Interludio: Arakhon, Principe e Imperatore (da qualche parte fra le montagne desertiche del Dàr, dopo l'anno 200 della Quarta Era) | Terra Di Mezzo | Forum

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Interludio: Arakhon, Principe e Imperatore (da qualche parte fra le montagne desertiche del Dàr, dopo l'anno 200 della Quarta Era)
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Trieste
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Novembre 29, 2020 - 11:50 pm

Arcil guardò a lungo il dipinto, in silenzio. Rappresentava l'interno di una casa che lei non aveva mai visitato; il volto quasi bianco della figura femminile, nel ritratto ad olio, risaltava in modo netto, marcato, sullo sfondo ambrato e sugli abiti verdi nei quali l'artista l'aveva immaginata. I suoi occhi erano così tristi; così disperati, che Arcil provò un sentimento simile al dolore. Suo marito si sedeva spesso di fronte a quel quadro, incapace di dimenticarla.

"È la sorella?" chiese Nòlimon.

L'anziana Arcil non sembrò sorpresa dall'affermazione del giovanissimo ambasciatore di Gondor. "Eccone un altro", pensò: "ingenuo, sincero, pieno di coraggio. Impudente. Quanti come lui, sono già venuti". Incredibilmente, Arcil sorrise, cosa che era solita fare molto raramente, solo quando era in preda a forti emozioni, e mosse lievemente la testa in un cenno affermativo. Nòlimon fissò di nuovo il quadro, e disse ancora:

"Era di una bellezza strana. E l'artista ha avuto una mano meravigliosa, nel ritrarla. È così... affascinante".

"Quel quadro è mio, Nòlimon Lúnieyö", disse Arcil. Nòlimon rimase sorpreso. "Lo dipinsi quand'ero ancora giovane, attingendo ai miei ricordi. Era qualcosa che le dovevo... glielo dovevo, per averla odiata, e per aver così tanto maledetto il suo nome. E lo dovevo ad Arakhon, perché lei era morta per colpa mia. Ha più di cent'anni, quella tela: vengo spesso ad ammirarla, e non sono capace... non riesco, nel ricordo di quello che successe dopo, a trattenere le lacrime".

L'ambasciatore si voltò di scatto, e rimase senza parole. Aveva avvertito, nella voce della principessa Arcil, un'incrinatura. Sapeva che stava soffrendo per gli anni, e per ferite dell'animo mai rimarginate; eppure, veder lacrime mute scivolare su quel viso scavato dalle rughe lo turbò moltissimo. Arcil riprese a parlare solo dopo qualche tempo; si asciugò gli occhi con un fazzoletto di seta dai vivaci colori, e si avvicinò ad un tavolinetto, dal quale prese una sottile bottiglia d'un cristallo colorato di smeraldo.

"Gradisce un liquore d'erbe, Nòlimon? Dodici erbe. Non è troppo amaro".

Nòlimon prese il bicchiere, e seguì Arcil in un gesto di saluto al quadro: un brindisi ad Arvenié, secondogenita degli Eshe. sorella di Arakhon. Morta a Ostelar, tanto tempo prima, per difendere la libertà. Senza più dir nulla, sorseggiarono assieme quel liquore, guardandosi, cercando di indovinare l'uno le espressioni dell'altro, pensando al loro primo incontro e a quando Nólimon aveva per la prima volta parlato ad Arcil dell'amicizia del suo regno, dei progetti del re di Gondor, del futuro dei figli di Numenor. "Prima che un'altra guerra distrugga di nuovo ogni cosa, anche la speranza", aveva detto Arcil; ma Nólimon non si era scoraggiato, e l'aveva conquistata con il suo sorriso. Tornarono, piano, nel grande salotto: Arakhon, a poco a poco, vinto dalla fatica delle emozioni e della giornata, era scivolato nel sonno; Arcil gli tolse di mano il bicchiere, e si piegò verso di lui per ascoltare il suo respiro. Già molte volte aveva creduto che stesse male, che fosse giunto il momento della sua morte. Lileath, la loro domestica, la trattenne dolcemente per una spalla, fermandola.

"Lasciate che dorma. È stanco, povero padrone; oggi si sono destati in lui ricordi crudeli". 

"Vi assicuro", disse Nólimon, preoccupato, "che non era mia intenzione". Ero solo curioso, per quel dipinto, per le leggende che avevo udito su Arvenié di Ostelar, sui draghi. Mio padre, a Gondor, mi parlò di lei".

"Ricordo anch'io vostro padre, ambasciatore; un ricordo sbiadito, ma sufficientemente chiaro da permettermi di riconoscere nel vostro volto i suoi lineamenti. Ero ancora una ragazza, quando lo vidi per l'ultima volta".

Lileath, porgendole lo scialle per la notte, si inchinò, e li lasciò soli, congedandosi. Arcil si sedette accanto ad Arakhon, ormai profondamente addormentato; sospirò, cercando la forza di parlare, e poi narrò al giovane ambasciatore cose accadute così tanti anni prima, che non avrebbe mai potuto dimenticare. Mentre parlava, a tratti anche la sua voce s'incrinava, e sembrava che stesse per piangere, ma sempre riusciva a riprendere il filo, e a continuare.

"Voi chiedete di cosa accadde, dopo la visita di Elessar Telcontar e la fine della guerra a Oriente. Ebbene, Nólimon, devo raccontarvi di nostro figlio. Arakhon era così felice, così orgoglioso di lui, tanto da essersi scordato della maledizione, forse, perché gli anni passavano, e tutto stava andando bene. Eravamo persino... riusciti ad amarci, per così dire: che strano destino. Io, e Arakhon, fra tutti gli uomini e le donne del mondo. Me l'avesse detto Mandos venuto apposta sulla terra per parlare con me, non ci avrei creduto". Arcil sorrise; Nólimon si avvicinò, e l'aiutò a sistemarsi lo scialle sulle spalle e sulle gambe. "Nostro figlio, Nólimon, l'unica cosa che era stata capace di unire Arakhon e me nonostante tutto, venne meno in una brutta notte d'estate. La tempesta era stata sempre accolta con gioia dalla mia famiglia, perché portava sempre liete novelle; nella pioggia la vittoria su Ardor era giunta, alla luce dei fulmini io stessa ero nata, accompagnata dai tuoni e dal vento Arakhon mi era stato restituito dopo aver sfidato la trama del Tempo. Non prendete le mie parole per quelle di una pazza, Nólimon: sono vecchia, ma riesco ancora a riconoscere certi sguardi, e l'ultima cosa che dovete provare è pietà per me. Soprattutto perché non la merito. Vi erano cose, qui a sud, che nessuno a Gondor conosceva, e Arakhon era veramente andato e venuto da un mondo e da un tempo a noi lontani, alla ricerca della verità. Arakhon mi raccontò solo molto tempo dopo questi particolari, quando diventammo davvero compagni e iniziò a fidarsi di me".

Arcil chiuse gli occhi, stanca; ora parlava sottovoce. Nólimon prese uno sgabello, e si avvicinò di più a lei.

"Quella volta, vi dicevo", riprese Arcil, "la tempesta fu invece beffarda, e anziché portare la vita ce la sottrasse, e nostro figlio non si svegliò più. Era stato ferito mentre combatteva per noi; eravamo lontani da casa, e le febbri l'avevano colto, ma nessuno credeva che la sua vita fosse in pericolo, temevamo solo per la sua sposa, Lothlò, perché anche lei era stata toccata dalle armi del nemico e le sue ferite erano profonde, infette. Eppure fu lui a morire. Furono le urla della giovane a svegliare gli scudieri: impazzita, chiamava chi non sarebbe tornato, gridava, piangeva abbracciata a lui. Rimase così per due giorni: la notizia ci aveva raggiunti e nell'angoscia ci eravamo precipitati, ma non riuscivamo a staccarla dal suo corpo, le sue mani erano bianche per lo sforzo ed il suo petto sobbalzava impazzito, e non lasciava che la allontanassimo dal suo sposo ormai freddo. Tememmo di perdere anche lei: aveva preso del laudano, e forse nella sua mente ancora lo vedeva e cercava di raggiungerlo. Arakhon vide tutto, rimase impietrito dal dolore per la perdita di nostro figlio, si mosse solo quando Hekaton, l'amico più caro, lo prese dolcemente e lo condusse con lui mentre Lothlò ancora gridava. Il vento abbatté poi le imposte mentre io cercavo di farla rinsavire, piangendo e urlando a mia volta, e un'ultimo fulmine squarciò le nubi ed illuminò la stanza; lei mormorò ancora una volta il suo nome, poi portò le mani al petto come se le mancasse il fiato e piombò nell'incoscienza e nelle febbri della follia. Non si riprese mai più. E per quanto mi riguarda...  non so che cosa mi salvò, Nólimon; avevo giurato che ogni attimo della mia esistenza sarebbe stato eterno amore per mio figlio, ed ero convinta che si, diversamente non avrebbe potuto esser stato. Eppure, dopo che l'ebbero avvolto nel sudario, non provai più niente. Sapevo che non avrei mai più avuto figli, perché la nascita di Nólimon... la nascita di Nólimon aveva chiesto troppo al mio corpo. Non avrei imposto la mia presenza ad Arakhon: volevo lasciarlo libero, anche di avere altri figli, e così ebbi la tentazione di uccidermi. Ma non lo feci. Nostro figlio fu sepolto in quel paese straniero, lontano dalla sua città, e secondo l'usanza degli uomini dell'est, perché per altro non c'era tempo. Non sarebbe stato possibile condurlo a Ostelar: eravamo troppo distanti. Così in poco tempo avevamo perso Laidec, Sparviero, e tanti altri amici; ora perdevamo la nostra luce. Lothlò si riprese lentamente, tanto lentamente da farci pensare che non volesse più la vita, e io la capivo; credo fu il bisogno che lei aveva di me a farmi dimenticare la voglia di morire, e le cure che le diedi e le ore che trascorsi a parlarle e a chiedere di ritornare con me a trarla dalla sua pazzia. Un giorno si svegliò: chiese dell'acqua, disse che aveva fame, e fu di nuovo accanto a noi."

 

.\ Roberto Srelz

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