante le discordie e i dissensi che vi sono al presente e che potrebbero sorgere ed esservi in futuro fra le Sette Terre dei Domini o le Colonie occidentali e orientali; non ostante sentenze, decreti, condanne, leggi e decretali in qualsiasi modo ed in qualsiasi maniera fatte ed emesse, o da farsi; ed anche non ostante accuse, eccessi, colpe e delitti, qualora ne fossero commessi e perpetrati in qualunque modo ed in qualunque maniera dale due parti o da una di esse; e, in generale, non ostante qualsiasi altro impedimento, fosse anche tale per cui fosse necessario farne speciale menzione nelle presenti lettere.
E se per caso avvenisse che uno o qualcuno dei nostri facesse ingiuria ad essi o ad alcuno di essi, o arrecasse loro qualche molestia nella persona, nell’onore, nelle cose o in qualsiasi altro campo, chi manca in tal modo verrà giudicato da noi o dalla nostra parte, in modo da dare alla parte lesa una giusta e ragionevole soddisfazione. Analogamente, se qualcuno di loro faccia, come abbiamo detto, qualche ingiuria a qualcuno dei nostri, sarà giudicato da loro fino a dare una degna e ragionevole soddisfazione a colui che ha sofferto l’ingiuria, secondo l’uso e la consuetudine di ognuna delle due parti. Quanto agli altri crimini, mancanze e colpe di qualsiasi genere, ciascuna di esse istituirà il processo e giudicherà dei suoi.
Questo Consiglio di Ostelor, infine, esorta tutti i Valdacli, e inoltre con l’autorità dell’Alleanza, in virtù dei trattati in vigore comanda e ordina a tutti e singoli i consiglieri, i re, i duchi, i principi, gli officiali, le comunità, e alle altre single persone, di qualsiasi stato, condizione e dignità essi siano, appartenenti alle Sette Terre e alle Colonie orientali e occidentali, che osservino inviolabilmente quanto è stato detto nel suo complesso ed in ogni singolo punto, e, per quanto sta in essi, lo facciano osservare; che onorino e trattino con benevolenza e con reverenza il signore Artagora e tutti gli altri e ciascuno di quelli che verranno per l’esecuzione dell’officio, e quando se ne riandranno, sia insieme che singolarmente; e li facciano onorare e trattare allo stesso modo.
Se dovesse sorgere qualche dubbio circa il salvacondotto e quanto esso contiene, si starà alla dichiarazione dell’Alleanza fra le Sette Terre dei Domini Valdacli.
Questo Consiglio di Ostelor vuole che il presente salvacondotto abbia valore e conservi la sua validità fino a che, in ultimo, il signore Artagora e le altre persone suddette coi loro servi, fino al numero, come già detto, di dieci, in vita e in morte, e con le altre cose e i beni, non saranno tornati nella città di Ostelor.
Se poi qualcuno tentasse di fare qualche cosa contro quanto abbiamo detto o qualche sua singola disposizione, sappia che egli incorrerà nella indignazione della città di Ostelor e del suo supremo Consiglio.
Artagora sedeva pensieroso sotto una piccola veranda e guardava un punto imprecisato della siepe.
In quei giorni di dubbio e attesa riaffioravano ricordi legati alla sua vita a Parga.
Ricordava il padre, un oplita della guardia cittadina, di come gli avesse insegnato fin da piccolo ad utilizzare la lancia e il bastone, nella speranza che avesse più facilità a far carriera come soldato; ricordava sua madre, una donna colta e intelligente, che gli parlava degli studiosi, di come studiassero le leggi che regolavano gli eventi della natura per spiegare certi moti dell'animo umano, racconti narrati con la speranza che dal figlio emergesse un talento per le scienze.
Ed entrambi erano contenti, poiché il giovane Artagora prometteva di essere un forte combattente e dimostrava propensione per lo studio. Fu accettato all’accademia anche grazie all’appoggio del capitano di suo padre per essere istruito alla scienza militare, per diventare un costruttore di macchine belliche. Artagora si appassionò alla fisica, imparò alcune delle conoscenze più importanti degli studiosi Athoriani, ma poi giunse la guerra, e la leva obbligatoria.
Partì ragazzo entusiasta e tornò uomo disilluso.
Comprese che lo la guerra studiata come scienza e quella combattuta erano due cose molto diverse.
Aveva studiato come costruire e utilizzare un trabucco e un mangano, ma nessuno gli aveva mai mostrato cosa succedeva ad un uomo colpito da un proiettile. Gli avevano insegnato ad utilizzare il fuoco greco, ma vedere un essere umano ardere vivo anche nell’acqua fu molto diverso.
Artagora capì che la scienza correva spesso il rischio di astrarsi troppo dai suoi risultati.
Appena tornato, con i gradi che aveva conquistato sul campo, decise di dedicarsi a studi che sentiva di aver colpevolmente ignorato. Studiò la filosofia, comprese l’etica.
Ma Athor era un piccolo regno, una fragile barchetta in un mare tempestoso di guerre e cambiamenti che coinvolgevano ogni angolo della terra di mezzo, e la guerra inevitabilmente tornò.
Fu richiamato come vice comandante, poi ci furono I Valdacli, la prigionia, l’errare, il viaggio a Same, di nuovo la prigionia, Ostelor e infine Ar Veniè.
“Eccoti qui, pieno dei tuoi studi e delle tue esperienze….che pensavi di esserti lasciato alle spalle certe cose, ma che sei pronto a riportare le tue capacità esattamente la da dove sei partito, e tutto per la più umana delle pulsioni…”
E mentre pensava questo guardò prima i fiori della siepe, quelli che tanto piacevano ad Ar Venie e poi una serie di disegni che aveva abbozzato col bastone sul terriccio del giardino: c’era una mezza elisse e uno schema di come linee rette incidenti convergevano poi sul fuoco più esterno, uno specchio ustorio….
Sospirò profondamente, mosse un piede e dei disegni sul terriccio non rimase nulla.
Improvvisamente, alle sue spalle, le voci si fecero più forti, e sentì il rumore di uomini che salivano le scale. Indietreggiò prontamente, allontanandosi dallo scrittoio di Artagora e prendendo una posa d’attesa.
Le guardie sulla porta fecero passare due uomini, salutandoli rispettosamente, e Ar-Venie si chiese come avesse fatto a non accorgersi di tutto il chiasso che c’era stato nel cortile e che sicuramente era arrivato fin lassù.
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Venie
Si ritrovò di fronte al più robusto dei due. Vestito alla moda delle isole, capelli candidi e ordinati come quelli di una donna, raccolti e tenuti a posto da un fermaglio d'oro che sciolse dopo essere entrato, indossava un manto confezionato non con la solita stoffa rossa, bensì, o almeno così le parve, con un tessuto dall’effetto perlaceo, creato forse da un filo di seta intrecciato nella trama. Mentre osservava i suoi strani modi, così distratti e poco chiari, notò un altro vezzo: le asole del manto erano state cucite con un filo color porpora, così scuro da sembrare quasi nero. Dietro a loro stava la loro serva, certamente di Hathor a giudicare dai tratti spigolosi del viso e dai capelli naturalmente ricci; era giovane, e vestiva poveramente. Ar-Venie, senza tentare di nascondere il suo fastidio per le condizioni della ragazza e per l’impudenza del loro ingresso, tirò un respiro profondo, e chiese:
“E voi sareste?”
“Mi chiamo Creone”, rispose in lingua adunaica l’uomo dai capelli bianchi, con forte accento orientale. Si avvicinò e le chiese, senza il minimo sorriso, anzi con un tono minaccioso: “Sono giunto da Parga, in Hathor, su richiesta del vostro signore Yamo, di Nindamos. Intendo chiedervi di introdurmi al suo cospetto. Immediatamente”
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Creone
Attorno ai nuovi venuti e ad Ar-Venie si era creato una specie di vuoto. La sfacciataggine dell’uomo era ovvia, ma Ar-Venie ne era rimasta colpita a tal punto da star cercando le parole più adatte per l’occasione. Con un impercettibile tremolio delle labbra, rispose chiedendo:
“E quale sarebbe il vostro ruolo nella legazione del vostro signore Artagora? Con quale titolo chiedete di incontrare il Primo Consigliere?”
Creone la guardò dritto negli occhi, forse nel tentativo di metterla ancor più a disagio, e disse: “Artagora non è il mio signore. Delle mie azioni, rispondo solo allo stato di Parga. Sono stato convocato”
Ar-Venie non poteva fare a meno di provare una totale antipatia per i suoi modi, tanto diversi da quelli di Artagora, e fu tentata di salutarlo e andarsene. Si, ma poi?
Non sapeva chi fossero gli uomini appena arrivati. Del filosofo avventuriero, non aveva nessuna notizia, e non riusciva a smettere di rimproverarsi di averlo messo in grande pericolo sfruttando il suo sentimento d’amicizia. I soldati di Artagora, alla legazione, erano tesi e infuriati; aveva spiegato a Kiro e a Kedalion, che l’avevano visto allontanarsi in barca assieme a Yasini, che si trattava di una commissione importante e che Artagora sarebbe rientrato presto, ma su uomini come quelli non aveva nessun ascendente, e i nuovi arrivati rendevano ora tutto più difficile. Qualsiasi cosa; sarebbe potuta succedere qualsiasi cosa.
Si era voltata istintivamente e si era allontanata di qualche passo dall’uomo, ma non sembrava una protesta tanto efficace. Decise così di accettare la sfida; rispose con un sorriso, incoraggiata dal dolce sapore della polemica che Artagora stesso le aveva insegnato, e tornò verso Creone.
“Hathor ha più risorse da spendere di chiunque altro nella regione, a quanto vedo, per muovere i suoi messaggeri per ogni dove” , disse.
“Perché sta spendendo tutto il denaro degli stati, signora, per assolvere alle vostre richieste e mantenere la propria libertà. Richieste che, alle volte, hanno qualcosa di bizzarro”, rispose Creone.
“I vostri stati vantano la presenza di molti filosofi e matematici", disse ancora Ar-Venie, "Ma sono privi dell’acciaio che difende le loro idee. E cercate protezione sotto le nostre bandiere.”
“Le vostre bandiere vantano la presenza di molti uomini facoltosi che sanno apprezzare le cose belle della vita e che, come del resto sono certo potrete dimostrare riponendo nel cassetto di Artagora l’equivalente della nostra spesa per giungere da Parga a Ostelor, sono pronti a separarsi dai loro soldi senza troppi problemi in cambio del frutto della mente.”
“Signore”, rispose Ar-Venie, “svolgerete le vostre mansioni per Ostelor così come Artagora ha disposto, come vostro dovere. E sarete ricompensato attraverso la legazione, così come disposto da Yamo, nella misura che riterrà opportuna. Non ho motivo di nascondervi che però è impossibile per voi incontrarlo in questo momento; è partito con la flotta. Né potete incontrare Artagora, poiché egli è assente. Nel giro di poche settimane, sarà rientrato. In queste settimane, sarete mio ospite.”
Creone abbozzò un sorriso di circostanza. Stava per aggiungere qualcosa, quando la pesante tenda sull'ingresso, che costituiva l'unico mezzo per ottenere riservatezza, svolazzò come se fosse stata aperta una porta.
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Aidea
La serva entrò portando dei bagagli, e stette poi ferma, lo sguardo fisso sul suo padrone. “Non startene lì come un’asina, Aidea", sibilò Creone. "Vai a prendere le altre cose che abbiamo portato con noi”
Durante il mesto viaggio di ritorno ( non privo comunque di ulteriori eventi ), Artagora ebbe comunque modo di riflettere e articolare qualche riflessione, cercando di superre il senso di confusione che gli aveva lasciato in testa l’incontro con il “traduttore”. Ma ciò che gli pareva di aver colto lo inquietava, e non poco.
Il panorama invernale di quelle terre che a breve sarebbero state sconquassate non lo metteva di buon umore, eppure quel panorama ruvido si accordava perfettamente con il carattere delle genti che vi regnavano. E proprio sulla natura dei valdacli, sul loro modo di pensare L’athoriano aveva spostato la sua attenzione.
Per una volta aveva abbandonato le speculazioni diplomatiche e gli studi della natura a cui si era spesso dedicato spesso in quei mesi, costretto anche ( forse soprattutto ) dagli eventi e dai suoi sentimenti.
L’impenetrabilità del suo interlocutore ad Urland e quella che un osservatore poco attento avrebbe definito testardaggine, lo avevano convinto che i valdacli tutti avevano questo modo di essere….badate: non di carattere si parla, ma di una forma di articolare la propria vita intera, le proprie azioni. Se la filosofia che Artagora aveva studiato aveva come assunto principale la consapevolezza di non sapere, gli abitanti dei domini, potendo parlare di una loro filosofia, di un loro pensiero, partivano dalla convinzione incrollabile di sapere.
Era così: essi non muovevano un dito né proferivano parola senza una ragione che non partisse da una conoscenza, da un fatto. Era gente pragmatica, molto convinti di ” sapere ” , ma d’altra parte erano cresciuti nella comune opinione che il cielo li considerasse degli eletti, migliori, favoriti da una vita lunga….chi non avrebbe avuto la tentazione di pensarla così in mezzo a questo coro? E non era vanità: era una convinzione.
Diplomazia era una parola fuori luogo per la guerra che si addensava nei cieli di quell’ inverno plumbeo. Mettere d’accordo Gondoriani e Valdacli era pia illusione con questi presupposti… e a ben pesarci erano sempre i figli di Numenor dietro ai conflitti della terra di mezzo.
Ma il pensiero di Artagora era molto più egoistico.
Troppo spesso aveva ignorato la natura di quella donna; certo, era cresciuta in un modo e in un contesto che la avevano staccata da un certo modo molto tradizionalista di essere, ma ciò non di meno era pur sempre una valdacli. Aveva mosso ingenti mezzi e molto denaro dietro cose apparentemente senza scollegate, aveva deciso di esporsi politicamente affrontando rischi che andavano ben otre quelli diplomatici, entrando in un gioco di cui poco si sapeva, o almeno poco ne sapeva lui.
Adesso ne aveva la certezza, quella donna aveva le idee chiare su quello che accadeva, e soprattutto aveva uno scopo, perché i valdacli avevano sempre uno scopo.
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...Ho avuto diverse opportunità di riflettere della morale degli Elfi, rendendomi conto solo dopo molto tempo di sbagliare a considerare la questione con il metro dei miei maestri di etica, che alla fine di uomini parlavano: non sono uomini, la vita di un uomo dura quanto un loro battito di ciglia; non vedo in loro bene o male, almeno non come li conosciamo noi nella nostra breve vita, e in più di un'occasione ho avuto la percezione, incrociando le loro cammini, di essere per loro solo una presenza breve e incidentale; pormi ad affrontare questioni che li riguardavano, e quindi misurate sui loro valori mi ha spesso messo in pericolo, e solo ricordarmi della mia umanità mi ha aiutato a salvarmi, oltre ad una immeritata benevolenza del destino.
Al loro cospetto siamo sottili come un foglio di carta, ed altrettanto fragili....
(Lettera da Indùr ad Ar-Venie)
1 Aprile anno 75
Mia signora…
Innanzitutto vi porgo le mie scuse per avervi inviato questa mia missiva dopo tanto tempo ma, onestamente, non ho avuto occasione di trovare una stazione di posta dalla quale potervi inviare notizie.
Mentre scrivo queste righe, ci troviamo nell’Ultima Locanda (di nome e di fatto) prima delle terre selvagge. Essa è posta relativamente vicino ad un crocevia dal quale ci si può dirigere o verso Arpel, o verso Tenth ed i Monti Gialli, oppure inoltrarsi nelle Terre Selvagge percorrendo l’antica Via Est.
Come temevamo, la richiesta d’aiuto giunta all’Ambasciatore Artagora da parte del suo messaggero si è rivelata una trappola, alla quale siamo sfuggiti per poco…
In breve, quando giungemmo all’Ultima Locanda, ci rendemmo conto che la messaggera Hatoriana non vi era mai giunta. Così decidemmo di dividerci in due gruppi per esplorare la zona… Io e Kiriazys ci dirigemmo ad un vicino villaggio, mentre Imrazòr, Loras ed una guida si addentrarono nella vicina foresta, poiché venimmo a conoscenza che nel suo interno vi si trovava un piccolo fortilizio parzialmente diroccato che serviva da covo ad una banda di briganti, composta per buona parte da disertori del nostro esercito, che ritenevamo essere i responsabili dell’assalto al messaggero.
Mentre io ed il mio compagno ritornavamo alla locanda, intravedemmo nella foresta due uomini simili a quelli che assaltarono la vostra casa, calvi e con lo stesso simbolo tatuato sulla fronte. Essi erano comandati da un uomo mai visto prima. Li seguimmo di soppiatto e questi ritornarono al villaggio: una volta arrivati iniziarono a minacciare i pochi abitanti rimasti (la maggior parte degli uomini erano partiti per il fronte) cercando di ottenere informazioni sul nostro conto… Li attaccammo e riuscimmo a sbaragliarli, anche se io rimasi ferito.
Gli altri, mentre ritornavano anch’essi dopo aver localizzato il forte, vennero a loro volta attaccati da una banda composta sempre dagli stessi individui, anche se più numerosa. Imrazòr venne catturato (non preoccupatevi, adesso è con noi e sta bene), mentre Loras e la guida riuscirono a fuggire e a dare l’allarme.
Poco tempo dopo, la maggior parte dei briganti attaccò la locanda nella quale avevamo preso alloggio e, grazie anche all’aiuto ed al sacrificio degli uomini del villaggio, riuscimmo a sgominarli. Saputo nel frattempo che Imrazòr era trattenuto nella loro fortezza, coloro che ancora potevano combattere partirono immediatamente e distrussero quel che rimaneva della banda, liberando il nostro compagno che era stato lasciato “in custodia” ai briganti dai suoi assalitori.
A questo punto, non trovando tracce dei rapitori di Imrazòr e dovendo guarire dalle ferite più o meno gravi che riportammo negli scontri, decidemmo di fermarci presso l’Ultima Locanda e qui rimanemmo bloccati dall’inverno. Devo a questo punto lodare le abilità del guaritore Ardic, il quale ha saputo sanare tutte le nostre ferite, senza lasciare conseguenze. Se mi è permesso un parere personale, ritengo che la sua abilità sia di gran lunga superiore a quella del suo mentore, Sha Bla.
Riuscimmo comunque a ritrovare nella foresta quelli che riteniamo essere i resti della messaggera Hatoriana, pertanto abbiamo deciso, ora che le strade sono nuovamente agibili, di proseguire alla volta di Hator, per consegnare la copia del messaggio che l’Ambasciatore Artagora ha affidato a Kiriazys.
Siccome gli uomini che avevano catturato Imrazòr gli hanno sottratto il vostro salvacondotto, non possiamo rischiare di percorrere le vie segnate in quanto ci sono in giro, soprattutto in città come Arpel e Tenth, gruppi di soldati che “reclutano” tutti gli uomini validi per mandarli al fronte. Pertanto ci inoltreremo nelle Terre Selvagge percorrendo la Via Est.
Io, Imrazòr, Loras, Ardic, Kiriazys e due guide (purtroppo abbiamo perso gli altri opliti in combattimento) partiremo domani.
Affido questa lettera ad una persona di fiducia che la spedirà per noi: il suo nome è Hamac, è il locandiere che ci ha ospitati per tutto questo tempo. Un tempo era un soldato che però è stato azzoppato durante un combattimento e si è ritirato ma, nonostante tutto, la sua abilità e la sua forza ci sono stati di grande aiuto.
Volevo infine portare alla vostra attenzione un’ultima cosa: lungo la strada per arrivare fin qui, ci siamo imbattuti in un piccolo lago e, mentre bivaccavamo sulle sue sponde, la spada di Imrazòr ha reagito, splendendo di luce propria, a qualcosa che si trovava sotto la superfice del lago. Quel qualcosa si rivelò essere un pezzo di un medaglione, con al centro una scheggia di una gemma. Se la spada di Imrazòr viene estratta nelle vicinanze del medaglione, entrambi iniziano a splendere di luce propria inoltre, osservando la lama della spada mentre brilla, sulla sua superficie compaiono delle scritte in un linguaggio a noi incomprensibile…
Da allora, la sua spada è diventata per Imrazòr una vera ossessione, al punto che, siccome era andata perduta quando fu catturato, l’ha cercata incessantemente per tutto l’inverno, finchè è riuscito a ritrovarla qualche giorno fa. Da allora, passa molto del suo tempo libero a meditare con la spada in gembo, devo però dire che, ossessione a parte, il suo comportamento non è cambiato.
I suoi rapitori si sono però impossessati della scheggia della gemma, lasciandogli soltanto il pezzo del medaglione. Esaminandolo meglio e grazie agli studi che ho condotto in casa vostra, anche alla luce di alcune scritte lungo i bordi dello stesso, ritengo che la sua forma originale fosse un ottagono e che lo stesso possa provenire dall’antico reame di Ardor.
Spero di potervi dare nostre notizie al più presto.
Servitore vostro
Indùr
(lettera di Indùr ad Artagora)
1 Aprile anno 75
Ambasciatore Artagora
Mentre scrivo queste righe, ci troviamo nell’Ultima Locanda (di nome e di fatto) prima delle Terre Selvagge. Essa è posta relativamente vicino ad un crocevia dal quale ci si può dirigere o verso Arpel, o verso Tenth ed i Monti Gialli, oppure inoltrarsi nelle Terre Selvagge percorrendo l’antica Via Est.
Come temevamo, la richiesta d’aiuto giuntavi da parte della vostra messaggera si è rivelata una trappola, alla quale siamo sfuggiti per poco…
In breve, quando giungemmo all’Ultima Locanda, ci rendemmo conto che la messaggera non vi era mai giunta. Così decidemmo di dividerci in due gruppi per esplorare la zona… Io e Kiriazys ci dirigemmo ad un vicino villaggio, mentre Imrazòr, Loras ed una guida si addentrarono nella vicina foresta, poiché venimmo a conoscenza che nel suo interno vi si trovava un piccolo fortilizio parzialmente diroccato che serviva da covo ad una banda di briganti, composta per buona parte da disertori del nostro esercito, che ritenevamo essere i responsabili dell’assalto al messaggero.
Mentre io ed il mio compagno ritornavamo alla locanda, intravedemmo nella foresta due uomini simili a quelli che assaltarono la casa di Lady Ar-Veniè, calvi e con lo stesso simbolo tatuato sulla fronte. Essi erano comandati da un uomo mai visto prima. Li seguimmo di soppiatto e questi ritornarono al villaggio: una volta arrivati iniziarono a minacciare i pochi abitanti rimasti (la maggior parte degli uomini erano partiti per il fronte) cercando di ottenere informazioni sul nostro conto… Li attaccammo e riuscimmo a sbaragliarli.
Gli altri, mentre ritornavano anch’essi dopo aver localizzato il forte, vennero a loro volta attaccati da una banda composta sempre dagli stessi individui, anche se più numerosa. Imrazòr venne catturato, mentre Loras e la guida riuscirono a fuggire e a dare l’allarme.
Poco tempo dopo, la maggior parte dei briganti attaccò la locanda nella quale avevamo preso alloggio e, grazie anche all’aiuto ed al sacrificio degli uomini del villaggio, riuscimmo a sgominarli. Saputo nel frattempo che Imrazòr era trattenuto nella loro fortezza, coloro che ancora potevano combattere partirono immediatamente e distrussero quel che rimaneva della banda, liberando il nostro compagno che era stato lasciato “in custodia” ai briganti dai suoi assalitori.
A questo punto, non trovando tracce dei rapitori di Imrazòr e dovendo guarire dalle ferite più o meno gravi che riportammo negli scontri, decidemmo di fermarci presso l’Ultima Locanda e qui rimanemmo bloccati dall’inverno.
Riuscimmo comunque a ritrovare nella foresta quelli che riteniamo essere i resti della vostra messaggera, pertanto abbiamo deciso, ora che le strade sono nuovamente agibili, di proseguire alla volta di Hator, per consegnare la copia del messaggio che avete affidato a Kiriazys.
Siccome gli uomini che avevano catturato Imrazòr gli hanno sottratto il salvacondotto datogli da Lady Ar-Veniè, non possiamo rischiare di percorrere le vie segnate in quanto ci sono in giro, soprattutto in città come Arpel e Tenth, gruppi di soldati che “reclutano” tutti gli uomini validi per mandarli al fronte. Pertanto ci inoltreremo nelle Terre Selvagge percorrendo la Via Est.
Io, Imrazòr, Loras, Ardic, Kiriazys e due guide (mi duole informarvi che abbiamo perso gli altri opliti in combattimento) partiremo domani.
Affido questa lettera ad una persona di fiducia che la spedirà per noi: il suo nome è Hamac, è il locandiere che ci ha ospitati per tutto questo tempo. Un tempo era un soldato che però è stato azzoppato durante un combattimento e si è ritirato ma, nonostante tutto, la sua abilità e la sua forza ci sono stati di grande aiuto.
Spero di potervi dare nostre notizie al più presto.
Rispettosamente
Indùr
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