"Nelle colonie accadono cose misteriose; mi hanno parlato di improvvise tempeste, di pacifici sciamani divenuti improvvisamente dei sanguinari fanatici, di morti che camminano. Narca Nivan, prima dell'estate, ha mandato a dire a mia madre che un libro terribile, misterioso, era capitato nelle sue mani.
Ricorderai che Gondor, più di un anno fa, ha mandato una spedizione; tre navi, comandate da Valadil, un Dunedain. Si sono fermate qui in porto; hanno arruolato operai e carpentieri per costruire un loro piccolo presidio vicino alla capitale di Same.
Il Dunedain e i suoi sono stati uccisi. Anche Cledda, il ministro di Nurmi, è stato ucciso. Mi hanno parlato addirittura di cadaveri che camminano!
Non credo a tutto, naturalmente. I pescatori delle colonie sono superstiziosi. Ma la preoccupazione sui volti dei messaggeri arrivati all'inizio dell'estate era evidente, e anche senza tirar fuori storie di morti che vivono e camminano, di libri di magia e di stregoni, specie dopo il disastro della spedizione di mio fratello e la morte di Tadoor, che vuol dire per noi la perdita di tutto l'argento di Same, ci sono comunque notizie sufficienti per far preoccupare Hiar Tamir e tutto il Consiglio. Se Ahnta fosse stata ancora viva, non ne avrei parlato con Tamir, naturalmente... sono cose che devono restare all'interno della famiglia.
Quando questi messaggeri delle colonie sono arrivati, ho avuto come un presentimento; come se la loro venuta non fosse solamente un numero preso da un tiro di dado. Ho fatto svegliare mia madre, quella sera; ormai non si svegliava quasi più, sapevo che era alla fine. Mi ha ascoltato; era lucida. E mi ha parlato. Mia madre mi ha detto di riportare Ahnta a casa, e di cercare di capire che cosa sta succedendo nelle colonie. Mi ha detto che il libro menzionato da Narca, per lui incomprensibile, potrebbe essere appartenuto a Shakor Belechael. Ti ricordi di Shakor?
Dopo la morte di mio padre, Belechael si era molto affezionato a lei... si erano affezionati l'uno all'altra. Le cose non erano andate bene. Io e Arakhon eravamo troppo piccoli per capire, e non ne abbiamo mai saputo nulla, ma mia madre mi ha raccontato che Belechael aspirava alla conoscenza di segreti che non dovrebbero essere uditi da orecchie di uomini o donne; negromanzia, orribili incantesimi, conoscenze nascoste in luoghi dimenticati. Lui usava scrivere tutte queste cose in un libro protetto da un codice segreto. L'eresia della vita eterna!
Una maledizione che non ha mai abbandonato il nostro popolo. Il denaro comprerà la tua via verso la società, un cavallo ti ci potrà portare, e nessuno viene impiccato per avere una borsa piena di soldi, ma la maledizione, la paura della morte. Non riusciamo a rassegnarci alla nostra fine, alla decadenza dei nostri corpi.
Belechael fuggì da Ostelor quando il Consiglio venne a conoscenza delle sue nefandezze; si nascose a Same. Mia madre non l'ha mai perdonato.
Ho sbagliato a mandare Arakhon da solo in cerca di Ahnta; mi sono fidata troppo di Sha Bla, l'ho ritenuto di molto superiore alle sue reali capacità. Sha Bla avrebbe dovuto aiutare mio fratello, sopperire alla sua mancanza d'intelletto. Ma comunque è colpa mia, non c'è nessun altro vero responsabile in questo fallimento; ho scelto male i pezzi da muovere. La portata del fallimento, la morte di Ahnta e la rottura del fidanzamento di Arakhon e Paraphion sono stati colpi terribili. Ma se Shakor Belechael ha trovato veramente a Same ciò che cercava, avremo bisogno della benedizione di Manwe. E allora diverrà necessario informare della cosa il Consiglio, e forse lo stesso re di Gondor"
Le due donne si abbracciarono forte; Artagora ebbe l'impressione che le loro labbra si sfiorassero, ma non ne fu sicuro, e comunque trascurò la cosa. Aveva sentito ormai Arakhon dire di tutto della sorella, compreso questo, e non prestava più attenzione agli sfoghi del Valdaclo. Ma l’affetto fra Ar-Venie e quella ragazza mora e minuta, quasi il suo esatto opposto, era evidentemente molto.
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Ar-Venie Eshe
“Mi sei mancata”, disse Ar-Venie.
“Sono stata via appena qualche settimana, e mi sono anche divertita. Dovresti viaggiare di più anche tu, star sempre chiusa qui dentro ti fa invecchiare. Ti vedo più vecchia”.
Rimase stupito. Tara, così si chiamava la nuova venuta, gli era stata presentata come una servitrice del casato e della compagnia mercantile degli Eshe. Dal suo rientro da un viaggio al momento in cui l'aveva scorta intrufolarsi nelle camere di Ar-Venie non aveva rivolto la parola quasi a nessuno; con la sua padrona, però, dimostrava una confidenza inaspettata.
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Tara
Artagora non amava molto il suo nuovo ruolo, e odiava origliare e star nascosto dietro le tende come un ladro; la situazione d'altro canto l'imponeva. O così, o non sarebbe tornato a casa ancora per molto tempo. Ar-Venie non badava molto a lui e aveva scoperto presto di godere di una discreta libertà di movimento. Nella natia Hathor, la scaltrezza era apprezzata, e fare di necessità virtù era d'uopo.
“Ne sappiamo qualcosa di più”?, chiese Ar Venie, ansiosa.
Tara si strinse nelle spalle, con un gesto sbarazzino fatto forse con l’intenzione di sciogliere un pò la tensione, ma la sua espressione rimase involontariamente grave.
“No”, disse. “O meglio. Ho notizie che forse non sono collegate al viaggio e a quello che mi hai chiesto di fare a Isra, ma che non ti faranno piacere”.
Ar Venie si sedette pesantemente sulla sua sedia. “C’è stato qualcosa forse che mi abbia fatto piacere, di recente?”, disse con amarezza. “Da quando ho mandato Arakhon nelle Colonie è stato un susseguirsi di disastri. Hai ricevuto le mie lettere? Sai quello che è successo?”
Tara si appoggiò alla mensola vicino al caminetto, e la guardò. “Ti vedo veramente invecchiata", disse, sempre sorridendo. "Si, le ho ricevute. Il matrimonio saltato e tutto il resto. Va così male?”, chiese.
“Peggio”, disse Ar Venie. “Sono piena di debiti. Niente di così grave da minacciare direttamente il casato, per ora, ma se fossi costretta a realizzare, sarebbe necessario vuotare i magazzini, vendere tutto, e questo ci lascerebbe senza niente di riserva". Giocherellò con il suo fazzoletto.
"Se si venisse a sapere", continuò dopo una breve pausa, "Qualcuno nel Consiglio potrebbe approfittarne. Potrebbe gonfiare ad esempio per un pò il prezzo delle spezie, magari aumentando il dazio o mettendo su un blocco con dei mercenari. Da Tul Isra arriva già così poco ultimamente. E allora si, sarebbe la fine”.
Ar Venie si morse le nocche. “Avevamo bisogno del matrimonio, Tara. Ma non occorre che te lo dica”.
“E’ un peccato", rispose Tara. "Paraphion è così bella, e la sua famiglia è ricca. Come abbia fatto tuo fratello a combinare tutta questa confusione, non riesco a capirlo. Dov’è adesso?”, chiese.
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Arakhon
“In giro a bere, con i suoi nuovi amici. Sarà contento di rivederti. Non è completamente colpa sua, comunque. Il costo del riscatto però è stato alto, e con te nel Chennacat e l’impegno nelle ricerche, non potevamo permettercelo. E l’argento di Tadoor dalle colonie non arriverà; è stato giustiziato da Nurmi. Però posso consolarmi; adesso ho un'insegnante di filosofia", sospirò.
“Non c’è male”, disse Tara.
“Non so proprio come fare”, rispose Ar-Venie.
“Potresti sposarti”, disse ancora Tara.
“Tara, sei impazzita?”. Ar-Venie sembrò sinceramente colpita da quella frase, come preoccupata.
“Un giorno dovremo parlarne seriamente, Venie", continuò la giovane. "Nessuno sa niente, ma sarà così solo se tutto continuerà ad andar bene. Se la situazione dovesse peggiorare ancora, ci saranno addosso. Sei una donna di Ostelor, Venie. Se tu fossi sposata...”
“Parliamo di Anil”, l'interruppe Ar-Venie.
“Esiste", rispose Tara dopo un attimo di esitazione. Poi continuò, più sicura di sé.
"Gli appunti di Narca Nivan erano frammentari, ma sono stati sufficienti per far rintracciare la vecchia. Mi hanno confermato che le hanno parlato e che altri si erano interessati poco tempo fa alla storia di Shakor; sicuramente uno di loro è quel Ciryaher che è venuto con tuo fratello”, disse.
“Parlerò con lui”, rispose Ar-Venie.
“Nelle Colonie hanno trovato sicuramente qualcosa", continuò Tara. "Vestigia di una Carnadùne, probabilmente. Informazioni sui codici studiati da Shakor, e forse il modo di decifrarli. Ma sono stati seguiti, sicuramente spiati; sapevamo già che i Dunedain della spedizione e il nostro ambasciatore erano stati uccisi, ma il termine era improprio. Sono stati massacrati". Ar-Venie s'irrigidì, gli occhi spalancati.
"Da un culto conosciuto come 'Amuku'", continuò Tara. "La gente del posto giura che una notte i morti sono usciti dalle loro tombe e che hanno messo a ferro e fuoco l’accampamento di Gondor”.
“Tara, questa l'avevo già sentita da quelli venuti con Narca, ma credevo fosse superstizione. La cosa ci sta sfuggendo di mano", disse Ar-Venie. Era spaventata. "Non siamo né il Consiglio, né legati del Dominio. E non siamo vicini al re di Gondor. Ho mandato Arakhon in aiuto di Tadoor perché così mi aveva chiesto mia madre, ma sfidare un culto di fanatici e mettersi apertamente contro il reggente delle Colonie adesso che ha sedato la ribellione è troppo. Troppo alto il rischio, se rapportato al guadagno”, concluse.
Artagora, nel sentire il tono della sua voce, ebbe l'impressione che stesse cercando di convincere sé stessa più che la giovane Tara, che sembrava invece piuttosto decisa a proseguire nel suo racconto.
“Specie se si tratta dell’Ombra di Mordor”.
“Cosa? Che dici?”, disse Ar-Venie, ora visibilmente agitata. "Mordor è caduta. E' finito tutto".
“Ascoltami, Venie. A Isra ho cercato parecchio, ed ho scoperto questo. Attorno al 1900 della Seconda Era, il regno di Ciryamir era quasi alla fine; ricorda gli insegnamenti del nostro vecchio maestro. Akhorahil, il figlio di Ciryamir, a detta delle leggende di Tul Isra, strinse un patto con un vecchio sciamano Haradan, e scambiò i propri occhi con due gemme dette 'Gli Occhi del Pozzo' ", disse.
“Lascia stare. E’ decisamente troppo. Non voglio sentire più niente!”
“Venie, non possiamo lasciar stare. Le cose nel Chennacat, e anche nelle Colonie, potrebbero star andando avanti”, disse Tara.
“Che vadano avanti", ribattè Ar-Venie. "Ricordo molto bene quello che dissero dell’eresia di Shakor. Già per denunciare al Consiglio un legame fra essa e gli avvimenti nelle Colonie avrei avuto bisogno di molte prove, e in quel momento non ero quasi in miseria. Questo è ben di più. Non mi crederebbero mai, tantopiù ora che dopo essere partito con tre navi Arakhon è tornato a mani vuote”, disse. "Anzi, è tornato da schiavo riscattato. Pensa se si sapesse in giro".
“Ar-Venie, dobbiamo mandare qualcuno fino al Chennacat e agli Ered Laranor", disse Tara con decisione. "Forse è partito tutto da là; i marinai delle navi di Ahnta ricordavano molto bene un passeggero di nome Zalarit, perché era poi rimasto nelle Colonie assieme alla vostra sorellastra. Quest’uomo era conosciuto anche a Tul Isra. Dobbiamo interrogare il mercenario di nome Peshtan”, disse.
“Peshtan? E' al servizio di Paraphion adesso. No, no, che vadano a morire. Non voglio niente di tutto questo, in casa mia. L’Ombra di Mordor... no. Dimentichiamo ogni cosa”, disse Ar-Venie, nascondendosi il viso fra le mani.
Udirono uno schianto; qualcosa era caduto senza dubbio a terra, e si era rotto in mille pezzi.
“Zitta!”, esclamò Tara. “Non siamo sole”. Estrasse un lungo pugnale che teneva nascosto nell'abito a maniche larghe, e si diresse verso le tende. Stava già per strapparle e avventarsi contro chi certamente si nascondeva dietro ad esse, quando il grosso Narya le saltò praticamente in braccio sbucando dal nulla.
“Gatto!”, gridò Tara, rilassandosi. “Questa volta hai rischiato la tua bella coda. Che cosa hai rotto? Dopo dovrai farmi vedere...”
Lentamente, silenziosamente e mai così convinto dell'adeguatezza di quel modo di dire, Artagora sgattaiolò via.
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Artagora
“Ora però” , continuò Artagora, proseguendo nel suo ragionamento e camminando in cerchio, mentre Ar-Venie ascoltava comodamente appoggiata allo schienale del bel sedile di vimini e con in mano un vaso di marmellata, “Se è vero che la giustizia è sapienza e virtù, risulterà facilmente, a mio avviso, anche che essa è più forte dell’ignoranza: nessuno potrebbe più disconoscerlo. Io però, come dite voi, non ho alcun desiderio di condurre l’indagine in maniera tanto semplice, ma pressappoco in quest’altro modo. Ammettere voi che esista uno stato ingiusto?” , chiese ad Ar-Venie. “E che esso cerchi di asservirsi e abbia sottomesso altri stati violando la giustizia? E che, asservitili, molti ne tenga sotto il suo dominio?”
“Come no” , rispose Ar-Venie. “Così anzi si comporterà lo stato assolutamente ingiusto” .
“Comprendo” , disse Artagora. “Ma ci faccio sopra una riflessione, questa: lo stato che diventa più forte di un altro eserciterà questo suo potere prescindendo dalla giustizia, o sarà obbligato a ricorrervi?” . Si voltò verso Ar-Venie, guardandola.
“Se le cose stanno come dicevate poco fa, se cioè la giustizia è sapienza, lo eserciterà con giustizia” , replicò Ar-Venie sorridendo.
“Mi compiaccio molto” , fece Artagora, “Che non vi limitiate a fare cenno di sì e di no, ma che rispondiate pure, e assai bene” .
Tara, accovacciata vicino alla balconata su un mucchio di cuscini di seta, cercava di scrivere tutto nella sua bella calligrafia e nei caratteri rotondi di Ostelor. Le piaceva stare a sentire Ar-Venie e Artagora che discutevano; qualche volta partecipava lei stessa alla conversazione, e leggeva le sue poesie, che Artagora trovava non certo sublimi e in più casi grammaticalmente scorrette, ma... innocenti, e piacevoli.
“Ora, signore” , stava dicendo in quel momento Ar-Venie, leccando il cucchiaio con il quale aveva appena terminato di mangiare la marmellata, “Purtroppo non abbiamo più tempo per la filosofia. Poiché siete stato già tanto gentile nel trascorrere questo tempo con me, e dato che vorrei mandare subito Tara al mercato, vi chiederò di esserlo ancora di più e di accompagnarmi al porto: s’incontrano sempre molti soldati poco raccomandabili intorno a Porta Reale e senza il mio cane...”
Artagora dichiarò che sarebbe stato felice di agire da vicario di una creatura tanto nobile. Una parte della sua mente si era già distratta, ritornando all’argomento dei mutamenti d’umore di Ar-Venie e delle loro cause. Un’altra parte era però ben presente e il silenzio che seguì in certa misura deliberato; non durò a lungo, ma come aveva previsto, Ar-Venie ne rimase turbata. La donna era in uno stato di tensione, una tensione che Artagora percepiva con sempre maggiore chiarezza, e il suo tono di voce così come il suo sorriso gli apparvero artificiali quando gli domandò: “Vi piacciono i cani?”
“I cani, signora?” , ripetè Artagora, lanciandole un’occhiata in tralice e sorridendo. “Vediamo, se voi foste una comune gentildonna, incline alle banalità cortesi, io esclamerei: ‘Dei del cielo, signora, io li adoro!’, dimenando la mia persona nel modo più grazioso possibile. Ma dato che di voi si tratta, osserverò soltanto che interpreto le vostre parole come una richiesta che io dica qualcosa: avreste potuto altrettanto bene domandarmi se mi piacciono gli uomini o le donne o perfino i gatti, i serpenti, i pipistrelli.”
“I pipistrelli no!” , protestò Tara, con un'espressione di disgusto.
“I pipistrelli, sì” , ribatté Artagora. “Sono diversi tra loro al pari delle altre creature: ne ho conosciuti alcuni vivacissimi, allegri, altri malinconici, cupi, ribelli, ostinati e scontrosi. E naturalmente lo stesso vale per i cani: vi è tutta una gamma di sfumature diverse, dal servile botolo furbastro all’eroico vostro Ponto”.
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Ponto, il mastino di Ar-Venie
Ponto era una creatura arcigna, ipercritica, puritana e seriosa, con il collare dalle punte di acciaio: un mastino delle dimensioni di un piccolo vitello, che scortava sempre Ar-Venie, moderando il passo per adattarlo a quello della padrona e proteggendola dalla pur minima familiarità grazie alla sua presenza. Da quanto Artagora era riuscito a capire, era stato chiuso nella legnaia in punizione per aver ucciso un asino.
“Caro Ponto” , mormorò Ar-Venie mentre uscivano di casa. “E’ un gran conforto per me; ma vorrei che fosse un pò più intelligente. Mio padre aveva un pastore del basso Miredor, un cane da palude, che sapeva fare le moltiplicazioni e le divisioni. Ponto invece assomiglia a mio fratello.”
“Eppure” , rispose Artagora, “Nei cani esiste una qualità, devo confessare, che raramente si nota in altri animali ed è la capacità di affetto. Non intendo il violento amore possessivo e protettivo per il padrone, ma piuttosto quella mite e fedele tenerezza verso gli amici che si trova spesso nei migliori esemplari canini. E se si considera la rarità di un semplice affetto disinteressato tra gli esseri della nostra specie una volta diventati adulti, ahimè, se si considera come quell’affetto arricchisca enormemente la vita presente, nonché il passato e il futuro di un uomo, tanto da permettergli di guardare indietro e avanti con soddisfazione, bè, è un piacere riscontrarlo nella creazione bruta” .
Ar-Venie non rispose a quell’osservazione, iniziando invece a discorrere sui commerci con il Grande Harad e sulle spezie sempre più care, e Artagora non riuscì a capire se il suo tentativo di risollevare le sorti del povero Arakhon aveva avuto o no successo.
Arrivarono presto al porto; ai magazzini, Ar-Venie si congedò da Artagora, e chiese ad uno dei sergenti di riaccompagnarlo a casa. Per quanto fosse già stato molte volte ai magazzini assieme a lei, questa volta Artagora era stato colpito dall’ordine e dalla pulizia, e dall’efficienza e solerzia con la quale tutti, dal capitano mercenario all’ultimo dei servi, stavano lavorando. Incuriosito, avrebbe preferito restare un pò più a lungo, ma Ar-Venie non aveva fatto menzione ad un suo bisogno di averlo presente, e lo sguardo del sergente era impaziente e abbastanza esplicito.
Fu quando uscirono dalla piccola galleria che copriva la prima scalinata orientale che Artagora notò la galea.
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Una galea dei mari occidentali della Terra di Mezzo
Un bastimento lunghissimo, nero come le navi di Umbar, nero quasi come il lato meridionale della costa al di là della scogliera di Mubara, una desolazione totalmente sterile di rocce vulcaniche; forse centoventi piedi da prua a poppa. Aveva gli alberi curiosamente inclinati in avanti tipici delle galee dei mari occidentali, una fiamma verde a coda di rondine all’albero di maestra e due lunghe antenne incurvate, le vele serrate. Ogni albero aveva, al di dietro della sommità, una specie di cesto o di nido d’uccello nel quale si trovava una figura rivolta verso il porto. Stavano remando con forza, di sicuro, ma accanto alla cabina arcuata a poppa si vedeva soltanto un personaggio in pantaloni sformati color cremisi che passeggiava avanti e indietro. La galea puntava decisa all’attracco sul molo di Ar-Venie, e là molti marinari si stavano già affaccendando per riceverla.
[size=2]Adattamento di un dialogo tratto da "Il Porto del Tradimento", di Patrick O'Brian: ** you do not have permission to see this link **[/size]
"Entri pure maestro" disse Ar-Venie sollevando gli occhi dai documenti che ricoprivano il suo scrittoio.
Artagora entrò nello studio con il consueto passo posato e un po' teatrale, un incedere da filosofo, così la signora della casata lo definiva con la sua sottile ironia.
"allora, sono molto curiosa di sapere cosa ci teneva tanto a mostrarmi personalmete" disse lei notando il plico di fogli di pergamena che l'hathoriano teneva sotto il braccio.
"La ringrazio molto del tempo che mi concede, mia signora"
Lei inclinò con grazia la testa per un istante poi rimase in attesa delle parole di Artagora.
"la mia permanenza come maestro di filosofia presso la vostra casa mi ha concesso soprattutto tempo: tempo per riflettere e mettere a frutto tutte le esperienze sin qui accumulate." Artagora impugnò con entrambe le mani il plico di incartamenti e lo tenne dinnanzi a se con delicatezza. "Questo è il risultato, e sarei molto contento che la rpima persona ad esprimere un giudizio sul mio lavoro foste voi.".Disse porgendole il manoscritto.
"Un libro..."disse lei con tono leggermente sorpreso prendendolo.
Ar-Venie sciolse con delicatezza il nastro che teneva unite le pagine e lesse ad alta voce il titolo."Aforismi, di Artagora di Hathor" .
poi sollevò il primo foglio e si soffermò su alcune parole che avevano attratto la sua attenzione.
"la gratitudine di chi ha scritto queste modeste riflessioni che seguono vanno a chi lo ha messo in condizione di poterle fare: alla signora che lo ha accolto nella sua casa con la grazia di non farlo mai sentire inutile e al condottiero, che ha condiviso la sorte del filosofo con animo di compagno.".
Alzò gli occhi verso Artagora e sorridendo disse "Giu al porto direbbeero un colpo al cerchio ed uno alla botte!",
Artagora sorrise della battuta; i suoi rapporti con Ar-Venie si erano col tempo rasserenati dopo il gelo iniziale, e a lui faceva sempre piacere far sorridere quella donna dagli umori così mutevoli, era un po' di luce in più su quel bel viso austero."un vero filosofo cerca di cogliere tutto il buono che lo coglie in ogni frangente!".
E poi aggiunse"le sorti della famiglia Eshe e della sua signora mi stanno a cuore; in questa casa mi è sempre stata garantita la digmità dello studioso e quel che potrò dare con le mie capacità lo darò."
Lei poggiò una mano sul manoscritto e disse "la ringrazio, lo leggerò con piacere e attenzione"L'hathoriano fece un inchino e dopo un breve cenno di risposta di Ar-Venie si congedò.
Appena oltre la porta pensò a quello che aveva appena detto e all'espressione di lei: lo aveva fissato con quello sguardo affascinante e impenetrabile, come di chi guarda l'orizzonte.
E non sapeva se esserne lieto o preoccupato.
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