Era stata una brutta sorpresa, lo doveva ammettere…
Certo Indùr non si aspettava che, attraversando le Terre Selvagge, gli spettri di guerre combattute un secolo prima venissero a dar loro fastidio, ma oramai la via era intrapresa e non si poteva tornare indietro.
Mentre osservava Ardic che si prodigava come il suo solito per curare i feriti del breve ma intenso scontro, si ritrovò a riflettere su ciascuno di loro e a valutare le loro capacità, ora che le aveva viste all’opera in battaglia.
Ardic il cerusico era senza dubbio utilissimo dopo uno scontro oppure, viste le sue abilità alchemiche, anche in preparazione dello stesso ma, per quanto avesse dimostrato il suo valore anche in battaglia, era meglio proteggerlo in caso di scontri: ora come ora le sue abilità erano troppo necessarie e, se gli fosse capitato qualcosa mentre erano nelle Terre Selvagge, questo avrebbe probabilmente segnato la fine di tutti loro.
Loras la guida aveva accolto con entusiasmo la proposta di Indùr di tracciare una mappa delle terre selvagge e, una volta finito il loro viaggio, utilizzare le conoscenze acquisite per lucrarci sopra. Anche lui non era un guerriero, ma aveva dimostrato una notevole abilità nel farsi inseguire da uno o più avversari, togliendoli di fatto dal campo di battaglia, per poi eluderli…
Hima aveva seguito il gruppo di sua iniziativa. Non era una guerriera, non era una curatrice, ma aveva una discreta conoscenza delle terre che stavano attraversando e, in più, aveva coraggio da vendere. Indùr ricordava il suo valore sia nello scontro alla taverna, sia in quello con gli spettri: non aveva gridato, non era fuggita: aveva preso una spada e aveva combattuto al loro fianco finchè le forze non le erano venute meno. Lo faceva per amicizia? Per affetto nei confronti di qualcuno di loro? O semplicemente per spirito d’avventura? Indùr si ripromise di chiederglielo non appena fosse giunto il momento adatto.
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Kiryazis di Hathor
Kiryazis l’oplita aveva fretta di raggiungere Hator con il messaggio che doveva consegnare. Come dargli torto? Era fedelissimo al suo signore Artagora ed aveva preso molto seriamente il suo incarico, soprattutto dopo la scoperta della triste fine della messaggera Eurayle e dopo la perdita di tutti i suoi compagni d’arme. Indùr ed Imrazòr avevano dovuto spendere non poche parole per convincerlo a prendere quel percorso, forse più lungo e difficoltoso, sottolineando che, senza il salvacondotto di Ostelor qualsiasi pattuglia Valdacla avrebbe potuto come minimo bloccarli e spedirli al fronte. Comunque, finchè non deviavano dalla loro missione, il gruppo avrebbe potuto contare sul braccio, la spada e l’enorme scudo dell’Hatoriano.
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Niara
Niara continuava ad essere un mistero, ma Indùr aveva finalmente visto con i suoi occhi, almeno in parte, quel che era in grado di fare. Già sapeva della sua abilità con l’arco, grazie alla quale lei gli aveva salvato la vita (chissà come mai, vista la sua avversione per i Valdacli), ma ora aveva potuto constatare che la ragazza nutriva una certa abilità nelle, diciamo così, arti arcane. Da altre parti la ragazza avrebbe probabilmente rischiato il rogo come strega, ma adesso contava soltanto il qui e l’ora: Niara era indubbiamente utile al gruppo e lui le era riconoscente e non le avrebbe mai fatto del male. Per sua scelta lei aveva stabilito un legame con Loras e Kiryazis e, se doveva prestare ascolto ai racconti di quest’ultimo, per quanto bizzarri, Indùr sospettava che la donna avrebbe potuto aiutarli anche se si fossero trovati in difficoltà all’interno di una foresta.
Un debole gemito strappò Indùr da quelle riflessioni: Imrazòr si stava lamentando delle ferite subite nello scontro, che gli era costato un occhio e la quasi amputazione del braccio destro, privando il gruppo di un valido guerriero per molto tempo. Indùr però, era molto più preoccupato della salute spirituale dell’amico. Sapeva molto, anche se non tutto, del suo passato e quando Imrazòr si metteva a meditare con la sua spada in grembo (arma per la quale provava una vera e propria ossessione) spesso succedeva qualcosa di brutto. Quando Indùr aveva raccolto la spada dell’amico dal campo di battaglia, anche se non era successo nulla, aveva percepito che qualcosa di sinistro gli sarebbe potuto accadere. Addirittura temeva che gli spettri che li avevano assaliti fossero stati evocati maldestramente da Imrazòr stesso. La preoccupazione di Indùr nasceva dal fatto che, da un po’ di tempo, l’amico sembrava incurante delle conseguenze che le sue azioni potevano portare a chi gli stava attorno mentre maneggiava oggetti di potere come la sua arma o l’anello che aveva trovato lungo la strada, il quale per due volte era stato la causa del ferimento più o meno grave dei suoi compagni a causa di una vampata di fuoco arcano evocata dall’oggetto.
Mentre pensava a questo, Indùr si accorse che Imrazòr non indossva l’anello… Immediatamente si recò nel punto dove l’amico era caduto durante il combattimento e vide il gioiello risplendere in mezzo all’erba bruciata.
Mentre lo raccoglieva con molta cautela, Indùr trasse un profondo sospiro, mentre nella sua mente un’idea stava prendendo forma…
“Dobbiamo proseguire” , disse Miriac, la loro guida; e si avviò al piccolo trotto. Gli altri lo seguirono in fila serrata. Imrathir si girò una volta, ma la via verso Trenth era già scomparsa fra le colline e gli alberi spogli. “Capitano” , l’aveva chiamato Hamac, alla locanda. Imrathir si domandò che cosa significasse veramente. Credeva d’esser stato il solo a udire la frase, ma vide che Thom si mordicchiava i baffi, con aria assorta. Pareva proprio che il maniscalco panzone sentisse un mucchio di cose.
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Imrathir
I corni chiamarono, lassù, verso il passo, e si risposero ancora una volta, appena percettibili, nell’oscurità. Imrathir si spostò sulla sella, mentre Miriac seguiva le tracce, guidandoli con i suoi cenni. Questa volta erano più vicini, ne era assolutamente sicuro. Una giornata, forse due.
Di nuovo i corni, che gridavano più forte nella notte, chiedendo aiuto. Thom e Adalban si guardarono indietro e Gindaran si ingobbì come se si aspettasse d’essere colpito alla schiena. Adalban raggiunse Imrathir.
“Non possiamo andare più in fretta?” chiese. “Ci chiamano, hanno bisogno di noi” . Imrathir scosse la testa. “Quelli di prima, si. Ma sono troppo vicini, adesso. Bande di disertori, forse. Ma se fosse così perché ci farebbero sentire i corni, perché ci farebbero sapere dove sono? Forse per spingerci a correre senza pensare. Forse sono spie. No, raggiungeremo Imrazor, anche in queste terre maledette. Abbiamo bisogno di lui”.
Mantennero la stessa andatura. Dietro di loro, a intervalli, risuonavano i corni, ogni volta più vicini. Imrathir cercò di non pensare alla distanza che lo separava dagli inseguitori, ma a ogni nota del corno, la calcolava inconsciamente. Mancava poco all’alba, quando Tanul sbucò al galoppo dalla collina dietro a loro.
Si fermò al fianco di Imrathir. “Almeno tre cavalieri. Forse cinque. Stranieri.”
“Se sei arrivato tanto vicino da vederli,” disse Thom preoccupato “forse ti hanno scorto. Potrebbero esserti alle calcagna.”
“Non l’hanno visto” assicurò Miriac. Si raddrizzò, mentre tutti lo fissavano. “Ho seguito le sue tracce, non dimenticatelo.”
“Silenzio” ordinò Imrathir. “Tanul ha appena detto che abbiamo forse cinque cavalieri di Gondor alle calcagna.” Seguì un silenzio incredibile, poi Imrathir continuò a parlare. “E riducono il distacco. Li avremo addosso fra un’ora o anche meno.”
Quasi tra sé, il capitano mormorò: “Se sono così vicini alle terre di Trenth, hanno passato Fiamma Nera durante l’inverno. Ma è impossibile. E se non hanno preso quel passo, come hanno fatto ad arrivare così in fretta?”
“Si sono allargati a ventaglio”, continuò Tanul. “Sono esploratori, all’avanguardia forse di un drappello più grosso.”
“Da qui in avanti è tutto scoperto”, disse Gindaran.
“E ora?” domandò Thom, furioso. “Dove andiamo?”
Un lampo improvviso tinse di rosso fuoco le nuvole, a oriente. Thom sorrise. “Il temporale ci nasconderà”, disse.
“Non è un temporale”, rispose Miriac. “Il lampo è stato troppo basso e scuro, e non sta venendo il tuono”
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Il pomeriggio del secondo giorno vide, avanti, dei cespugli più folti, una macchia più estesa delle altre. Il sole, basso nel cielo a occidente, spingeva ombre di sbieco, al suo fianco, e il vento cresceva d’intensità. Niara intuì che i cani abbandonavano la posizione alle sue spalle e passavano all’avanguardia, ma senza fretta. Non avevano fiutato il suo odore. Era il momento di trovare un posto dove riposare e passare la notte e i cespugli folti sarebbero andati benissimo.
Mentre si avvicinava alla macchia, dall’erba alta sbucarono tre mastini, dal muso largo, alti quanto lupi e anche più pesanti, che snudarono i denti in latrati forti e rumorosi. Si fermarono al limitare della radura, ma distavano solo una trentina di passi; avevano negli occhi una luce assassina.
Niara, spaventata, inciampò ritraendosi e rischiò di cadere; i mastini già si avvicinavano, e se fosse caduta, diventando un avversario più piccolo di loro, sarebbe stata perduta. Inutile usare l’arco contro i cani, ne avrebbe abbattuto uno solo e gli altri le sarebbero stati addosso. Raccolse presto delle pietre: una pietra nelle costole faceva scappare anche il più feroce, e dopo le pietre sarebbe stata una cosa di coltello.
Senza staccare lo sguardo dai cani, e imitando il loro ringhio, Niara si preparò.
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Durante l’inseguimento, Maite perse il conto delle sue cadute e dei graffi sul viso e sulle braccia. E parecchie volte vide i segni che giustificavano la paura per Rilien. Aveva guardato con un senso di nausea un coniglio fatto a pezzi. La testa era rimasta dritta, mentre il resto, zampe e visceri, era sparpagliato tutto intorno. E vide anche uccelli ridotti a informi mucchietti di piume. E altre due volpi.
Ricordò le parole di Lariesse: alle creature del Tenebroso, ai suoi strumenti, piaceva uccidere. Il suo potere era la morte. E se i cani l’avessero scoperta? Occhi spietati che luccicavano come fiamme rosse. Zanne acuminate che si avventavano e spillavano sangue. Sei, sette cani. "A meno che non possano chiamare altri della loro razza, forse tutti, a partecipare alla caccia" , pensò. Un’immagine altrettanto nauseante le si formò nella mente: un mucchio di cani, tutti addosso a lei, che ribolliva come un cumulo di larve, lottando per qualche brandello insanguinato.
All’improvviso questa immagine fu spazzata via da altre, ciascuna chiara per un istante e poi confusa in quella successiva. I cani avevano scoperto Moriel a nord. Cani ringhianti che si tuffavano contro Moriel e il suo bastone, cani che roteavano e si tuffavano di nuovo, con i denti che sbranavano e succhiavano sangue. Maite assaporò la sconfitta e la paura della fine, percepì il dolore di squarci insanguinati in tutto il corpo, seppe con ostinata disperazione che tutti i suoi sforzi erano insufficienti. Tutto turbinò, e si oscurò, e Maite cadde di nuovo; Moriel non c’era più.
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"E' meglio piuttosto sacrificare tutto, assolutamente tutto, per la vittoria su Sauron, che per noi stessi. Che senso ha per me continuare la lotta, continuare lo studio, già sapendo che verrò sconfitta, che cadremo assieme agli Elfi? Ma se tutti volessimo pensare a questo modo, non rimarrebbe più nessuna speranza. E così, avanti a testa alta. Fede nella nostra volontà, e nella guida di Seregul"
[size=2]Una frase sul diario di Araphor, da lei scritta al termine della Terza Era, nel corso della guerra contro gli Elfi di Ardor.[/size]
"Si è sempre sentito affermare, qui in Ostelor, e nelle terre che furono della mia famiglia, che Seregul fu mandato a noi dai Valar. Io non lo dubito. Seregul fu di certo mandato a noi da Iluvatar stesso, anche se non fu per salvare la potenza dei Valdacli, ma per rovinarla. La provvidenza di Iluvatar ha determinato la distruzione del popolo di Numénor e alla fine anche delle sue colonie sulla Terra di Mezzo, e Seregul è l'esecutore di questa volontà"
[size=2]Minastir, cugino di Araphor, in morte della stessa.[/size]
Il viaggio era arrivato al punto del non ritorno, o per lo meno era quello che stava balenando nella mente di Imrazor.
Aveva visto dipinto sul volto dei suoi compagni la disperazione di portarsi dietro un pericolo come lui.
Iniziava a peoccuparsi della sua sorte e di quella di tutto il gruppo; le sue lunghe meditazioni non lo avevano portato vicino alla conoscenza ma alttresì molto vicino al riposo eterno.
C'era qualcosa in queste terre che faceva crescere in lui il desiderio, la sete di conoscenza che lo caratterizzavano.
La sua spada, l'amuleto perduto, il nuovo anello riuscivano a scatenarein lui strane energie e pulsioni verso la meditazione, l'isolamento da tutto e da tutti e purtroppo aveva coinvolto troppo da vicino i suoi amici.
Indur si prodigava ormai da sempre per tenerlo fuori dai guai ma nessuno nemmeno lui poteva capire cosa significasse tutto questo per lui e forse nemmeno lui stesso riusciva a capirlo.
Sarebbe forse stato meglio non sapere nulla sui poteri della sua spada, ma forse sarebbe stato qualcos'altro di più pericoloso ad attirare la sua attenzione.
Sta di fatto che il viaggio di questo gruppo sarebbe stato sempre più duro se tutti avessero dovuto sopportare il pesante fardello di avere al seguito un elemento tanto instabile.
Ma era tutto più forte di lui, e combattere contro questa curiosità morbosa verso l'arcano era stata e sarà una sfida alquanto ardua, e purtroppo sempre più pericolosa.
Ora doveva anche fare i conti con le sue inumerevoli mutilazioni.
A quel punto un pensiero iniziò a insediarsi nella sua mente; Ar-Veniè, cosa dirà di tutto questo? Come reagirà? Purtroppo lo scoprirà molto presto, forse troppo presto.
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Imrazor
Sull’orlo del fosso, dove cominciava l’erba alta, dove aveva visto quella piccola luce e sentito l'urlo del soldato, sentì, piuttosto che vederla, un’ombra che si ergeva, un’ombra o forse più di una. Scrutando le tenebre attentamente, la forma parve ingigantirsi, illuminarsi debolmente, e presto non ebbe più alcun dubbio: una figura nera era in piedi lì in mezzo all’erba e lo guardava. Era talmente nera che sembrava un buco nero nell’ombra scura che lo circondava.
La lama di Imrazor irradiò una luce rossastra. Egli la rinfoderò immediatamente, e credette di sentire una specie di sibilo, come un respiro velenoso, e un brivido gelido gli attraversò la schiena. La forma avanzò velocemente, si avvicinò: Imrazor tremava come per un gran freddo; ma il suo spavento fu improvvisamente come inghiottito dalla forte tentazione di abbracciare quell’ombra, di gettarsi incontro a essa. Non riusciva a pensare ad altro, tanto era violento il desiderio. Non si era dimenticato delle visioni di spettri, a casa di Venie, né delle parole di Artagora, ma qualcosa sembrava istigarlo, con una potenza irresistibile, a trascurare tutti gli avvertimenti. Non era la speranza di trovare finalmente quella conoscenza a cui anelava, né uno scopo qualsiasi, buono o malvagio, ma semplicemente il bisogno di toccare il buio. Era come muto e paralizzato. Sentiva che Hima lo stava chiamando, che stava correndo per aiutarlo, ma non riusciva a voltarsi verso di lei. Chiuse gli occhi e lottò qualche momento con se stesso; ma ogni resistenza fu vana, ed egli cedette, abbandonandosi al tocco della creatura.
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Immediatamente la sua forma diventò chiarissima, benché tutto il resto rimanesse tenebroso e scuro. Egli riusciva ora a vedere al di là del manto nero; l’uomo di Numénor era in piedi, e lo teneva per un braccio. Nel suo viso bianco fiammeggiavano occhi penetranti e spietati; sotto la cappa, portava un abito lungo e grigio, e sui capelli grigi, una corona dorata. La sua mano scarna stringeva una spada d’acciaio. Il suo sguardo cadeva su di lui, attraversandolo. Un grido acutissimo e potente squarciò la notte; e Imrazor sentì un dolore atroce. Riuscì ancora, prima di svenire, a scorgere Hima che balzava fuori dall’oscurità, e lo spettro che la trafiggeva, uccidendola in un attimo. Con un ultimo sforzo spossante, alzò la spada nel tentativo di difenderla, e cadde.
Così trapassò Imrazor, amante di Ar-Venie.
[size=2]Liberamente tratto da "Il Signore Degli Anelli" di J.R.R. Tolkien[/size]
“Così, è lei” disse Oric, nella lingua dei Sindar. Fu sorpreso di non avere paura. Forse sapeva che si trattava dell’ordine naturale delle cose. "E' viva, dopotutto" .
“Si, è viva” disse la voce rotta, soffocata dell’elfo. “E sa che ci sei. Ti troverà per me...”
Oric si girò. Gli abiti dell’elfo erano lordi di sangue coagulato; sul suo viso si scontravano dolore e rabbia e odio e trionfo.
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“Vedi, ragazza, non potete nascondervi per sempre da me. In un modo o nell’altro, vi trovo. Quello che vi protegge, vi rende anche vulnerabili. Una volta vi nascondete, la volta dopo accendete un falò, e io vi vedo” . Tese la mano. “Se i miei segugi devono agguantarla, forse non saranno gentili. Intanto tu sei qui... quei bifolchi, la’ fuori, non sono stati capaci di sconfiggere un vecchio. Sei mia, ragazza. E io ti ucciderò. Appena ti sarai inginocchiata ai miei piedi. E’ il tuo destino. Appartieni a me. E poi l’inseguirò. Non c’è fretta”.
La lingua di Oric emise un verso confuso, di rabbia e bramosia. Lei tentò di umettarsi le labbra, ma non aveva saliva. “No”, riuscì a dire; e poi le parole le vennero più facilmente. “Appartiene ad Eru, non a te. Mai. Apparteniamo alla Musica. Se mi uccidi, non mi avrai mai.”
Oric le si avvicinò, con il fuoco negli occhi, e scrollò le catene alle quali l’aveva appesa, straziandole i polsi. “Viva o morta, ragazza, sei mia. Più facile da morta, ma meglio da viva. Meglio per te, ragazza”. Oric tese la mano, lei si ritrasse istintivamente: quando tornò a girarsi, la mano tesa di Oric era diventata un pugno. “Sei mia, ragazza, viva o morta. I tuoi amici non torneranno. Sei mia”. Il pugno la colpì in pieno viso, e la sua bocca esplose nel dolore.
L’uomo se ne andò, lasciandola al buio, tremante, allo strano rumore del sangue che gocciolava piano sulla pietra.
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Kiryazis e Valdor si appoggiarono stanchi alle spade, accanto a Loras. Alla loro destra, verso il Cammino di Trenth, il fragore e il clamore della battaglia per il passo riprese con nuovo vigore. Ma la rocca di Fiammanera resisteva. Il cancello della torre era stato distrutto al secondo assalto dal fragore delle diavolerie di Ardic, assieme a molti degli avversari e a qualche amico, ma nessun nemico era ancora riuscito a passare la barricata di massi e travi che si era creata, e i tiratori di balestra, dall’alto, respingevano chi tentava di valicare il fossato fatto fare da Indur.
Valdor mirò le pallide stelle, attraverso la leggera coltre di neve, e la luna che scendeva ora obliqua dietro i picchi che chiudevano a nord la vallata. “Questa notte è lunga come anni interi” , disse. “Quanto potrà tardare ancora il giorno?”
“L’alba non è lontana” , rispose Miriac che si era arrampicato vicino a loro. “Ma non sarà l’alba ad aiutarci, purtroppo” .
“Eppure è sempre l’alba la speranza degli uomini” , disse Kiryazis.
“Ma quei bravi soldati d’Urland, questi uomini guidati da Eloric, non si scoraggeranno certo di fronte al sole” , disse Miriac. “E neanche gli uomini di Gondor che sono con loro. Sentite le loro voci?”
“Le sento” , disse Kiryazis; “ma alle mie orecchie paiono soltanto muggiti di bestie”.
“Eppure molte di quelle voci urlano nella nostra lingua di Numénor, con l’accento del nord” , disse Miriac. “Io conosco quelle parole. Ascoltate! Ci odiano e sono contenti, perché sono certi che ormai il nostro destino sta per compiersi. ' Il re, il re! ', gridano. ' Valandor! Elessar! Morte al crudele Yamo! Morte ai traditori del Sud!' Questi sono gli attributi che ci danno. E’ gente feroce, quando si desta. Alba e crepuscolo non li faranno indietreggiare se prima non avranno preso questo passo, o non si saranno fatti tutti uccidere”.
“Tuttavia l’alba ci recherà speranza”, disse Kiryazis. “Non stanno forse arrivando i soccorsi da sud?”
“Così dicono le vedette. Se faranno in tempo”, disse Loras.
“E allora difendiamo la torre, e speriamo!”, disse Kiryazis.
Mentre parlavano udirono uno squillo di trombe; poi un rombo di tuono, un bagliore di fiamma, e fumo. Una piccola breccia si apriva nelle mura, vicino alla barricata. Una schiera di figure nere irruppe all’interno della cinta.
“Magia!”, esclamò Loras. “Magia contro di noi!”
“Le cose si mettono male, amici”, disse Valdor asciugandosi con la manica il sudore della fronte.
“Sono sotto di noi”, esclamò Kiryazis. “Coraggio! All'attacco! Morte! Morte!” gridò lanciandosi giù a difendere la breccia; ma nel frattempo scale venivano appoggiate contro il parapetto.
[size=2]Liberamente tratto da "Il Signore Degli Anelli" di J.R.R. Tolkien[/size]
Ardic attraversò correndo il cortile interno e salì sull'alta torre di settentrione. Ivi era Loras, che osservava ora la valle da una stretta feritoia.
“Che notizie, Loras?” , domandò.
“Sono molto vicini alle mura, Ardic, ed i difensori che hanno tentato la sortita travolti; ma molti di loro sono riusciti a fuggire e a rifugiarsi fra le rocce”.
“Kiryazis è qui?”
“No. Parecchi uomini si sono lanciati all’attacco, e Kiryazis fra questi. Lì oltre il buco della tua trappola potrebbero respingere l’assalto del nemico e poi riparare di nuovo nella rocca”.
Il rumore di guerra cresceva ai piedi della torre. Si sporsero a guardare; videro innumerevoli punti di luce infuocata sui neri campi, torce sparpagliate come fiori rossi o serpeggianti dalle basse terre verso le alture in lunghe file di luminosità intermittente. Qua e là una vampata.
“E’ un grande esercito, e sale alacremente”, disse Loras.
“Portano fuoco”, disse Ardic. “E quelli più vicini, laggiù, stanno spingendo qualche cosa su per la via. Una macchina di qualche genere, certamente. Vogliono impadronirsi delle mura”.
“Quale speranza possiamo avere, non saprei”, disse ancora Loras, costernato.
“Più di quelle che pensi” , disse Ardic. “Resisteremo a lungo. Nessuno può forzare un passo difeso da uomini di polso”.
“Lo spero veramente”, disse Loras, “Ma rimpiango che noi non si sia andati ancora avanti, nelle Terre Selvagge. Desideravo aiutare Niara. E sarebbe stata una sorte migliore che finire così, in questa prigione”.
Ardic, dopo aver preso commiato, ritornò sulle mura più in basso, che percorse in tutta la loro lunghezza, incoraggiando gli uomini e prestando il suo aiuto ovunque l’assalto fosse violento. Vampate di fiamme s’innalzarono improvvise da sotto la cinta, seguite dal rombo di un tuono, e fu scaraventato all’indietro.
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La possibilità di vivere le diede di nuovo forza. Si trascinò con le mani, cercando di ignorare il dolore centrato nella sua schiena che si irradiava in onde rosse. Se non avesse visto l’uomo tirare con la balestra, avrebbe pensato che le avessero conficcato un palo spesso come l’asse di un carro.
Alzati, alzati! Dobbiamo correre.
Maite non ricordò come riuscì a tirarsi in piedi. Sentiva i cani che si arrampicavano su per la scarpata dietro di loro. Rilien indietreggiò dal bordo e li affrontò man mano che salivano. Li sventrava con il coltello e poi scagliava le carogne sul resto della muta. Quando il meticcio col collare di ferro precipitò ci fu un improvviso calo nell’abbaiare sotto di loro. Entrambe sentirono la sua agonia, e udirono laggiù le urla dell’uomo mentre l’animale a cui era legato moriva dissanguato sull’erba.
Corri! Le disse Rilien.
Non parlarono di quello che avevano appena fatto. Maite aveva una sensazione di terribile calore lungo la sua schiena che era anche freddo crescente. Si mise la mano sul petto, quasi aspettandosi di sentir sporgere il dardo. Ma no, era sepolto in profondità. Seguì Rilien barcollando, la sua coscienza travolta da troppe sensazioni, troppi dolori diversi. La veste e il manto tiravano l’asta del dardo a ogni movimento, un minuscolo oscillare del legno che veniva echeggiato dalla punta affondata dentro di lei. Si chiese quanti ulteriori danni stesse facendo. Si chiese se avesse preso un polmone. Un cervo con una freccia nel polmone non andava lontano. Sentiva forse già il sapore del sangue sul fondo della gola...?
Non pensarci! Le ordinò furiosa Rilien. Ci indebolisci tutt’e due. Cammina e basta. Cammina, continua a camminare.
Così, anche lei sapeva che non poteva correre. Maite camminò, e lei era al suo fianco. Per qualche tempo. Poi stava avanzando ciecamente nel buio, senza neppure preoccuparsi della direzione, e Rilien non era più con lei. Continuò a camminare. Urtava gli alberi. I rami le graffiavano il viso, ma non importava perché il suo viso era insensibile. La veste sulla schiena era una lastra viscida di sangue gelato che si muoveva dolorosamente sulla pelle. Cercò di stringersi il mantello addosso, ma l’improvviso dolore quasi la fece crollare in ginocchio. Che sciocca. Aveva dimenticato che avrebbe strattonato l’asta. Che sciocca. Continua a camminare. Andò avanti.
Urtò un altro albero. Le cadde addosso una pioggia di neve. Si allontanò barcollando e continuò. Per molto tempo. Poi era seduta nella neve, sempre più fredda. Doveva alzarsi. Doveva continuare a muoversi.
Sorella!
Sono qui , le rispose Rilien, con calma. Proprio qui. Stava arrivando. La notte era fresca e pulita. Un solo, improvviso movimento e la lepre era nelle sue mani. La stringeva per la testa ossuta. Avrebbero mangiato bene. La foresta notturna era argento e nero attorno a loro.
Basta. Sorella, non farlo.
Fare cosa?
Io sono la tua serva. Ma non desidero essere te. Neanche tu desideri essere me.
Cammina. Cammina e basta. Continua a camminare.
Camminò di nuovo. Non a lungo, era sicura di no. Al riparo di grandi sempreverdi dove la neve era meno profonda, su un sentiero, crollò in ginocchio.
“Per favore”. Non aveva la forza di implorare pietà, ma piangeva. “Per favore”. Non capiva a chi lo stava chiedendo. Avrebbe avuto freddo, se non fosse stata così stanca. Presto avrebbe acceso un fuoco e si sarebbe scaldata Poteva immaginare quanto sarebbe stata al caldo, poteva quasi sentirlo.
“Papà! Papà! Vieni qui subito!”
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Ancora una volta, a capovolgere le sorti del combattimento erano stati gli archi e le balestre del Trenth. I guerrieri di Armilkhor, sovrintendente del regno di Valandor Hamina e comandante dell’esercito di Mispir, pur avendo subito dure perdite per tutto il giorno, restavano sempre molto superiori di numero, ma erano inermi di fronte alle frecce che piovevano dalla rocca di Fiammanera, alle quali si era trovata completamente esposta la loro falange centrale, quando era finalmente riuscita a superare la collina che sovrastava il laghetto montano e ad attraversarlo; nel frattempo, l’ala sinistra dei guerrieri del Mispir, composta dai tiratori di Urland, era stata costretta a ripiegare.
I combattenti del Trenth sulle prime non si erano resi conto della propria condizione di vantaggio. Si erano uniti ad Hamac, e ai loro compagni che fronteggiavano la falange di Eloric e Armilkhor dopo la sortita notturna, senza capire quanto il nemico fosse prossimo alla vittoria nella parte occidentale del campo di battaglia, ma quel pericolo non era sfuggito ad Ardic. “Arcieri!” Il suo grido era stato così lancinante da giungere al di là dal boschetto, fino al luogo in cui si trovava Niara, e a richiamarla a loro; i balestrieri e gli arcieri di Hamac si erano schierati in seconda linea di fronte alla rocca e avevano preso le loro frecce dalle sacche apposite.
Gli archi avevano ripreso a emettere il loro canto, le balestre il loro schiocco; ogni nota bassa di quell’arpa era una freccia che andava a segno nel petto della falange del Nord. La falange, guidata da Armilkhor stesso, in sella al suo magnifico cavallo, aveva già fatto arretrare verso il bosco la divisione centrale del Trenth, guidata da Athonalo, assottigliandone le fila e avvicinandosi sempre più ad Hamac e al grande vessillo del balivo, quando le frecce ripresero a fioccare, seguite subito dopo dagli uomini dell’ala sinistra di Hamac, comandati da lui stesso montato sul suo possente destriero addestrato a mordere, indietreggiare e scalciare con gli zoccoli ferrati. A dar manforte ad Hamac, spintosi tanto avanti da restare isolato, intervennero i combattenti veterani, che, accantonati gli archi, avevano impugnato asce e spade, e stavolta si presentarono persino le donne della rocca, armate di pugnale.
Eloric sferrò un fendente ad un fante del Trenth, che cadde riverso, poi, sentendo il portabandiera della sua Guardia lanciare un urlo di terrore, si voltò e vide il suo grande stendardo precipitare a terra. Il portabandiera, privato di una gamba da un’ascia nemica, crollò al suolo emettendo strazianti grida, e subito una calca di arcieri e armigeri si avventò su di lui uccidendolo selvaggiamente e strappandogli il vessillo. Il cadetto di Eloric ne approfittò per afferrarlo per il mantello e trascinò il suo capitano fuori della mischia, al riparo fra la vegetazione del lago. Altri guerrieri si raccolsero attorno a Eloric, per fargli da scorta e allontanarlo da lì. Alle loro spalle gli uomini di Hamac, dal fianco della collina, menavano fendenti, infilzando i nemici con le pesanti spade, e, nell’uccidere, imprecavano. Eloric tentò di tornare indietro, per continuare a combattere, ma il cadetto non lo mollò. Anzi, gli urlò: “Corriamo, sire! Corriamo!”. E corsero, corsero per le loro vite, fino a quando i montanari della rocca di Fiammanera non li raggiunsero e li abbatterono.
Uomini in preda al terrore tagliavano la strada ai rinforzi del Mispir e fuggivano verso valle, e il cavallo di Armilkhor travolse un membro della Guardia, inciampando subito dopo in un cadavere steso a terra. I Valdacli del Trenth erano infatti penetrati nella retroguardia di Urland e Armilkhor, resosi conto del pericolo, spronò il proprio destriero. Un fante nemico gli tirò un fendente, ma egli schivò il colpo e, lanciandosi al galoppo, si sottrasse a quel pericolo. Il suo esercito si stava disintegrando, disperdendosi in rivoli di fuggiaschi atterriti, mentre Hamac continuava ad avanzare spingendolo indietro verso la valle dalla quale era venuto. Sotto gli occhi di Armilkhor, Borothil, il condottiero giunto da Umbar sulle navi di Cirmoth, tentò di montare in sella a un cavallo, ma venne afferrato per una gamba e trascinato al suolo da un arciere, il quale, tenendolo immobilizzato sotto il peso del proprio corpo, gli tagliò la gola. Anche Unullò era morto, mentre Dalenor era stato fatto prigioniero, e Murakhor era alle prese con due montanari, le cui asce percuotevano le piastre della sua armatura come martelli da fabbro. Uno degli smisurati tamburi di Urland, con le pelli strappate e macchiate, rotolò lungo il fianco della collina, acquistando velocità via via che il pendio si faceva più rapido, rimbalzando con suono sordo sulle rocce finché non cadde di lato e si fermò. Armilkhor si fermò a guardarlo; il grande vessillo di Valandor Hamina era ormai in mano ad Hamac, come gli stendardi di una dozzina di nobili signori del Mispir. Alcuni uomini di Gondor, unitisi la notte prima alla sua falange, correvano verso nord, e uno di essi, che prima era stato valorosamente in prima fila, correva persino verso gli arcieri del Trenth, sicuramente impazzito. E quella donna, in mezzo ai nemici; era lontana ma la distingueva come se fosse a pochi passi da lui. Bellissima e circondata dal fuoco e dagli alberi, come se gli stessi si muovessero a suo comando. Una donna da amare disperandosi. Fu in quel momento che Armilkhor si rese conto di quanto vicina a lui fosse la schiera di lance nemiche; si voltò per affrontarla, sotto lo sguardo fiero di Hamac che lo fissava sfidandolo, e ne abbatté molte, e ne fu travolto.
Nolomir, che quel giorno, assieme ai guerrieri di Valandor Hamina, era stato tanto vicino alla vittoria, era uscito sano e salvo dal combattimento e adesso si trovava sul lato settentrionale del passo, mentre Armilkhor s’inabissava sotto la massa dei nemici e il suo cavallo fuggiva a ovest, tra le ombre create dal sole ormai più basso delle alture verso cui fuggivano nel disperato bisogno di un rifugio. Pensava alla sua sposa. Era forse gravida? Gli era stato detto che Valandor si era rivolto a una strega, affinché facesse un incantesimo e la rendesse sterile, ottenendo così che il trono non passasse dagli Hamina alla sua casata così come avrebbe dovuto accadere alla nascita del bimbo.
“Sire! Sire!”
Il grido di uno dei suoi uomini lo distolse da quelle fantasticherie ed egli avvistò un gruppo di arcieri del Trenth nella vallata sottostante. Com’erano riusciti ad arrivare laggiù prima di lui? Si piegò a destra per guardare di nuovo verso il passo, e sentì una freccia piantarsi nel petto di uno dei suoi scudieri. Un altro dei suoi uomini era crollato a terra e rotolò sul pendio irto di rocce che gli frantumarono la cotta di maglia, riducendola in lucenti brandelli. Udì un grido, terribile, stridulo, vide un fiotto di sangue spandersi nel fioco chiarore crepuscolare e una grande ombra volò sopra di lui: una creatura terribile, come una grande aquila mossa contro di loro dal Male. Nolomir fece una smorfia, che gli riaprì la ferita alla guancia che aveva appena smesso di sanguinare, e rosse gocce ripresero a colare dal suo mento, finendo sulla sopravveste stracciata. Avendo visto davanti a sé un fiumiciattolo attraversato da un piccolo ponte di pietra, si stava chiedendo come si potesse costruire un ponte in muratura su un corso d’acqua così insignificante quando incespicò lungo la discesa e capitombolò a terra. Si rialzò faticosamente e corse verso il ponte, dove tre dei suoi uomini lo aspettavano. “Sotto il ponte!” gridò Nolomir. Quell’arco di pietra poteva servirgli da riparo, da nascondiglio, in attesa di radunare una dozzina di uomini e tentare la fuga. Il buio stava per arrivare, un intero giorno era passato, e, una volta caduta la notte, loro potevano mettersi in viaggio e ritrovarsi, all’alba, lontani dal passo, al campo.
Così i quattro guerrieri di Valandor Hamina, uno dei quali era un principe, si rannicchiarono sotto il ponte e trattennero il fiato. Sul ponte risuonò un fragore di passi e, finché questo non svanì, nessuno dei quattro osò aprire bocca o persino scambiarsi un’occhiata. Sulla sommità del passo si levò il suono di una tromba: un odioso suono di trionfo e scherno. Nolomir chiuse gli occhi, perché temeva che si riempissero di lacrime.
Tremila valorosi erano giunti a Fiammanera per soccorrere Eloric e conquistare il passo; più di mille giacevano ora morti, e altrettanti si erano arresi ad Hamac. L'esercito di Urland non esisteva più.
[size=2]adattamento di un brano tratto dal romanzo "Il Cavaliere Nero", di Bernard Cornwell[/size]
“Donde proviene?”, chiese il balivo, indicando Niara. “Porta il segno degli Elfi. Non è forse una delle fanciulle del popolo che vive là fra le foreste, in un posto assai remoto?”
“Ella proviene dalle lande che si trovano ai confini del vostro paese”, rispose Ardic. “Ma ormai vi dimorano soltanto spiriti maligni di cui non desideriamo parlare”, aggiunse, istintivamente.
“Vedo che storie arcane circondano il vostro passato”, disse il balivo, “ed ecco provato una volta ancora che l’aspetto di un uomo può indurre in errore. Vedo che le parole non ti turbano e che il tuo è un parlare cortese, anche se suona in modo alquanto strano per noi delle montagne. E nei giorni a venire avremo gran bisogno di persone cortesi, siano esse della nostra razza o meno. Ed ora presta giuramento innanzi a me!”
“Tieni l’impugnatura”, disse Hamac, “e ripeti ciò che dirà il balivo, se sei risoluto nei tuoi intenti”.
“Lo sono”, rispose Ardic.
Il vecchio depose la spada sul proprio grembo e Ardic poggiò le mani sull’impugnatura, ripetendo lentamente le parole del balivo:
“Giuro di essere fedele e di prestare i miei servizi all’Alleanza, ai Sette Signori delle Città, i Valdacli, e al balivo della Città di Trenth che li rappresenta, nelle parole e nel silenzio, con l’azione e con la quiete, andando e tornando, nel bisogno e nell’abbondanza, in pace ed in guerra, con la vita o con la morte, da questo momento in poi e sino a quando il mio signore non mi avrà rilasciato, o sino all’ora della mia morte o della fine del mondo. In fede ho parlato io, cittadino Ardic, della Città di Ostelor”.
“Ed io ti ho udito, io, balivo di Trenth, Sovrintendente in nome dei Sette, e non oblierò le tue parole, né mancherò di ricompensare ciò che mi sarà dato: fedeltà con amore, valore con onore, tradimento con vendetta. In nome dei Sette, Ardic, ti affido la rocca, e sarai d’ora in avanti il Barone di Fiammanera!”. Poi la spada fu restituita ad Ardic che la ripose nella guaina.
“Ed ora”, disse il balivo, “ecco il mio primo ordine: parlate, non nascondetemi nulla! Narratemi l’intera storia e di come avete vinto, e cercate di rammentare tutto ciò che vi è possibile. Ora sedete, valorosi amici, e cominciate!”
[size=2]Adattamento di un brano tratto da "Il Signore Degli Anelli" di J.R.R. Tolkien[/size]
Infine, giunse il giorno della partenza. Coloro che dovevano andare si congedarono dal balivo di Trenth e dal barone Ardic: Athonalo e gli altri guerrieri delle colline, assieme alla gente di Mispir alla quale Ardic aveva concesso l'onore delle armi, e Hamac e Nìn si apprestarono a partire; ma Kiryazis e Loras rimasero ancora per qualche tempo a Fiammanera, e con essi rimase anche Niara, e disse addio ad Hamac. Nessuno vide il suo ultimo incontro con il soldato di Seregul, perché salirono in alto, fra i boschi inondati dalla calda luce dell'estate, e stettero assieme a lungo, in silenzio, e amara fu la loro separazione, destinata a durare oltre la fine del mondo.
Infine, prima che gli amici dell'Ultima Locanda si mettessero in cammino, Ardic e Loras si avvicinarono ad Hamac e gli dissero: "Addio, Hamac, scudiero di Seregul! Cavalca verso la buona fortuna, e torna presto da noi!"
E Valdor, che comandava ora Fiammanera e la sua forte guarnigione in servitù ad Ardic, disse: "Gli antichi re ti avrebbero coperto di doni in tale quantità che non sarebbe bastato un carro a trasportare il frutto delle tue gesta; eppure tu dici che non vuoi altro che la pace della tua locanda. Hai rifiutato tutto ciò che ti è stato offerto. Rispettiamo il tuo volere, poiché non abbiamo doni degni di te; ma Eloric ti prega di ricevere questo pensiero, come ricordo di Rocca Fiammanera e dei corni del Mispir al sorgere del mattino".
Allora Eloric, capitano di Urland e prigionero nella Rocca, si fece avanti e diede ad Hamac il suo antico corno, piccolo ma meravigliosamente intarsiato d'argento, con un balteo verde: gli artisti vi avevano inciso le immagini di agili cavalieri galoppanti in una lunga fila che si avvolgeva attorno al corno dall'estremità all'imboccatura; e vi erano anche incise rune dalle grandi virtù.
"Fa parte dell'eredità della mia casata", disse Eloric. "Lo fecero i Nani, e proveniva dal bottino dei draghi delle Montagne Gialle. Nella Seconda Era, lo portarono dall'Est. Colui che lo suona nell'ora del bisogno, desterà paura nei cuori dei nemici e gioia nei cuori degli amici, ed essi lo udranno e verranno in suo aiuto".
Allora Hamac prese il corno, non potendo rifiutare il dono, e s'inchinò al capitano suo avversario; costui s'inchinò a sua volta, e baciò la mano di Nìn, la figlia di Hamac. Ed essi, nemici in battaglia ma fratelli nell'onore, si abbracciarono, e così si separarono.
[size=2]Adattamento di un brano tratto da "Il Signore Degli Anelli" di J.R.R. Tolkien[/size]
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