“Bisogna fare qualcosa. Bisogna fare qualcosa. Bisogna sempre fare qualcosa. Come diceva mio padre. Sempre qualcosa!”
Il gioiello, appoggiato al centro della tela, su una tavoletta di legno che Ciryaher teneva sopra le ginocchia, raccoglieva a tratti la luce del tramonto, e brillava in maniera strana, quasi sinistra.
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Ciryaher
Da un lato e dall’altro, Ciryaher aveva versato della cera da una candela, e nella cera, con la punta del coltello, aveva disegnato dei simboli, dei piccoli cunei disposti in modo da rappresentare arcane rune.
“Fare qualcosa”, pensò ancora Ciryaher. “Ciryaher, fare qualcosa, bisogna fare qualcosa se no Suri morirà. Sempre che non sia già morto. Starsene a casa propria, ecco che cosa. Lasciar perdere le avventure. Perché queste terre hanno più misteri di quelle che ci siamo lasciati dietro.”
Tara e i marinai erano a prua, intenti a osservare gli ultimi turbini della tempesta che li aveva assaliti ore prima; Tarim, Arakhon e gli altri erano sulla riva. Erano appena tornati dalla giornata di ricerche, e stavano preparando la cena attorno al fuoco.
Ciryaher prese i suoi rotoli; cercò e lesse alcune frasi, imparandole a memoria, poi li ripose. “Fare qualcosa. Salterò anche la cena, ecco cosa farò di sicuro. E io, tutto sommato, in queste cose non ci credo”, disse a bassa voce.
Poi guardò fisso nel rubino, e cominciò a cantare piano.
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“E’ chiaro il perché. Il perché non sognassero. Chi mai potrebbe sopravvivere a lungo a queste fatiche, se dovesse avere continuamente sogni come questi. Sempre corridoi, lunghi, diritti. E in fondo c’è sempre la luce. Devo parlarne con Artagora. Mi viene in mente che potrebbe essere un’immagine della virilità, oppure, perché no, della femmina. Un corridoio lungo, e in fondo c’è la luce.”
Ciryaher si fermò, esausto. Era completamente sudato, e la sua fiasca d'acqua era vuota.
“Luce da una parte, luce dall’altra. Potrei mettermi a gridare, perché sono tanto dentro quanto fuori, non c’è differenza, e cammino da ore. Sono andato un bel po' avanti, e un bel po' indietro. L'unico passaggio è questo qui. E non mi piace proprio perché è l'unico".
Tastò le pareti umide, le esplorò, fino a quando trovò il passaggio laterale. Annusò; sentì aria calda sul viso, e odore di marcio; l’imboccò con decisione.
“Tanto vale provare. La verità non è mai la’ dove c’è la luce. La luce è vita, ma trae anche in inganno. I moscerini vanno verso la luce, e bruciano sul fuoco. E comunque ho finito l'acqua, e se non è per di qua, dovrò tornare. Pareti umide, prima; ma adesso sono asciutte, se le tocco, e l’aria è calda.”
Camminò, e camminò ancora, fino a quando il suo passo non si fece strascicato. Quasi non sentiva più le gambe; le forze lo stavano abbandonando, eppure più sentiva la morsa della stanchezza, più la sua decisione di non abbandonarsi ad essa si rafforzava.
“Donne, donne, non sto facendo altro che pensare ad avere una donna. Non ci pensavo da un pezzetto, e adesso non fa che venirmi in mente. Di sicuro, è tutto legato assieme; donne, cunicoli, sabbia adesso. Sono pieno di sabbia. Ancora una cosa, chiederò ad Artagora ancora una cosa: perché mai un uomo solo provi, d'improvviso, l'impulso di parlare a se stesso, e finisca per non smettere, per continuare, fino a diventare pazzo."
Ciryaher si scrollò di dosso la sabbia, ma ne aveva la bocca e le narici piene.
“Questa sabbia ha il sapore dei secoli. Ma la sabbia non ha un sapore vero e proprio, eppure qui, in questo posto, ce l’ha. E’ tutto collegato. Suri! Suri, sentimi. Cerca di sentirmi, perché non ho tanto tempo da perdere qua dentro a cercarti, e soprattutto non ho tanto tempo, non ne ho proprio per niente, neanche un poco. Non ho più tempo.”
Si ritrovò su un ponte di corda, sospeso su un abisso. Sopra di lui, un cielo rosso fuoco; davanti a lui, solo quelle corde malferme.
“Eccomi qua. Il ponte sull’abisso. Anche questo l’ho già visto. Sul ponte di corda però non ho nessuna intenzione di passare; so già come va a finire, finisce sempre così, si cade di sotto. Farò il giro lungo, scusate tutti.”
Si voltò, e rimase immobile, senza fiato. La ragazza era là, a meno di venti braccia di distanza, oltre uno steccato alto, dal quale filtrava la luce. Vestiva di bianco. Aveva i capelli lunghi, gli occhi nerissimi, e cercava di guardare oltre le fessure.
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Abit
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Ciryaher
Ciryaher, con uno sforzo terribile, si costrinse a cancellare il suo nome dalla propria mente, a non chiamarla. Ma non fu capace di rimanerle indifferente.
“E’ lei. Così, è stato per questo. E’ lei. Sei tu.”
Lei lo sentì, e si aggrappò allo steccato, scuotendolo con violenza, cercando di spezzarne le assi per poter guardare oltre liberamente. Lo chiamò. “Sono qui!”
Ciryaher sentì chiaramente la sua voce. Involontariamente, deglutì, ma in gola sentì solo il bruciore della sabbia. “Sono qui. Dove sei? Sono vicina a te. Aiutami a passare!”
Ciryaher, scacciando l’immagine di lei dalla sua mente, si voltò. Il ponte sull’abisso non c’era più, ma di fronte a lui stava ora una distesa infinita di sabbia, bruciata dal sole, oltre la quale non vedeva nient'altro che luce.
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Non poteva proseguire; ora, però, non poteva neppure ritornare. Non da quella direzione; lei lo avrebbe sentito di nuovo, e l’avrebbe toccato.
“Ponte. Sabbia. Ponte sulla sabbia! Ponte sull’abisso! C'è un legame, per forza, assolutamente. No, non funziona così, così non arriverò da nessuna parte. Suri! Demone d’un uomo, dove sei finito! Suri, rispondimi!”
“Dove sei? Chi sei? Ti conosco? Conosco il tuo nome? Credo di conoscerti. Dimmi il tuo nome...”
Era dietro di lui; sentiva il suo respiro, il suo profumo. Fra un attimo, ora, lei l’avrebbe toccato, e nel suo abbraccio lui si sarebbe abbandonato, si sarebbe perduto. Ciryaher avanzò deciso sulla sabbia rovente; mosse un passo, due, tre, poi sprofondò. Sentì un’altra voce gridare il suo nome da lontano, o almeno fu quello che credette; istintivamente, prima di scomparire completamente nel gorgo di sabbia, allungò un braccio e si sentì afferrare.
Tutto era un turbine, attorno a lui, un turbine nero; sabbia nella bocca, nel naso, negli occhi. Gli toglieva il fiato. Ne mangiava a manciate intere ogni volta che cercava di respirare; aspettava di morire, aspettava che il fiato gli mancasse del tutto, e invece continuava a vivere.
Pian piano, si calmò, e si rese conto di poter risalire. Si arrampicò, lasciando la mano sconosciuta che l’aveva tenuto solo all’ultimo momento, una volta sedutosi, per togliersi la sabbia dagli occhi; quando si guardò attorno, non vide nessuno. Era nel cortile di una casa, una casa in un mondo irreale, fuori dal tempo; Suri era là, poco distante, riverso su una stuoia; mormorava parole senza senso, forse nella sua lingua di Same. Un alone d’ombra lo avvolgeva completamente.
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Nella zona del mercato di Kelen, pur essendo questa poco più di un villaggio, si vedevano taverne, chioschi che vendevano cose da bere, vino e divertimento a sufficienza per un posto così modesto. Qualcuno dei tavernieri ammetteva anche le donne, e in uno di queste taverne, sull’imbrunire, entrò Khalid, un mazzo di fiori in mano, stanco, assetato e coperto da capo a piedi di polvere del Chennacat; ma era felice, avendo trascorso la prima mezza giornata di vera libertà arrampicandosi assieme a Naji su una collina coperta da una leggera vegetazione in gran parte a lui sconosciuta e abitata da strani animali. Naji e Tuija avevano preferito poi andare al caravanserraglio, per vedere se il loro amico Eldoth fosse finalmente arrivato; Khalid li avrebbe attesi la' nella taverna, al fresco.
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Khalid
Khalid chiese vino e acqua, e si sedette nell’angolo; li mescolò in proporzione con la sua sete, mise i fiori nella brocca e bevve finché non ricominciò finalmente a sudare. A parte l’oste e tre graziose serve mulatte, nella stanza poco illuminata si trovavano solo altre due persone: un uomo abbronzato molto grosso, che Khalid non seppe riconoscere - un uomo massiccio e dall’aria cupa; e il suo compagno bianco, più smilzo e insignificante, seduto comodamente vestito con una specie di camicia e brache al ginocchio. Stavano discutendo in adunaico delle vie di commercio, ma non avevano sviluppato del tutto il discorso quando entrambi esclamarono all’unisono, il gigante triste con una voce bassa e così profonda quale Khalid non aveva mai sentita:
“Niente barca, niente barca, niente barca!”
Le tre ragazze mulatte fecero cortesemente eco: “Niente barca” , e, come se quello fosse stato un segnale, portarono le candele e le accesero in vari punti della stanza. La luce cadde sui fiori di Khalid e sul contenuto del suo sacchetto, quattordici pietre colorate e curiose, raccolte per Tuija. Khalid stava studiandone una mentre addentava un pezzo di pane, quando si accorse che una forma scura, l’uomo malinconico, ondeggiava lentamente sulle gambe accanto a lui. Khalid alzò lo sguardo, fece un cenno di saluto e disse: “Prego, siediti.”
“Tu avete anima” , osservò l’uomo, accennando ai fiori. “Anch’io avete anima. Dove trovato fiori?”
“Su montagna” , rispose Khalid con un largo gesto, adeguandosi.
L’uomo sospirò e, tirando fuori dalla tasca un piccolo cetriolo, cominciò a mangiarlo. Non rispose all’offerta del vino da parte di Khalid, ma dopo un po' disse: “Come chiama fiori?”
“Non so dirlo” , rispose Khalid, dopodiché cadde un lungo silenzio. Fu interrotto dall’altro tipo, il quale, stanco di bere da solo, portò la sua bottiglia e la posò sul tavolo di Khalid senza la minima esitazione.
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Radfeq
“Io sono Radfeq, della carovana”, annunciò, mettendosi a sedere. “Ti ho visto con la donna rossa stamattina.” Alla luce della candela Khalid lo riconobbe; un barbiere e cavadenti, che viaggiava con un brutto ragazzino e una borsa piena di ferri. “Crollerà fra breve”, osservò Rafeq, indicando l’altro, che stava piangendo sui fiori. “E anche tu, amico”, pensò Khalid, fissando il viso pallido e gli occhi iniettati di sangue dello smilzo. “Gradisci?”
“Ti ringrazio” rispose Khalid, ormai in ansia per il ritardo di Tuija e la vicinanza del cavadenti, “ma credo che continuerò con il mio vino. Che cosa c’è nella bottiglia?”
“Ah, una specie di spirito che distillano da queste parti. Un vero spirito, io lo bevo per una prova, non per piacere. Lui”, disse, puntando il dito contro l’uomo grosso, “lo beve per nostalgia, così mi ha detto; e io lo incoraggio.”
“Una prova?”
“Si. A Tul Harar e da altre parti affermano che un ubriaco fradicio di spirito di grano cade all’indietro, mentre con il vino cade in avanti. Se ciò fosse vero, mi direbbe qualcosa sui centri del movimento... se puoi capire che cosa intendo. L’uomo qui presente è la mia prova. Incredibile la sua resistenza. Questa è la nostra terza brocca e lui ha bevuto un bicchierino dopo l’altro come me.”
Senza alcun preavviso, l’uomo grosso cadde dalla sedia, afferrandosi ai fiori e rimanendo immobile, le ginocchia piegate come se fosse ancora seduto. Ma cadde di lato, un risultato del tutto inconcludente della prova.
Al rumore della caduta, l’oste si avvicinò con una scopa, le tre serve con un telo, pronte per caricarci il gigante e trascinarlo fuori; Tuija e Naji entrarono proprio in quel momento.
“Eldoth!”, esclamò la ragazza. “Di nuovo...”
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Tuija [Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Naji
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Eldoth
Naji corse, e cercò di rialzarlo; Eldoth doveva essere il grosso, quello che era appena caduto. Assieme, Naji, Tuija e le serve riuscirono in qualche modo a sollevarlo e a metterlo seduto.
“Non ha rovinato i miei fiori”, disse Khalid, lisciandone i petali.
“Ah! Ecco la donna rossa. La conosci già, dunque. Niente centri del movimento! Non si estende, non si estende. Sebbene i testicoli.. sto parlando metaforicamente, capisci. Sono di umore giocondo. No. E voglio anche dirti, negro, che da parte tua questo frugare con donne bianche mi sembra...”
Ciò che sembrava allo smilzo non lo si seppe mai, perché anche per lui era arrivata l’alta marea. Si alzò in piedi, chiuse gli occhi e precipitò fra le braccia di Tuija, cadendo, notò Khalid, in avanti.
[size=2]Adattamento di un dialogo tratto da "Verso Mauritius", di Patrick O'Brian: ** you do not have permission to see this link **[/size]
Il profumo dei fiori. Proprio come quelli che aveva appena raccolto. Strano trovare un angolo degno di Iluvatar in un posto pieno di sabbia e polvere come quello in cui era finito. Più spoglio e antico delle sue terre natìe. Quell'odore, quella fragranza soave. Era tale e quale. L'ultima volta che l'aveva sentito, Kahlid, era stato tra le braccia di Lariesse.
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Quando, agli dei piacendo, il pranzo fu terminato, era metà pomeriggio. Gli uomini andarono a passeggio verso il fiume, che a quell’ora era magnifico, o si fermarono a guardare le giovanette venute dagli accampamenti degli Amazigh, che danzavano sull’erbetta davanti al castelletto di Rintark. Mutamin trascorse così alcune ore, in ossequioso silenzio o in dovuta e gentile conversazione con i notabili che lo avevano invitato, assieme a Daywa, sua moglie, che non parlava molto bene l’apisaico. Farah giocava con le altre servette, e rideva divertita; intanto le donne si stringevano premurose attorno alla sposa, che faceva loro ammirare i doni nuziali. Poi questa cambiò d’abito, e Daywa, seduta accanto al suo annoiato marito, notò che copriva i suoi bei capelli con un grande velo turchese e con una coroncina ornata di pendenti dorati e piume. Il sole era ormai al tramonto, quando la comitiva si dispose a lasciare il castelletto.
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La sposa di Rintark
"Mutamin, si stanno avviando" , disse Daywa, sottovoce, in adunaico.
“Finalmente. Uhm. Stavo per addormentarmi qui, su questa panca d’ebano.”
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Mutamin [Permesso negato per la visualizzazione di questa immagine]
Daywa
“Bisogna sostenere l’onore della casata.”
“Oh, per i profeti. Non me ne parlate. Fa un caldo terribile; ottimo giorno per un matrimonio! E questo vino è altrettanto terribile. L’avete bevuto?”
“Le donne di Isra non bevono vino davanti ai loro mariti.”
“Davvero? Non l’avevo notato. Che peccato, invece, che una giovane così bella e ricercata per la sua dote sia stata data a un uomo indegno di lei.”
“Vergognatevi, Mutamin. Giudicare così il figlio del vostro ospite.”
“Tutto l’impero amoroso è pieno di tragici casi.”
“Il figlio di Massoud è un bell’uomo.”
“Uhm. Rigido come uno stallo. Una faccia priva d’espressione. Mani tozze, unghie corte. Non mi ha rivolto che una parola in tutta la giornata. Niente danze. Peccato, avrei veduto danzare le giovani di questo luogo. Sono graziose.”
“Ma voi siete un uomo serio e anziano, e non guardate più le donne, Andate ora. E’ tempo di dedicarsi a cose più importanti. Dovete incontrare Mohmand.”
“Vi chiedo scusa, Tara, di avervi procurato la noia di un matrimonio delle peggiori provincie. Per una donna di Ostelor, sazia di festeggiamenti... e per giunta un matrimonio senza ballo!”
“Non state a scusarvi. Avete fatto bene invece a portarmi, ci sono molte cose interessanti da vedere e da sentire. Andate. Io rientrerò alla locanda assieme a Farah, fra un poco, mi riaccompagnerà Helal, la figlia di Nabi. Difficilmente, comunque, potrei perdermi fra queste quattro strade”
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Helal
Precedendo di un passo Tara, come d'usanza, Mutamin si avvicinò a Wanis, l’artista errante che stava completando il ritratto della sposa. Dal primo paese dopo Tul Harar, avevano preso l’abitudine di avvicinare quegli artisti, e di chieder loro se conoscessero Naji o se avessero incontrato Tuija oppure Eldoth.
“Farete il ritratto a mia moglie?” , domandò Mutamin, chinandosi sul disegno. “Anche lei è graziosa.”
“Grandi dei, signore straniero! Come potete dire queste cose! Certo che lo farò, per voi, signore! Vostra moglie non è soltanto bella, ma affascinante e delicata come la luna.”
“L’artista è stato molto bravo. Vi ha cinto il capo con una corona di fiori. Nel ritratto, ha colto la vostra espressione e c’è una leggera venatura di malizia. Avete un piglio tigresco.”
“Vi state divertendo, Mutamin?”
“Un poco. Non dimenticate che l’idea di fingervi una delle mie mogli è stata vostra.”
“Fare diversamente sarebbe stato avventato. Ho sbagliato a non proporvelo già alla partenza. Siamo molto all’interno, e raramente le donne della mia età in queste terre girano senza marito. Se sono di pelle bianca, ancora più raramente sono libere.”
“E allora permettetemi di riderne un poco assieme a voi. Purtroppo, anche questo artista non ha mai incontrato Naji o Tuija. Gliel'ho chiesto abbastanza esplicitamente, ma non li ricorda per niente.”
“Mohmand vi è stato utile?”
“Mohmand non è stato niente di più che un altro dei molti mercanti di schiavi. Il ventiquattresimo, credo, da quando siamo partiti da Tul Harar. Aggiungendoci anche quelli incontrati da Arakhon e da Ender, saremo vicini alla cinquantina."
“State ampiamente esagerando. Saranno forse ventiquattro tutti assieme. Forse ho avuto più fortuna di voi; ero seduta vicino alla tavola degli amici di Massoud, e parlavano di una barca come la nostra, con degli stranieri, che si è fermata qui per qualche giorno all’inizio dell’estate e si è diretta poi lungo il Maudar verso Tul Isra.”
“Tuija, o Naji, erano con loro?”
“Non l’hanno detto. Ma parlavano di un uomo che, dal comportamento, avrebbe potuto essere Eldoth. E di qualcosa come di una statua, qualcosa di legato agli dei. Di più non ho capito.”
“Potrebbero essere notizie infondate. Una falsa speranza. O chissà quali avventurieri. Tul Isra è ancora più a sud verso le montagne, e non c'è poi modo di riprendere il corso del Siresha. Dovremmo ridiscendere il Maudar e ciò significa molti giorni.”
“E’ vero. Ma potrebbero essere anche indicazioni utili. E potrebbero essere avventurieri che hanno comprato degli schiavi, e perché no, degli schiavi stranieri. Ne parleremo con Arakhon. Torniamo dagli altri, ora; la sera, comincia a far fresco.”
[size=2]La descrizione iniziale del matrimonio, alcune delle frasi dei personaggi e l'idea per l'avventura sono tratti da "La Venere d'Ille", di Prosper Mérimée[/size]
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Predoni
“Morte, morte e tormento!” gridò Kabeer alzandosi sulle gambe malferme con la fiasca in mano, e cercando di dissimulare la sua instabilità con aria di sfida. “La caccia è andata male, torniamo con sole venti teste nella cesta, e trovo mio fratello morto! Chi è stato! Lo voglio a pezzi, prima di domani. Spiccherò io stesso la sua testa dal busto! Chi?”
“Due stranieri bianchi e una donna della loro razza, Kabeer” , disse Balbis, che non era ancora uscito dalla sua prostrazione e aveva l’aria sconvolta. “Sangue, tanto sangue. A tuo fratello hanno staccato la gamba di netto e a Gizzin hanno sbattuto la testa contro il muro, e non si sveglia più”, disse piangendo.
“Balbis! Che racconti! Una donna. Vi siete fatti battere da una donna. Quando l’avremo presa, la terremo qua, per noi. E gli altri due? Chi sono, chi sono?” , replicò Kabeer.
Dopo essersi inchinato ancora un paio di volte, Balbis rivolse uno sguardo di sottecchi a Balama, il capoccia di Kabeer, senza più piangere e con l’espressione un poco meno sconvolta. L’idea di avere quella donna dalla pelle di luna per se’ e per gli altri lo solleticava. Si fece più attento, mentre Balama alzava le spalle.
“Sono un avventuriero bianco e uno che suona il liuto. E’ successo giorni fa, prima che tu tornassi, Kabeer” , si lamentò Balbis.
“Un suonatore di liuto e una donna con ancora uno hanno pestato la mia gente e ammazzato mio fratello! Parla francamente, Balbis, perché non ti credo. Distruggi questa ridicola storia, e raccontami la verità, perché fra un attimo ammazzerò anche te, Balbis, e se mi hai mentito ti presenterai ai Profeti con l’anima macchiata dalla menzogna!”, rispose Kabeer.
“E’ così, Kabeer” , disse Balama. “Ho sentito anch’io e ho parlato con Sehab e Diaba. Erano due uomini, uno giovane e biondo, un valdaclo dalla faccia brutta e strana, e una donna scura di capelli, con gli occhi celesti e un bel velo di Tul Harar. Sono venuti con una barca da nord, cercavano degli schiavi. La donna è bella e piccolina, è la moglie bianca di un vecchio dell'Harad che è venuto assieme a loro. A Khouri piaceva e la voleva per lui. Erano forti e ci hanno bastonati. Adesso sono partiti, sono andati via verso i Due Fiumi e ormai sono già lontani. E’ andata così. Lascia stare”, disse ancora.
“Pazzo! Sarebbe vero?" , gridò Kabeer. "Ciò che ho creduto di sentire? No! Li prenderemo. Domani mattina monteremo a cavallo, e non torneremo fino a quando non li avrò fatti a pezzi. Shawesh, Abed! Domani, i cavalli migliori. Festa, adesso! Festa nel nome di mio fratello Khouri, fate tutti festa!”
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Cara Urrit,
Siamo arrivati a Tul Isra e fa molto caldo. Il mio amico Cyriare mi ha salvato da una strana strega del deserto. Ha fatto un sogno e con il padron Arakhon e il capitano Ender mi hanno salvato.
Poi ci hanno attaccato i mercanti di schiavi ma li abbiamo fatti scappare.
Tara sta bene e si finge la moglie del principe Mutamin. E' molto divertente. Un pittore le ha fatto un dipinto bellissimo.
Poi abbiamo avuto notizie da un barcaiolo.
Ponto soffre molto il caldo e io pure, mi mancano i giorni sulla Daracil quando il vento soffiava sulle vele e tra i tuoi capelli.
A presto
Suri
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